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I soggetti non emergono dalla terra
di Alessandro Visalli
Da Alessandro Visalli, Classe e Partito, Meltemi 2023[1]
In un agile libricino del 2019, Tagliare i rami secchi[2], Carlo Formenti e Onofrio Romano, hanno prodotto un agile e perspicace riassunto delle tesi ‘datate, incomplete, contraddittorie’ della lunga tradizione marxista. Tra queste emerge il bersaglio delle “Tesi sulla filosofia della Storia”[3] di Benjamin: la rivoluzione, e quindi il suo ‘agente’ la ‘classe’, interpretata come immanenza nell’evoluzione della Storia, e la natura cristologica dello stesso ‘proletariato’. Per come lo riassume, a un certo punto, Onofrio Romano:
“Non è un caso che l’anti-filosofo di Treviri non prefiguri mai una società comunista, non si cimenti a immaginare, vale a dire, il funzionamento ordinario della società liberata. Non si tratta di mera diffidenza nei confronti dell’atteggiamento eccessivamente prefigurativo dei socialisti utopisti. È una scelta che rinviene all’idea generale di trasformazione, come evento immanente allo sviluppo capitalistico, rispetto al quale ogni velleità di direzione politica dei processi è considerata un’ingenuità. È quindi inutile partorire disegni della società futura sulla base dei propri desideri. La società fa da sé. Occorre solo prenderne atto”[4].
Questa idea, profondamente radicata nella tradizione marxista e ripresa dal grande idealismo tedesco[5], poi funziona dentro la ‘grande committenza’ del socialismo novecentesco[6], nel senso antevisto da Antonio Labriola e da Rosa Luxemburg, come ottima scusa per non agire e affaccendarsi nella cucina, affidando il futuro alla ‘provvidenza’ laica dei destini progressivi della classe. Il filosofo cassinese, nel rifiutare nettamente le idealistiche distinzioni di vero e falso in sé, o giusto e ingiusto, ricondotte a una totalità che dispone di leggi immanenti nel divenire, rifiuta anche di interpretarle in senso deterministico o evoluzionistico.
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L’Unione Europea, coordinata dalla NATO, è lo strumento degli USA nel conflitto strategico della fase multicentrica
di Luigi Longo
[…] l’Europa è diventata una Eurolandia priva di sovranità economica e soprattutto geopolitica e militare. Al suo interno è insediato un corpo di occupazione straniero, denominato NATO, inviato da tempo come mercenariato soldatesco in Asia Centrale, pronto a minacciare e a rischiare una guerra mondiale in Georgia e in Ucraina. Se questo è anche in parte vero, allora che senso ha elencare la tiritera del nostro grande profilo europeo, dalla filosofia greca al diritto romano, dalle cattedrali romaniche e gotiche dell’umanesimo rinascimentale, dalla rivoluzione scientifica all’illuminismo, dall’eredità classica greco-romana al cristianesimo, eccetera?
Pura ipocrisia.
Costanzo Preve*
1. Avanzerò alcune riflessioni sull’Europa, non a partire dalla storia dell’Europa delle Nazioni, che si formarono dopo la dissoluzione dell’impero di Carlo Magno (1), ma a partire dalla guerra Russia-Ucraina (cioè l’aggressione Usa alla Russia via Nato-Europa), che di fatto sancisce la fine del progetto dell’Unione Europea (avanzato e realizzato dopo la seconda guerra mondiale, anche se pensato intorno agli anni trenta del secolo scorso dagli Stati Uniti d’America) sostituito dal nuovo ruolo della NATO che meglio si addice alle nuove strategie statunitensi nella fase multicentrica [conflitto tra potenza egemone in declino (USA) e potenze consolidate (Russia, Cina) e in ascesa (India)] (2). Una << […] Europa occidentale (anche l’Europa orientale, mia precisazione LL) sottomessa a una occupazione militare USA accettata dagli attuali governi fantocci, che appunto per questa ragione considero del tutto illegittimi, non importa se sanzionati o meno da elezioni manipolate >> (3).
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Mar Rosso, la sfida a USA e Israele che viene dallo Yemen
di Roberto Iannuzzi
Washington preferisce l’escalation alla diplomazia in una crisi dalle radici lontane, che gli USA hanno contribuito a creare, e che aggiunge incertezze al già instabile panorama regionale
Il Mar Rosso è solitamente una delle rotte commerciali più trafficate al mondo. Circa il 12% del commercio mondiale, quasi il 30% del traffico marittimo di container, e quantità significative di petrolio, passano attraverso il Canale di Suez a nord e lo Stretto di Bab el-Mandeb a sud.
