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La crisi dell’imperialismo Usa, dall’interno e dall’esterno
di Pasquale Liguori
Crisi dell’imperialismo Usa. Israele avamposto imperialismo. Cina, Russia, Iran, Asse della resistenza: multipolarismo delle formazioni sociopolitiche versus Impero. Intervista a Matteo Omar Capasso
A più di sette mesi di distanza dal 7 ottobre di Al-Aqsa Flood, continua lo sforzo titanico di media mainstream per una spiegazione mite, edulcorata degli immani crimini compiuti e ancora in corso a Gaza. Non sembrano sufficienti le quarantamila vittime palestinesi e la totale devastazione urbana nella Striscia a scuotere la coscienza dei produttori di informazione al soldo dell’atlantismo.
Segnali più autentici di rifiuto e contrasto a quest’ordine di cose provengono dall’imponente movimento degli accampamenti universitari che si oppone a programmi collaborativi con Israele, esprimendo sostegno all’indomita resistenza palestinese.
Una delle sfide comunicazionali più rilevanti da quel sabato mattina di ottobre è stata una normale opera di contestualizzazione storica e politica di quegli atti resistenti. Contro di essa si è attivato infatti l’ampio uso di una narrativa che di colpo cancellava un secolo di occupazione, crimini, reati, apartheid operati da Israele. Ancor più sfocata è apparsa la collocazione delle crisi contemporanee all’interno del quadro geopolitico con il protagonismo degli interessi imperialisti degli Stati Uniti d’America per un mondo unipolare sottoposto al loro dominio.
Ritornano perciò utili, profetiche, le parole che vent’anni fa pronunciava il politologo ed economista Samir Amin “Il progetto di dominio degli Stati Uniti – con l’estensione delle dottrine Monroe all’intero pianeta – è sproporzionato. Questo progetto che, sin dal crollo dell’Urss nel 1991, individuo come Impero del caos si scontrerà fatalmente con l’insorgere di una crescente resistenza delle nazioni del vecchio mondo indisponibili a essere assoggettate. Gli Stati Uniti dovranno allora comportarsi come un “Stato canaglia” per eccellenza, sostituendo il diritto internazionale con il ricorso alla guerra permanente (a partire dal Medio Oriente, ma puntando oltre, alla Russia e all’Asia), scivolando sulla china fascista”.
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Tre “malintesi” su guerra civile ucraina e conflitto russo-ucraino
di Andrea Muni
Prosegue con questo nuovo trittico l’approfondimento su guerra civile ucraina e conflitto russo-ucraino, iniziato in due puntate uscite tra ottobre e novembre 2022 (qui la prima parte e qui la seconda) [Ndr]
Una premessa
Due date. Oltre dieci anni fa (20 febbraio 2014) iniziava la guerra civile “aperta” in Ucraina, esplosa in seguito al golpe/rivolta di Maidan, la rimozione del presidente oligarca filo-russo Janukovich e la presa del potere centrale da parte dell’oligarchia filo-occidentale. Da quella data, le due principali fazioni del Paese e le rispettive oligarchie – filo-occidentale e filo-russa – non hanno mai cessato di affrontarsi in armi nella parte più orientale del Paese (Dontetsk e Luhansk), ovvero la parte di Ucraina da subito rimasta (insieme alla Crimea) in mano agli autonomisti/separatisti. In questo scenario, ancora aperto, oltre due anni fa (24 febbraio 2022) iniziava l’invasione russa dell’Ucraina in supporto dei cittadini ucraini autonomisti/separatisti. I morti civili di questi due anni di guerra sono, secondo l’Onu, più di diecimila. Numeri spaventosi eppure ancora lontani, per fortuna, da quelli del genocidio di Gaza (36.000 morti in otto mesi), che in parte si spiegano con la scelta dei russi di non assediare in modo frontale le grandi città russofone di Kharkov e di Odessa.
Alle vittime del conflitto russo-ucraino e della guerra civile vanno ad aggiungersi i milioni di vite spezzate di profughi, feriti, traumatizzati, reduci, molti dei quali – come le vittime stesse – sono anche cittadini ucraini russi (etnia), russofoni (lingua) e/o filo-russi (orientamento geopolitico); persone uccise, ferite e/o costrette a emigrare anche dai nazionalisti ucraini e dagli armamenti Nato, con cui vengono bombardati non solo i civili delle città filorusse di Donetsk e Luhansk, ma anche le città russe di confine (solo a Belgorod nell’ultima settimana sono stati quasi trenta i civili uccisi dalle bombe Nato e ucraine).
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L'affaire Crypto AG e l'"etica" dei nostri alleati
di Alberto Bradanini
1. Di tutta evidenza i tanti segreti di stato che hanno agitato la gioventù e l’età adulta di intere generazioni sono tali solo per il popolo deliberatamente oscurato. Davanti a vicende come quella che segue, le rare riflessioni mediatiche - che incidentalmente emerse sono state subito archiviate dall’azione di sorveglianza di chi ha sempre saputo e taciuto - hanno al più suscitato qualche pubblica ansia passeggera, mai comunque nella psiche di coloro che svolgono occulti ed esecrabili professioni.
Il grande filosofo tedesco F. Hegel affermava che le cose note, proprio perché note, non sono conosciute, di certo non abbastanza. È questo il caso di una vicenda di spionaggio che sembra tratta da un libro di Le Carré. Seppur a suo tempo sviscerata dalla stampa internazionale (poco comunque da quella nazionale), essa merita tuttavia di essere rievocata, affinché non si perda coscienza che molte cose restano occulte nelle tragedie che abbiamo davanti e che la qualità politica ed etica dei nostri cosiddetti amici è quanto mai scarsa.
2. L’11 febbraio 2020, per ragioni tuttora ignote, il giornalista del Washington Post[1] (WP) Greg Miller informa i lettori che per mezzo secolo un elevato numero di paesi al mondo ha affidato la tutela delle informazioni sensibili (quelle che si scambiano al loro interno governi, organismi di sicurezza, militari e diplomatici) a macchinari prodotti da un'unica azienda, la “svizzera” Crypto AG. Una notizia priva di rilevanza se non fosse che quella società, nata in Svizzera, poi divenuta una Joint Venture Usa-Germania Cia[2]-Nsa[3]/Bnd[4]), è servita per fabbricare macchine che consentivano di decifrare le comunicazioni classificate dei paesi acquirenti.