Quest’ultimo, il cui nome letteralmente significa “porta della lamentazione” o “porta delle lacrime” (probabilmente per il pericolo che tale passaggio, caratterizzato da correnti e venti imprevedibili, secche e barriere coralline, anticamente costituiva per la navigazione), congiunge il Mar Rosso al Golfo di Aden, e quindi all’Oceano Indiano e alle ricchezze del continente asiatico.
Ai due lati dello stretto si fronteggiano Gibuti, sulla costa africana, e lo Yemen, all’estremità sudoccidentale della Penisola Arabica. Ed è proprio dallo Yemen, uno dei paesi più poveri del mondo, che il movimento sciita di Ansar Allah, meglio noto come gli “Houthi” (dal nome del fondatore Hussein al-Houthi), ha lanciato la sua sfida a Israele e agli Stati Uniti.
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Sessismo nelle fiabe? Nemmeno per sogno!
di Roberto Luigi Pagani
Anche per questo articolo mi scuso per eventuali errori o refusi, ma non ho il tempo di rileggere tutto con calma, vi chiedo la cortesia di segnalarmi: provvederò a correggerli appena potrò!
Non è un segreto, ma da un anno sto lavorando a una pubblicazione sul folklore islandese. Leggende, fiabe e racconti che, in una veste più o meno fantastica, tramandata nel linguaggio semplice di generazioni di contadini e pescatori, contengono grandi valori universali. Non sono di formazione folklorista, ma diciamo che per questo lavoro ho dovuto studiare parecchio sull’argomento, e ho acquisito una certa dimestichezza con simbolismi e convenzioni tipiche del genere. Per questo vorrei fare alcune considerazioni su alcuni stralci pubblicati di un monologo di Paola Cortellesi sul sessismo nelle fiabe tenutosi all’inaugurazione dell’anno accademico della Luiss (Libera Università internazionale di studi sociali). Preciso che non ho avuto occasione di sentirlo tutto, e riconosco sia possibile che queste frasi siano state de-contestualizzate e rese o distorte. Le discuto comunque nella forma in cui sono state riportate, perché ritengo offrano spunti utili per veicolare informazioni e considerazioni importanti nel clima culturale attuale.
Non posso purtroppo analizzare esaustivamente ogni elemento, per ragioni di spazio, e discuterò solo alcune frasi citate in articoli di giornale trattandoli sommariamente ma, spero, quanto basta per mostrare come (a mio modesto avviso) queste frasi travisino e distorcano parecchio gli elementi delle fiabe che criticano, in un modo a mio avviso molto parziale e ideologico. Parafraso per sintesi le asserzioni in oggetto, mettendole in corsivo e neretto. Non si tratta di citazioni testuali, e se ho frainteso a mia volta mi scuso anticipatamente, ma ripeto che l’obiettivo qui non è attaccare la persona a cui sarebbero attribuite, quanto proprio il loro contenuto letterale, così come appare.
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Il "proletariato" palestinese
Un po’ di cifre
di Alessandro Mantovani
I proclami e i comunicati della resistenza contro Israele non ne fanno menzione; per essa le sue rivendicazioni specifiche non hanno nella lotta di liberazione nazionale luogo a procedere. Parliamo del proletariato palestinese.
Per contro diverse tendenze internazionaliste occidentali danno per scontato che esista, che possa essere autonomo dal nazionalismo borghese, che debba respingere le false sirene della lotta nazionale e combattere - assieme al proletariato del Medio Oriente, incluso eventualmente quello israeliano - contro la propria borghesia, in vista della propria emancipazione1.
Esiste davvero un proletariato palestinese? E se sì, qual è il suo peso sul totale della popolazione araba della Palestina? Non è facile determinarlo, dal momento che non solo le statistiche sono incomplete ma soprattutto redatte secondo criteri di non facile lettura marxista.
Per il marxismo la classe proletaria, in quanto classe rivoluzionaria, non si definisce in base al mero fatto di percepire un salario, bensì tenendo conto di quegli elementi dinamici che fanno di uno strato sociale un fattore in grado di incidere sui rapporti tra le classi: ad esempio una maggior concentrazione sul territorio, nelle unità produttive e nei servizi conferiscono notevole influenza sociale e politica anche a gruppi relativamente poco numerosi rispetto al resto della popolazione. Il proletariato russo arrivò al potere in Russia, nel 1917, benché minoranza, perché a Pietrogrado era concentrato e forte. Un altro elemento da tenere presente è il grado di “purezza” del rapporto fra capitale e lavoro salariato. Ad esempio un salariato stagionale, ancora legato parte dell’anno all’agricoltura, differisce alquanto per mentalità da un operaio industriale. Un lavoratore dei servizi differisce da un addetto alla catena di montaggio, ecc.