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Fra natura e cultura, conservazione e cambiamento. Una riflessione sulla tecnica e i suoi possibili esiti
di Armando Ermini
Ritengo che la relazione introduttiva di Fabrizio Marchi al Convegno per il decennale de L’Interferenza https://www.linterferenza.info/editoriali/di-bolina-contro-un-vento-gelido-e-sferzante/ meriti qualche riflessione suppletiva nell’ambito di un suo sostanziale e forte apprezzamento.
Per prima cosa credo sia giusto sottolineare questo passaggio su cui concordo in pieno.
Che l’attuale capitalismo sia “patriarcale” è una sciocchezza enorme, sia perché il concetto di “patriarcato” è stato ed è travisato totalmente nel suo significato autentico (non essendoci qui tempo e spazio per argomentare mi limito a rimandare chi fosse interessato al numero 587 di www.ilcovile.it), sia perché è ormai del tutto evidente che gli antichi “privilegi” maschili (uso le virgolette sia perché quelle vecchie prerogative erano bilanciate da un gran numero di obblighi personali e sociali, sia perché quei “privilegi” non riguardavano in nessun modo gli uomini delle classi basse, operai, contadini, piccoli commercianti ecc., ossia la stragrande maggioranza della popolazione).
Detto questo, credo sia importante soffermarsi sulla questione della Tecnica e della scienza, e della loro supposta neutralità, da cui discenderebbe la conseguenza che la partita si gioca tutta sul loro uso giusto o sbagliato, cioè indirizzato o meno verso il bene della collettività.
Circa la scienza, premessa la mia incompetenza, mi limito a osservare, a) che le verità scientifiche non possono essere considerate universalmente valide, ma occorre sempre delimitarne il campo di applicazione. Così è, per esempio, per la fisica newtoniana. b) che, quando una ricerca è finanziata da un ente privato (ad esempio una casa farmaceutica), gli interessi e gli scopi del finanziatore hanno un ruolo molto importante, tale che quella ricerca non può essere considerata “neutra” e fatta solo per amore di conoscenza.
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Una luce di speranza
di Raúl Zibechi
La grande rivolta giovanile nelle università degli Stati Uniti non smette di crescere e mostra una meraviglia di organizzazione e l’incredibile diversità di coloro che vogliono fermare il genocidio a Gaza, arrivando a contagiare anche l’Europa. Le kefiah fanno parte ormai dello scenario urbano su treni, metropolitane e strade delle grandi città. “Non possiamo sapere se la repressione e il bombardamento mediatico faranno retrocedere il movimento – scrive in un reportage di grandissimo interesse Raúl Zibechi da Philadelphia e Los Angeles – Il percorso di queste settimane e già abbastanza trascendente, una luce di speranza per le persone coinvolte…”
Brecha (settimanale uruguayano per il quale hanno scritto, tra gli altri, Eduardo Galeano e Mario Benedetti, ndr) ha girato gli accampamenti nelle università della Pennsylvania e di Los Angeles, mentre migliaia di studenti in tutti gli Stati Uniti manifestavano contro l’aggressione di Israele a Gaza, chiedendo di porre fine agli affari redditizi tra le istituzioni educative e il regime di apartheid di quel paese. In pieno anno elettorale, la protesta preoccupa il governo e le élite statunitensi.
Il 17 aprile gli studenti della prestigiosa Università Columbia di New York hanno iniziato a piantare tende nel campus in solidarietà con Gaza. La polizia ha provato a sgomberare ma hanno resistito. La repressione ha indignato studenti e insegnanti e ha attirato un gran numero di persone all’accampamento. Una settimana dopo, quando centinaia di studenti si sono riuniti in uno spazio centrale dell’accogliente campus dell’Università della Pennsylvania, a Philadelphia, c’erano già più di sessanta accampamenti in tanti altri edifici accademici.
Quest’esplosione di attivismo ha mostrato l’incredibile diversità di coloro che vogliono fermare il genocidio a Gaza. A Philadelphia i più attivi sono stati i giovani bianchi, spesso circondati da afroamericani; tanti anche i migranti latini che mostravano whipalas e bandiere messicane, un gruppo di mussulmani pregavano inginocchiati indossando abiti tradizionali, c’erano moltissime giovani donne e persone queer e trans. Alcuni professori si sono avvicinati con cartelli scritti a mano, manifestando il loro appoggio agli studenti, continuamente minacciati di rappresaglia. Un piccolo gruppo di ragazze ebree si è unito, con il prezioso e audace appoggio degli ebrei antisionisti alla ribellione causata da una guerra che sentono profondamente ingiusta, che non li rappresenta ed è una macchia indelebile nella storia dell’ebraismo.
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Il momento decisivo
di Leonardo Mazzei
Domande (e tentativi di risposta) sugli sviluppi della guerra
Quali saranno gli sviluppi della guerra? Quali in Ucraina, quali in Medio Oriente? Queste ci paiono le domande fondamentali dell’oggi.
Mentre le mortifere società occidentali sonnecchiano, nubi di tempesta s’addensano all’orizzonte. Gli ottimisti pensano che tutto finirà con un temporale, i pessimisti con il diluvio universale. I primi giustificano la loro inerzia con il mantra del “non può succedere”, i secondi con l’argomento dell’impotenza. Entrambi hanno torto, dato che la prospettiva di una Terza Guerra Mondiale pienamente dispiegata è lì a un passo, ma non è ancora inevitabile certezza.
Il torto degli ottimisti risiede nell’errore di una semplicistica equazione: poiché una guerra mondiale porterebbe all’uso illimitato dell’atomica, dunque al reciproco annientamento, nessuno sarà così folle da innescare la propria autodistruzione. Si tratta della riproposizione della teoria della mutua distruzione assicurata (Mutual Assured Destruction, da cui l’acronimo inglese MAD, cioè “pazzo”), in voga durante la Guerra Fredda.
Il torto dei pessimisti è invece quello di non vedere gli elementi di contraddizione presenti nel blocco della guerra, quello che al Cremlino chiamano “Occidente collettivo”. Questo blocco, che ha avviato il conflitto con l’espansione a est della Nato, ha un centro (gli Usa), una potente e ramificata struttura militare (l’Alleanza atlantica, appunto) nonché una fondamentale costola politica nel Vecchio continente (l’Ue). Ma proprio questa sua ampia articolazione conduce a diverse problematicità, alcune delle quali verranno presto al pettine. Ed è su queste che chi si oppone alla guerra dovrà lavorare.
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L’Europa morirà americana?*
di Raffaele Sciortino
Qual è oggi lo stato dei rapporti transatlantici nel quadro del conflitto ucraino e sullo sfondo del montante scontro Usa/Cina? Non è facile anche solo delinearne contorni e possibili evoluzioni sia per la complessità dei fattori in gioco sia a maggior ragione perché uno dei due poli della relazione non rappresenta un soggetto unitario. Qualunque cosa possa rappresentare oggi l’Europa sul piano politico e simbolico, l’Unione Europea (UE) non è uno Stato, non può dunque surrogare la semi-sovranità politica e militare - a far data dalla II Guerra Mondiale - della Germania, suo pilastro economico. Piuttosto, essa si configura come un terreno di scontro transatlantico e intra-europeo se non, sul medio-lungo periodo, come una delle poste in palio nella più generale crisi dell’ordine internazionale apertasi con il tonfo finanziario del 2008.
Comunque sia, nell’affrontare questo intricato nodo vanno tenuti presenti due elementi, che qui non è possibile approfondire. Gli Stati Uniti sono riusciti finora a evitare una recessione economica, dopo lo scontato rimbalzo post covid, grazie sia a forti sovvenzionamenti pubblici alle imprese (Bidenomics) sia alle esportazioni energetiche verso i paesi europei (uno dei dividendi della guerra in Ucraina). È assai dubbio se in prospettiva questa politica industriale possa portare ad una effettiva reindustrializzazione degli States e al ritorno di un compromesso sociale accettabile (la cui disgregazione è la vera causa del trumpismo). È plausibile, invece, che incrociandosi con la guerra economico-tecnologica alla Cina essa prefiguri un nuovo tipo di “economia di guerra”.1 In secondo luogo, e di conseguenza, il conflitto con Mosca non potrà che avere un effetto trascinamento sulla UE essendo plausibile che un’”Europa senza Russia porta a un’Europa senza Cina”.2
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Coreografi, dati e intelligenza artificiale a scuola
di Rossella Latempa
“Immaginiamo un’aula dove alcuni studenti stanno lavorando alla progettazione delle piramidi con difficili calcoli che vengono dati in pasto a un’intelligenza artificiale per generare il progetto perfetto, altri dialogano con Dante al fine di farsi spiegare cosa c’è dietro agli aneddoti che vengono raccontanti nell’Inferno mentre un altro gruppo scrive un racconto collaborando con una chat intelligente. Sono scenari di utilizzo di strumenti di Intelligenza Artificiale Generativa (GenAI) che molti oggi stanno iniziando a immaginare, e, alcuni, a sperimentare.”
Le parole, tratte da un’intervista al sole 24 ore sul futuro dell’istruzione, sono di Cristina Pozzi, oggi Ceo & Co-Founder Edulia dal Sapere Treccani, qualche anno fa membro della task force per la scuola della ministra Azzolina: una manager visionaria, che ricordiamo già da allora per le sue ambiziose fantasie educative (vedi qui). L’immagine che le accompagna ritrae un’ideale scuola del futuro: aula dalle ampie vetrate, studenti di diverse età e nazionalità seduti attorno a tavoli di legno chiaro, tra tablet e artefatti digitali. Il blu è il colore dominante: sono vestiti di blu i due studenti al centro della scena, che danno le spalle a chi osserva, assorti su schermi bianchi e azzurri; blu sono i piccoli robot che camminano tra i gruppi di lavoro e blu è il grande robot-guida che campeggia sullo schermo alla parete. La scena è quasi evanescente: non c’è traccia di disordine, distrazioni, conflitti. Non c’è nemmeno traccia di insegnanti. L’immagine è quella di una comunità aperta, operosa e orizzontale, in cui le macchine collaborano con gli studenti in maniera quasi spontanea. Dunque, è questa la scuola del futuro? Sposteremo le risorse dai salari dei docenti alle Big Tech?
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Narrazioni digitali. Diagnosi di un’immagine mentale
di Patrizio Paolinelli
ABSTRACT. Narrazioni digitali. Diagnosi di un’immagine mentale. In questo paper mettiamo in discussione il racconto ufficiale della rivoluzione digitale. Allo scopo analizziamo i significati contenuti nella sequenza visiva maggiormente utilizzata per interpretare il passaggio da una rivoluzione industriale all’altra. Tale sequenza istruisce il pubblico dei vecchi e nuovi media a un modo di pensare la tecnologia, i suoi effetti sociali e le sue tendenze future. Abbiamo smontato questo modo di pensare per separare la narrazione dalla realtà
Due svolte per una rivoluzione. Le comunità di pensiero (scientifica, letteraria, mediatica) affrontano l’urto dell’innovazione tecnologica sul presente rispondendo alla domanda: cosa sta accadendo oggi? E strutturano il futuro rispondendo a una seconda, inevitabile domanda: cosa accadrà domani? Dagli anni ’50 del secolo scorso i mondi della cultura, dell’impresa e dei media hanno progressivamente riempito biblioteche e archivi on-line di testi (orali, scritti, visivi) finalizzati a capire gli effetti sociali dell’automazione e a prevederne le tendenze future. Un impegno che aveva e ha ancora oggi ottimi motivi. Eccone due: 1) l’avvento della tecnologia elettronica di tipo digitale ha sconvolto i processi produttivi, contribuito a domare la forza-lavoro e affermato una nuova forma di accumulazione del capitale basata sull’informazione; 2) a partire dagli anni ’90 del XX secolo i proprietari dei vecchi e nuovi mezzi di produzione si sono impossessati dell’idea di rivoluzione spodestando nell’immaginario collettivo i rivoluzionari anticapitalisti ormai politicamente sconfitti. La due svolte, una economica e l’altra comunicativa, hanno avuto un successo travolgente e da alcuni decenni l’etichetta rivoluzione digitale è stata incollata all’insieme dei mutamenti innescati dalla tecnologia. Rivoluzione digitale: ecco la risposta alle angoscianti domande sul presente e sul futuro hi-tech.1
Storytelling globale. Corrono gli anni ’70 del ‘900 e il governo statunitense crea de facto la Silicon Valley.2 Se nella patria del profitto privato l’intervento dello Stato nell’economia fosse diventato di dominio pubblico per i tecno-imprenditori à la Steve Jobs si sarebbe trattato di un catastrofico danno d’immagine. A salvargli la faccia ha contribuito lo storytelling globale3 che accompagna i processi di automazione da un’ottantina danni a questa parte in un crescendo impressionate.