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Nelle mani sbagliate
di Paolo Cacciari
Il tormento crescente che rende cupa la vita di ogni giorno a causa delle guerre e delle devastazioni ambientali e climatiche che non sembrano conoscere limiti non deve impedire di pensare e guardare il mondo diversamente. È necessario prendere atto che affidare la cura delle relazioni tra gli esseri umani e tra loro e la natura agli apparati di governo degli stati significa infilarla in un binario morto. Abbiamo bisogno di rovesciare l’approccio ai problemi, scrive Paolo Cacciari nel nuovo numero della rivista Quaderni della decrescita (“Energia: quanta, quale, per chi”): smetterla di delegare la loro soluzione a chi occupa posizioni di potere nell’economia, nella politica istituzionale, nella tecnoscienza, e affidarci alle comunità che vivono i territori in molti modi diversi.
* * * *
E se l’errore fosse ab origine? Se la ragione di tanti, tragici fallimenti non dipendesse dalla correttezza delle analisi della situazione e nemmeno dall’appropriatezza degli obiettivi da raggiungere1, ma dall’errata impostazione del problema? Ovvero, dalla scelta del chi e del come dovrebbe agire per ottenere i risultati desiderati? Affidare la cura delle relazioni tra gli esseri umani e tra loro e la natura agli apparati di governo degli stati significa infilarla in un binario morto. È sbagliato aspettarsi che a risolvere le crisi planetarie, umane ed ecologiche, siano coloro che le hanno create.
Allora, forse, è necessario rovesciare l’approccio ai problemi; smetterla di delegare la loro soluzione a chi occupa le posizioni di potere ai vertici dell’economia, della tecnoscienza, della politica e affidarli invece alle comunità insediate nei territori2, alle popolazioni direttamente responsabili della bontà delle relazioni tra gli esseri umani e tra loro e gli ecosistemi di appartenenza.
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La trasformazione europea digitale, smart e verde: un imbroglio nero come il carbone
di Franco Maloberti
Allegria! L’Europa diventa digitale, e saremo tutti meglio serviti. Mica è uno scherzo, la Commissione è decisa a fare di questo spicchio di millennio il decennio digitale europeo. “L’Europa deve ora rafforzare la propria sovranità digitale e fissare norme, anziché seguire quelle di altri Paesi, incentrandosi chiaramente sui dati, la tecnologia e le infrastrutture“. Tutto grazie anche all’intelligenza artificiale. L’ha detto anche Ursula nel suo discorso sullo stato dell’unione del 13 settembre 2023; infatti “ha affermato che la prima priorità dell’UE è garantire che l’intelligenza artificiale abbia uno sviluppo antropocentrico, trasparente e responsabile“. Antropocentrico, perbacco! Con l’uomo al centro, mica pissi-pissi bau-bau. E non ha detto solo questo. Ha anche detto che “È il momento di mostrare ai giovani che possiamo costruire un continente in cui ognuno può essere ciò che è, amare chi desidera e cercare di realizzare le sue ambizioni. Un continente riconciliato con la natura e che funga da guida nel settore delle nuove tecnologie. Un continente unito nella libertà e nella pace. Ancora una volta, per l’Europa è giunta l’ora di farsi trovare pronta all’appuntamento con la Storia“. Mecojoni! Continente unito nella libertà? Si fa per dire!…Nella pace? Beh, quella c’è davvero. Basta fare un giro in Ucraina o a Gaza e…ecco la pace. Macché Ucraina e Gaza? Loro non sono continente europeo, loro non contano. Poi, chissenefrega se tanti bambini muoiono ammazzati e anche scuoiati, mica sono nostri i bambini, i loro (i sette, grandicelli, di Ursula – ‘membro di Classe I dell’ordine di Jaroslav il Saggio‘ (Ucraina)) e la bambina di Giorgia, sono ben al sicuro. Le mamme di quei bambini che vengono ammazzati da bombe amiche, graziosamente fornite dal pacifico e avanzato Occidente, se ne faranno bene una ragione (se non sono già morte anche loro)…
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Il feticcio del Fronte Unico, la concretezza della Rivoluzione (e della controrivoluzione)
di Sandro Moiso
Graziano Giusti, Comunisti e Fronte Unico. Il “Biennio Rosso” e gli anni della politica del “Fronte Unico” in Italia (1918-1924), Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria, Milano 2023, pp. 573, 18 euro
Come si afferma nella quarta di copertina della recente ricerca di Graziano Giusti, pubblicata dalla Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria, «il termine “Fronte” è forse uno dei più usati – e anche abusati – in politica. Per l’uso che ne viene fatto in campo militare, esso richiama il concetto del “fare argine” contro il nemico, del porsi su una linea di efficace difesa per raccogliere le forze e passare successivamente al contrattacco».