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Manipolare i testimoni per deformare la storia
di Paolo Persichetti
Ancora una domenica bestiale su Rai tre, stavolta Report si inventa l’infiltrato della Cia nelle Brigate rosse. In azione il “metodo Mondani”: manipolare i testimoni per deformare la storia
Nella puntata di Report di oggi, domenica 12 maggio 2024, Paolo Mondani intervista lo storico Giovanni Mario Ceci che ha studiato tutti i documenti desecretati delle amministrazioni Usa degli anni 70 e dei primi 80: Dipartimento di Stato, Cia, Security Concil, rapporti dell’Ambasciata americana a Roma. Ricerca poi raccolta in un volume, La Cia e il terrorismo italiano, uscito per Carocci nel 2019.
Nei report desecretati si può leggere che «Nessuno è stato in grado di trovare nemmeno uno straccio di prova convincente del fatto che le Brigate rosse ricevevano ordini dall’estero». L’affermazione era giustificata dal fatto che solo la prova di una interferenza straniera che avesse messo a rischio la sicurezza e gli interessi statunitensi avrebbe legalmente giustificato l’intervento diretto della Cia negli affari interni italiani, più volte richiesto dal governo di Roma a cominciare dallo stesso Aldo Moro pochi mesi prima di essere rapito dalle Brigate rosse.
Nonostante il libro di Ceci, documenti alla mano, sostenga questa tesi, Mondani riesce a censurare l’intero contenuto del volume, ben 162 pagine, capovolgendone il senso.
I documenti raccolti da Ceci dimostrano come la Cia intervenne per reprimere le Brigate rosse, non certo per sostenerle o manipolarle, alla fine del 1981 quando queste rapirono il generale americano James Lee Dozier. L’intervento degli uomini di Langley fu tale che il governo Spadolini non esitò ad autorizzare le forze dii polizia all’impiego sistematico della tortura durante le indagini.
Importanti testimonianze di esponenti delle sezioni speciali antiterrorismo dei carabinieri emersi recentemente hanno dimostrato (leggi qui) che a cercare di avvicinare le Brigate rosse non fu la Cia ma il Partito comunista italiano con l’accordo del generale Dalla Chiesa dopo il gennaio 1979.
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Di bolina, contro un vento gelido e sferzante
di Fabrizio Marchi
Abbiamo deciso di dare vita a un giornale che avesse un approccio critico alla realtà nella sua complessità, fuori da liturgie e schemi preconfezionati e consapevoli del fatto che è necessario aggiornare le categorie con le quali si analizza e si interpreta la realtà stessa e probabilmente – senza dimenticare mai le nostre radici – anche crearne delle nuove alla luce di una realtà che, appunto, diventando con il tempo sempre più complessa necessita di strumenti adeguati per essere compresa e possibilmente trasformata.
Senza questo metodo di lavoro si rischia, anzi si arriva inevitabilmente a capovolgere le cose. Si finisce cioè per applicare la realtà, necessariamente deformandola, all’ideologia pur di far quadrare i propri conti, cioè pur di confermare la giustezza e la validità del proprio paradigma ideologico. Questo è ciò che ha determinato e continua a determinare il dogmatismo. Viceversa, il nostro approccio metodologico è sempre stato quello di cercare di entrare in una relazione dialettica con la realtà per comprenderne le dinamiche sociali, economiche, culturali, politiche e ideologiche che la caratterizzano.
E’ applicando tale metodo che siamo arrivati a individuare quella che per noi è l’ideologia attualmente egemone nelle società occidentali, cioè l’ideologia neoliberale di cui ciò che definiamo con il termine di “politicamente corretto” è il mattone o uno dei mattoni fondamentali.
Quali sono i capisaldi di tale ideologia?
- Il capitalismo, non più concepito come una forma storica dell’agire umano, è stato elevato a vera e propria condizione ontologica.
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La critica radicale del lavoro e la sua incompatibilità strutturale con il principio spettacolare
di Benoît Bohy-Bunel
Presentiamo uno scritto del 2016 di Benoît Bohy-Bunel1(originale francese qui) che ci sembra inquadri la questione del lavoro in modo appropriato, cioè come dispositivo che si caratterizza storicamente, e non come fattore trans-storico e naturale sic et simpliciter – lettura, quest’ultima, che comporta un’irreversibile ontologizzazione della categoria “lavoro”, rendendo dunque ogni idea sulla sua abolizione semplicemente folle2.
Sulla questione del lavoro la corrente internazionale della Critica del Valore, riprendendo il famoso Marx “esoterico”3, afferma chiaramente e – a nostro avviso – giustamente, come si tratti di una problematica che sorge in un determinato momento (e contesto) storico, quello in cui prende forma il sistema sociale conosciuto come “capitalismo”. Soltanto nel modo di produzione capitalistico, infatti, la categoria “lavoro” appiattisce e generalizza a sé le ampie, varie e ben più complesse sfere dell’attività umana. Soltanto nel modo di produzione capitalistico tutta la “sintesi sociale” è uniformata nel “lavoro”. Lavoro e capitalismo, lungi da essere veramente antagonisti, sono due facce di una stessa medaglia, e non potranno che estinguersi insieme. Detto ancora altrimenti, finché ci sarà “lavoro”, ci sarà anche capitalismo. La persistenza del “lavoro” va dunque interpretata come un segnale inequivocabile della “resilienza” (per usare un termine alla moda) del sistema del capitale.
Si tratta di capire, oggi, che fine abbia fatto il lavoro, quello “astratto” e produttivo per il capitalismo di cui parla l’articolo. Se, cioè, oggi questo tipo di lavoro esista ancora in misura sufficiente da soddisfare le brame capitalistiche, oppure – a causa della produttività a traino “microelettronico”, per dirla con Kurz – non sia di fatto stato “superato” dallo stesso sistema a cui appartiene, e ciò che ne resta sia un simulacro, tenuto in vita con inalazioni forzate di ossigeno sempre più rarefatto.
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Missili e banconote. La finanza à la guerre
di Simone Furzi
Silvano Cacciari ci racconta il neo-tribalismo della finanza, le sue origini e il suo agire orientato a una guerra permanente per predare ricchezze. Agire con cui rischia però di far crollare l’edificio sociale che produce quelle ricchezze e rende possibile la sua esistenza
Il libro di Silvano Cacciari indaga con sguardo ampio e tagliente un buco nero tanto poco esplorato quanto capace di influenzare l’ordine gravitazionale delle norme sociali che articolano il mondo. Questo buco nero, l’ambiente della finanza, che l’autore descrive come dominato da “dinamiche antropologiche neotribali” (pag. 8) – su questa definizione tornerò alla fine – dove il vettore principale è quello della “guerra annidata negli scambi e nei servizi in moneta e suoi derivati”, identificando appunto “nell’intreccio tra conflitto sul campo e guerra finanziaria la chiave di lettura delle complessive distruzioni sociali e materiali della parte di secolo in cui viviamo” (pag. 9).
In questo mio intervento proverò ad analizzare alcuni fili di tale intreccio, partendo dai punti di contatto, dalle similitudini, dalle contraddizioni e dai ribaltamenti di senso riscontrabili a partire da un’osservazione del linguaggio.
Incomincio allora da un primo riscontro – ironicamente ossimorico rispetto al leit motiv del libro e del nostro discorrere – che sta proprio nell’origine etimologica del termine finanza, dal latino finantia, derivato da finare-finire, col significato di “definizione amichevole di una controversia” (solo poi ha assunto il significato, per primo nella lingua francese, di transazione pecuniaria, denaro contante). L’opposto di guerra, quindi, che nell’origine germanica di verre indica una baruffa violenta e confusa e in quello latino di bellum, da duellum, la risoluzione in armi di una disputa tra due soggetti.
In questo primo contatto linguistico tra i due enti, dunque, sembra essere la guerra ad aver incistato e mutato la natura della finanza. La finanza nello strutturare un suo gergo – come è tipico di ogni gruppo tribale o neo-tribale – attinge infatti proprio al vocabolario della guerra.
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La Ostpolitik che ricerca Sahra Wagenknecht: un commento di Wolfgang Streeck al piano per la pace proposto da BSW
di Federico Musso
In una Germania in piena recessione e colpita da una crisi sociale, la sorpresa alle prossime elezioni europee potrebbe essere il nuovo partito Bündnis Sahra Wagenknecht (BSW, Alleanza Sahra Wagenknecht), guidato appunto dalla ex leader di Die Linke.
Obiettivo di Wagenknecht, storico volto della sinistra tedesca, è strappare il voto di cittadini estremamente critici verso le politiche del governo Scholz, formato dai partiti appartenenti all’Ampelkoalition (Spd, Verdi e liberali), dall’astensionismo e dal sostegno ad Alternative für Deutschland.
Tuttavia, il bersaglio preferito della lista BSW è il partito dei Verdi (Bündnis 90/Die Grünen), guerrafondaio e intransigente sulla transizione ecologica. Queste due caratteristiche rendono i Verdi tedeschi il partito più “anti-popolare” sulla scena politica, i perfetti “Selbstgerechten” (presuntuosi) ritratti nel libro del 2021 scritto proprio da Sahra Wagenknecht (tradotto in Italia con il titolo “Contro la sinistra neoliberale”).
BSW si caratterizza, inoltre, per un diverso approccio verso la Russia, volto alla distensione e alla ricerca di un equilibrio tra la Germania e Mosca. Questo tema è stato affrontato, con la consueta lucidità, da un articolo, comparso sui giornali Frankfurter Rundschau e The New Statesman, scritto dal Prof. Wolfgang Streeck, già direttore del Max-Planck-Institut für Gesellschaftsforschung. Si ripropone il testo dell’articolo tradotto in italiano.
* * * *
Il piano per la pace di Sahra Wagenknecht. Perché vuole liberare la Germania dalle grinfie di Washington
di Wolfgang Streeck
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I tredici giorni di Columbia. Breve storia del nuovo ’68 americano, dalle tende a Hind’s Hall
di Gioacchino Orsenigo
Descrivere quanto accaduto a Columbia e più in generale nelle università degli Sati Uniti non è facile, soprattutto per me, che mi ci sono ritrovato coinvolto un po’ per caso, per via di alcune ricerche accademiche che mi hanno portato a New York, in quella che sarebbe diventata il cuore della protesta. Il lavoro perde d’importanza quando la storia ti capita così improvvisamente tra i piedi e provare a ricostruire quello che ho vissuto in questi giorni è un grande onore.
Rimando anche all’intervista che ho fatto ad Aidan, attivista queer e una delle voci della rivolta, per Napoli Monitor e Radio Onda d’Urto, e che ha ispirato questo articolo (disponibile qui e qui).
La notte tra il 30 aprile e il primo maggio, abbiamo assistito a una brutale prova di forza da parte delle autorità di Columbia e della polizia di New York. Almeno un migliaio di agenti ha fatto incursione all’interno del Campus, istituendo una zona rossa che militarizzava di fatto tutto l’Upper West Side. Sono state arrestate circa 170 persone, tra occupanti e solidali. Immagini di studenti trascinati e scaraventati giù dalle scale sono state diffuse sui social dagli stessi studenti presenti perché l’accesso al Campus era stato in parte limitato anche ai giornalisti e agli osservatori legali. Nel frattempo, veniva sgomberato anche l’accampamento di CCNY – City College of New York – mentre a UCLA, in California, l’accampamento degli studenti veniva attaccato da manifestanti pro-israele con lanci di fuochi d’artificio, mattoni e spranghe. Quanto accaduto quella notte è stato l’evento culminate di giorni di grande tensione e l’ultimo atto della politica di zero tolleranza promossa dalle autorità della Columbia.
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“Gaza è il laboratorio dove il capitale globale sta sperimentando la gestione delle popolazioni in eccesso”
di Ghassan Abu-Sittah
Il discorso integrale del chirurgo britannico-palestinese dopo la sua schiacciante vittoria come Rettore dell'Università di Glasgow
Pubblichiamo questo contributo non per i suoi riferimenti all’economia green e alla parità di genere, o per l’attenzione alle minoranze della società multiculturale: sembra che senza far minimo riferimento a questi concetti non si possa essere presi sul serio, soprattutto in ambienti scolastici e universitari.
Eppure dagli Stati Uniti all’Inghilterra fino in Europa, sta dilagando la protesta studentesca scolastica e universitaria, come sempre, a rischio strumentalizzazione o forse più.
Tuttavia, il discorso che state per leggere del nuovo Rettore dell’ateneo di Glasgow – quindi un discorso istituzionale – contiene elementi molto interessanti e fattuali contro le politiche genocide di Israele che sarebbero prese a modello in tanti angoli del mondo da altri governi.
Non solo Gaza, quindi: anche in questo Occidente pronto a tutto?
Sono davvero pronti a tutto: contro i popoli e quindi anche contro di noi, che un giorno potremmo diventare “socialmente indesiderati”, se non lo siamo ancora.
Non è neppure una questione, come afferma l’autore – Ghassan Abu-Sittah – di lottare “contro il nemico comune di un fascismo di destra in ascesa”.
Semmai di lottare contro il sionismo di ogni colore politico, contro il globalismo in ogni sua variante o camuffamento.
Il laboratorio – Gaza va avanti da secoli in ogni dove, ma non solo nel cosiddetto terzo mondo, come invece fa intendere Abu-Sittah. Lo dimostra ciò che abbiamo sperimentato sulla nostra pelle durante l’emergenza Covid.
Buona lettura.
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Sraffa e Wittgenstein
di Franco Romanò
Premessa
Le relazioni fra Piero Sraffa e Ludwig Wittgenstein a Cambridge sono state affrontate in vario modo da diversi studiosi e sono anche oggetto di controversie, per un certo alone di mistero che – si suppone – avvolga le biografie di entrambi; e anche, infine, per le spigolosità ed eccentricità dei loro caratteri. Inoltre, i due facevano parte di una costellazione di rapporti, al cui centro troviamo John Maynard Keynes, mentore di molti di loro, nonché grande e perspicace organizzatore di uomini oltre che economista. Sullo sfondo due ultimi convitati di pietra: Antonio Gramsci e l’italianista Raffaello Piccoli. I cosiddetti misteri vanno a mio avviso ridimensionati e molti di essi riguardano un aspetto delle loro relazioni su cui porre subito attenzione, tanto esso è particolare e sorprendente nel secolo dell’esplosione abnorme dell’esposizione mediatica. Nel loro caso, le relazioni sembrano provenire da un mondo precedente, in cui le conversazioni mentre si passeggiava o si andava in canoa erano altrettanto importanti quanto le conferenze ufficiali e le lezioni accademiche. Naturalmente tale circostanza, assai affascinante, pone però chi si occupa di loro nella stessa condizione di un archeologo che ritrova dei reperti cui mancano sempre dei pezzi; inoltre tale circostanza favorisce il moltiplicarsi di ipotesi, gli aneddoti e le dicerie. Infine, ci sono diversi aspetti di tali relazioni che s’intrecciano – personali e non – altrettanto affascinanti. Quello di cui mi occuperò prevalentemente in questo scritto riguarda però una questione specifica. Essa è stata sollevata in un saggio di Giorgio Gattei: se e in che modo le Osservazioni e le Ricerche filosofiche di Wittgenstein e cioè le opere successive al Tractatus, abbiano influenzato gli scritti economici di Piero Sraffa.1
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Il suicidio dell’Occidente
di Matteo Nucci
In questo momento, mentre comincio a scrivere, i video che arrivano dalla striscia di Gaza raccontano quella che sarà forse la fase finale dello sconvolgente massacro con cui da 215 giorni l’esercito israeliano rade al suolo un sovrappopolato angolo di terra. I tank sono entrati a Rafah e alcuni dei video mostrano in soggettiva l’ingresso israeliano. Si tratta dunque degli stessi militari che stanno filmando. Il più gettonato, fra questi trofei di guerra, mostra la famosa scritta I LOVE GAZA forse in plastica, certo tridimensionale, rossa, con il classico cuore. Si avvicina sempre più via via che il tank avanza. Poi le ruote cingolate la inghiottono. È un’anticipazione di quel che sarà: rovine e morte. Una terra spianata, il sangue interrato, il numero delle vittime incerto.
Ovviamente le storie che compaiono sui social sono già innumerevoli e di molti tipi. E se avete cuore, mentre vi meraviglierete di dover ricorrere a un simile strumento per trovare i barlumi di verità negati dai principali media delle democrazie occidentali (in questi giorni dediti a tutt’altro tipo di informazione), troverete molte altre testimonianze della prospettiva israeliana. Per esempio, i festeggiamenti sionisti per la decisione finale di sferrare l’attacco a Rafah, nonostante l’accordo fosse raggiunto. Balli e grida di giubilo. Si stappa champagne, si ride. Si celebra l’imminente annientamento.
Ma c’è anche un’altra prospettiva, quella del popolo che viene massacrato. E qui si rischia di non aver parole per ripetere quel che da sette mesi abbiamo visto fino alla nausea: un palazzo divelto, due bambini intrappolati fra le macerie, gli uomini che scavano a mani nude tentando invano di salvarli perché il loro volto è già più grigio della cenere che li ricopre. Si chiamavano Mahmoud e Hamdam, 8 e 6 anni.
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La guerra ai tempi del capitalismo digitale*
di Andrea Coveri e Dario Guarascio
Le guerre mostrano la relazione di mutua dipendenza che vi è tra le grandi piattaforme digitali e gli apparati militari, di sicurezza e di intelligence. Una dipendenza alimentata dal controllo che le grandi piattaforme esercitano su conoscenze, infrastrutture e tecnologie critiche di tipo "duale"
Introduzione
Le grandi piattaforme digitali sono uno dei principali vettori di cambiamento nelle economie contemporanee. Alla loro ascesa è legato il processo di digitalizzazione della produzione, del consumo, della comunicazione, della logistica nonché di un’ampia gamma di servizi pubblici. A tale processo, d’altra parte, si associa una concentrazione di potere economico e tecnologico che non ha precedenti, con implicazioni rilevanti per quanto riguarda la distribuzione del reddito, l’accesso alla conoscenza e all’innovazione, la frammentazione e precarizzazione del lavoro e, non meno rilevante, la crescita delle tensioni geopolitiche (Coveri et al., 2022)1. Le grandi piattaforme giocano infatti un ruolo centrale nel conflitto che vede contrapposti i due nascenti ‘complessi militari-digitali’, quello statunitense e quello cinese (Rolf e Schindler, 2023). Nel primo caso, le piattaforme chiave sono quelle comunemente note come ‘Big Tech’: Amazon, Meta (Facebook), Microsoft e Alphabet (Google). Tra le loro controparti cinesi è possibile invece annoverare colossi quali Alibaba, Baidu, JD e Tencent.
Nonostante le piattaforme digitali siano ormai al centro dell’attenzione in numerosi ambiti scientifici (tra questi, l’economia, le scienze politiche, il diritto del lavoro, gli studi manageriali e la sociologia), vi è un aspetto rilevante del loro potere che è rimasto relativamente inesplorato. Si tratta del nesso che lega le loro strategie di crescita e gli interessi dello Stato e, più specificamente, la relazione di mutua dipendenza che vi è tra le prime e gli apparati militari, di sicurezza e di intelligence. Una dipendenza alimentata dal controllo (spesso esclusivo) che le grandi piattaforme esercitano su conoscenze, infrastrutture e tecnologie critiche di tipo ‘duale’ (ossia con applicazioni in ambito sia civile che militare).
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Un oggetto di speculazione storiografica: le Brigate rosse
di Eros Barone
1. Una tesi che piace alla borghesia “di sinistra”
È vero che, come diceva Marc Bloch, “lo storico è come l’orco delle favole, va là dove sente odore di carne umana”, ma Sergio Luzzatto, a furia di scrivere biografie (fra queste quella del “Corpo del Duce” relativa alla sorte del cadavere di Mussolini, quella della “Mummia della repubblica” relativa alla sorte del cadavere di Giuseppe Mazzini, nonché quella di Padre Pio anch’essa incentrata sulla corporeità del santo); a furia di scrivere biografie, dicevo, si è talmente ingozzato di quel cibo da farne indigestione.
Il risultato è un tomo di 700 pagine, del quale, tenuto conto dei puntuali rilievi mossi da vari critici alla base documentale e testimoniale della ricostruzione e alla rielaborazione spesso romanzesca, fuorviante quando non fallace, cui quella base mette capo, il meno che si possa dire è, secondo un famoso adagio degli antichi, che “mega biblíon mega kakón” (un grosso libro è un grande male). In effetti, la tesi sostenuta dall’autore – essere state le Brigate rosse un prodotto confezionato da alcuni professori universitari di via Balbi (rione di Genova dove si trovano le sedi delle facoltà umanistiche) - è una mezza verità, che può piacere a quella frazione della borghesia intellettuale cui piace flirtare con i rivoluzionari, ma l’altra mezza verità, quella che qualitativamente è decisiva per l’interpretazione della genesi della lotta armata in Italia, ci dice che le radici più profonde delle Br vanno ricercate in una certa composizione di classe operaia e popolare, quindi non ad Albaro, quartiere residenziale alto-borghese di Genova, o in via Balbi o a San Martino, quartiere quest’ultimo dove si trovano le facoltà scientifiche, ma, oltre che a Oregina, a San Teodoro e nel Centro Storico, nel Ponente industriale, nella Valpolcevera delle grandi e piccole aziende, fra Sampierdarena, Cornigliano e Campi, quartieri schiettamente proletari.
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A cento anni dalla morte, perchè Lenin è ancora attuale?
di Domenico Moro
Il 21 gennaio 1924 moriva Lenin. Cento anni sono tanti e moltissime cose sono cambiate, eppure il lascito di Lenin è, in gran parte, ancora attuale. Lenin è stato uno dei personaggi storici più importanti del XX secolo, l’uomo che più di ogni altro ha contribuito alla Rivoluzione di Ottobre e alla fondazione dell’Unione Sovietica. Ma, come diceva il filosofo ungherese Lukács in un pamphlet, scritto subito dopo la morte di Lenin, l’importanza dell’uomo politico russo va oltre le vicende politiche immediate che l’hanno visto protagonista: “Egli resta perciò sul piano storico-universale l’unico teorico di livello pari a quello di Marx che fino a oggi sia venuto dalle file della lotta di emancipazione proletaria”[i]. Forse mettere Lenin a un livello teorico pari a quello di Marx può essere eccessivo, ma sicuramente Lenin, subito dopo Marx, rimane ancora oggi il maggiore teorico nell’ambito del marxismo.
Lenin è stato insieme un teorico, un interprete del modo di produzione capitalistico e della società che vi si erge sopra, e un politico che opera per la trasformazione della realtà in senso rivoluzionario. In un’epoca, come quella attuale, in cui la politica spesso si riduce a politicismo e tatticismo, rimanendo separata dalla scienza sociale e dall’analisi di ampio respiro, l’esempio di Lenin assume un valore ancora più grande. Teoria e prassi sono fuse nel modo più intimo possibile in Lenin, nel quale la strategia, ossia gli obiettivi di lungo periodo – la trasformazione della società del capitale in quella socialista –, è sempre strettamente connessa con la tattica, ossia con i compiti e l’agire sul piano pratico politico, a differenza di quanto la politica attuale ci ha abituato. L’azione di Lenin è sempre guidata dall’analisi concreta della situazione concreta, lì dove il concreto sta per il complesso dei fatti e delle relazioni sociali in un dato luogo e in un dato periodo storico. Non a caso, secondo Lukács, una delle categorie più importanti del marxismo è quella di totalità, cioè la capacità di comprendere e analizzare nelle loro connessioni reciproche tutti gli aspetti di una data società, quelli economici, politici, culturali e ideologici.
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Controstoria
di Salvatore A. Bravo
Una delle necessità non più rimandabili, in un momento storico caratterizzato dalla cultura della cancellazione-riscrittura della storia, “è ridare voce” a testi che hanno scritto la controstoria dell’Occidente. La storia presentata da manuali e dai media ufficiali ha il suo focus sui “grandi”; la storia sembra essere il campo di battaglia di eroi, manager e imprenditori che con la loro azione hanno condotto i popoli verso la libertà. In tale cornice ideologica il popolo e i ceti subalterni sono solo soggetti passivi che attendono di essere agiti. È il modo più efficace per eternizzare il presente e santificare l’uomo-imprenditore. La restante parte dell’umanità è solo un mezzo nelle fatali mani dei “grandi”. Si addestrano le classi subalterne del nostro tempo a diventare plebi che attendono la soluzione dei “grandi”. Devono adattarsi a una realtà, in cui sono solo materia grezza che attende il Demiurgo-imprenditore.
La controstoria, invece, pone in evidenza senza dogmatismi o idealizzazioni che la storia è lo spazio e il tempo della resistenza di popoli e dei gruppi oppressi. Le sconfitte sono imputabili al deficit politico. Nessun progetto di cambiamento è realizzabile senza un’organizzazione stabile e una chiara visione dei fini politici da realizzare. Capire le ragioni della lotta e delle sconfitte è la modalità con cui comprendere gli errori del presente e, specialmente, significa non cadere nella trappola del fatalismo. Uomini e donne che ci hanno preceduto hanno lottato e il loro sacrificio non è stato vano, se la loro testimonianza ci è d’ausilio per resistere al pessimismo che la montante ideologizzazione della storia sta mettendo in atto.
Il testo di J. Hobsbawm, I Ribelli Forme primitive di rivolta sociale, ricostruisce i movimenti di resistenza evidenziando che il popolo e gli oppressi nella storia sono stati protagonisti. Le sconfitte non cancellano la traccia di libertà di coloro che hanno lottato per la giustizia.
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Il capitale va in guerra (e ci porta con sé)
di Xavier Vall Ontiveros - geoestrategia.es
Non credo che il catastrofismo serva a nulla, né a mobilitare la classe operaia contro la guerra né a contrastare l’euforia militaristica delle élite, ma è difficile stabilire una lettura alternativa di ciò che sta accadendo. La diplomazia è sepolta, i canali di dialogo sono inesistenti, si intraprende una corsa agli armamenti che non è altro che il preludio al disastro imminente. Molti degli ingredienti che portarono alla grande distruzione della carne umana che fu la Prima Guerra Mondiale sono sul tavolo. Ma sia per entusiasmo militaristico o per suprema ignoranza – o entrambi allo stesso tempo… – i media e i governi occidentali continuano a trasmettere un discorso unidirezionale e semplicistico, in base al quale tutto ciò che accade è spiegato esclusivamente dalle manie di grandezza di un pazzo disposto a distruggere il mondo. Le complesse analisi geopolitiche, quando sono più necessarie, non vengono prese in considerazione nel fissare le coordinate che orientano la politica estera, né da parte dei media sempre pronti a sfruttare la dimensione spettacolare della cosa e che considerano delle sciocchezze discorsive dotate di un certo fondamento noioso. Proprio come nel 1914, stiamo scivolando irresistibilmente verso l’abisso nichilista della guerra totale, i falchi militaristi hanno occupato la centralità del dibattito politico e sembra che non si possa tornare indietro per evitare il disastro. Come nel 1914, la sinistra è incapace di costruire un discorso internazionalista coerente e, nella migliore delle ipotesi, nasconde la testa sotto la sabbia; Nel peggiore dei casi, sostiene attivamente la politica di riarmo e il rafforzamento del blocco imperialista atlantista.
Eppure, indipendentemente dalle responsabilità della Federazione Russa, l’attuale conflitto non può essere compreso senza tenere conto dell’interventismo occidentale a partire dagli eventi di Euromaidan (2013-2014) e prima.
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Conflitto nelle università: studenti, professori e guerre
di Maria Chiara Pievatolo
Kant e Humboldt avevano ben compreso i rischi portati da interessi privati o di Stato all’autonomia della ricerca universitaria. Le odierne manifestazioni di dissenso ci ricordano quanto sia importante distinguere i funzionari del sapere da coloro che studiano, tutelando entrambi dagli abusi del potere
1. Un punto di vista indipendente
Il professor Kant, alla seconda edizione (1796) dell’ideale trattato internazionale per istituire la Pace perpetua che è la sua opera politica più coraggiosa, aggiunse un articolo segreto col seguente dispositivo:
“Le massime dei filosofi sulle condizioni di possibilità della pace pubblica devono essere consultate dagli Stati armati per la guerra” (AA, VIII, 368).
Da professore, Kant aveva sperimentato la censura quando aveva provato a scrivere di religione, cioè di ciò che fondava il diritto divino della monarchia assoluta al potere in Prussia e fresca di decapitazione altrove. La sua richiesta, in questo articolo segreto solo in senso ironico, che i “filosofi” siano consultati è un modo per prendersi, sotto la protezione di un espediente retorico, la libertà dell’uso pubblico della ragione sulla pace e sulla guerra.
Con questa libertà, in un momento in cui le guerre si giustificavano di nuovo con motivazioni ideologiche, in appoggio agli interessi statali, Kant si permette di affermare qualcosa che oggi torna a suonare scandaloso: per superare la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali occorre riconoscere che, sebbene ci siano guerre che sono o paiono necessarie, non ci possono essere guerre giuste. I belligeranti possono accampare ottime ragioni ideologiche per mandare al massacro militari e civili, ma chi fa combattere una guerra presuntivamente giusta non si appella alle ragioni del diritto, che avrebbero bisogno di essere accertate da un giudice terzo non in conflitto di interessi e secondo una legge pubblicamente e universalmente riconosciuta, bensì a quelle della forza.
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Sulla XII Disposizione, vecchi e nuovi fascismi
Alba Vastano intervista Raul Mordenti
“Esiste un nesso assai stretto fra la guerra e il fascismo. Ciò fu evidente nel caso della I° guerra mondiale, senza la quale il fascismo sarebbe stato impensabile. Si può ben dire che la guerra produce fascismo come il fascismo produce guerra” (Raul Mordenti)
“L’antifascismo è vissuto per decenni imbalsamato in una retorica stucchevole che lo ha reso debole ed impotente, soprattutto di fronte ai nuovi fenomeni neofascisti e neonazisti. Non ha saputo di conseguenza parlare ad ampie fasce giovanili che lo hanno vissuto come lontano e, a volte, come vuota espressione istituzionale…ad aggravare la situazione non va dimenticata la storica mancata volontà politica a perseguire i casi di apologia e riorganizzazione dei movimenti fascisti, sottovalutati, lasciando così campo aperto ai nostalgici di ogni risma”. (Saverio Ferrari, Osservatorio democratico sulle Nuove Destre)
“ Il fascismo è finito con la fine di Mussolini. Parlarne è inutile, dopo 80 anni dalla fine della dittatura fascista. Quindi perché parlare di antifascismo?” Mantra triti e ritriti menzionati dalla gente comune e dai politici di destra nei talk show televisivi. Eppure, sarebbe falso negarlo, il fascismo serpeggia latente, ci affianca e vuole tentarci, seduttivo e con fare ambiguo riaffiora nei comportamenti più usuali e comuni a molte persone, senza che i più se ne rendano conto.
Così’ il professor Angelo D’Orsi, illustre storico (ndr, più volte ospite in questa rivista) “Se non si può parlare di “ritorno del fascismo”, è solo perché dall’Italia il fascismo non se n’è mai andato, ma ha continuato a scorrere sotterraneo, come un fiume carsico, riemergendo di tanto in tanto. Le sue riemersioni, da una trentina d’anni a questa parte, sono diventate sempre più frequenti, e il revisionismo storico, nella sua forma estrema, il rovescismo, ha svolto un ruolo determinante. Forse occuparsene, non è fare sfoggio di sapere accademico, ma fare esercizio di pensiero critico e insieme di militanza civile”.
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