Pertanto il Fronte Unico di cui si parla, come è possibile espungere dalle date, è quello intorno a cui si svolse un acceso e combattuto dibattito, sia a livello internazionale che nazionale, negli anni immediatamente successivi a due degli avvenimenti fondativi per le strategie politiche del XX secolo: la prima carneficina mondiale e la rivoluzione russa.
Dibattito aperto dalla convinzione, diffusa nella Terza Internazionale appena fondata, che tale strategia fosse la migliore o la più adatta per togliere dall’impasse l’iniziativa dei partiti comunisti appena formati o in via di formazione. Una tattica che, senza dichiararlo apertamente, andava nella direzione di accelerare la Rivoluzione in Occidente. Sia per liberare dalla schiavitù capitalistica milioni di proletari e lavoratori, che per superare l’isolamento in cui la neonata Unione Socialista delle Repubbliche Sovietiche era venuta a trovarsi durante la Guerra civile, inizialmente foraggiata dalle potenze occidentali tra il 1918 e il 1919.
A questo andava ad aggiungersi la controffensiva della parte avversa che, soprattutto in Italia e in Germania, iniziava ad affidare le sue sorti alle milizie del Fascismo italiano e dei Freikorps tedeschi, in cui avrebbero poi affondato le loro radici le formazioni paramilitari naziste.
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L'ampliamento dei Brics ulteriore passo in avanti nella ridefinizione degli assetti internazionali
di Andrea Vento*
Il Bric: da aggregato geoeconomico a soggetto geopolitico
La genesi dell'acronimo Bric viene ricondotta all'economista inglese Jim O'Neil quando a fine 2001 in un documento[1], redatto in qualità di Chief Economist della Banca di investimenti Goldaman Sachs, identificò il nuovo aggregato geoeconomico composto da Brasile, Russia, India e Cina come il gruppo di Paesi che, in base a caratteristiche comuni, avrebbero verosimilmente dominato l’economia mondiale del secolo appena iniziato. Pertanto, secondo O'Neil, agli Stati Uniti per poter mantenere la leadership globale anche nel XXI secolo sarebbe stato dunque necessario inglobarli nella governance economica e finanziaria mondiale egemonizzata fino a quel momento dal sistema occidentale.
I quattro paesi risultavano, infatti, accomunati da alcune caratteristiche simili da consentir loro nell'arco di alcuni lustri di posizionarsi nei piani alti della graduatoria delle potenze economiche mondiali: la condizione di economie in via di sviluppo, una popolazione numerosa, un vasto territorio, abbondanti risorse naturali strategiche e prospettive di forte crescita del PIL e della quota nel commercio mondiale.
La tesi sostenuta da O'Neal non venne, tuttavia, pienamente percepita nella sua portata strategica negli ambienti di Washington, in quegli anni, peraltro, impegnati nella ridefinizione dell'assetto geopolitico mediorientale con gli interventi militari in Afghanistan e Iraq. Finì, invece, per fornire un inaspettato input aggregativo per i quattro paesi che fino ad allora avevano scarsamente cooperato dal punto di vista economico[2] e geopolitico, i quali, a partire dal settembre 2006, iniziarono a effettuare annualmente riunioni informali a margine dell'Assemblea generale dell'Onu.
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Le scorie dentro di noi, 2200 torri Eiffel sopra di noi
La plastica dimostra come l’umanità non sia in grado di gestire il pianeta
di Gabriele Lolli
La prima azione che ho fatto dopo aver letto le prime venti pagine del libro è stata quella di cambiare i pantaloni della tuta che indossavo in casa, che sono al 70 per cento cotone e al 30 per cento di poliestere. Le microplastiche sono particelle dell’ordine di un micron (un millesimo di millimetro, e più piccole ci sono anche le nanoplastiche, nella scala di virus e molecole); in casa, oltre che dai vestiti (di acrilico, nylon, elastan) per sfregamenti e usura, scorie di plastica sono rilasciate da lavatrici, coperte, divani, tappeti, e ci sono quelle volutamente inserite nei prodotti acquistati come dentifricio, detersivi, cosmetici (oltre alle plastiche note a tutti, dalle bottiglie agli imballaggi dei supermercati ecc.). Nel 2022 è arrivato l’annuncio che la plastica è presente nel sangue, sospettata finora, adesso provata con esperimenti che ne hanno rilevato la presenza nell’80 per cento circa dei soggetti esaminati; piccole quantità per ora, ma misurabili, e a ruota scoperte anche nei polmoni, nelle urine, nel latte materno, nel liquido seminale: sono il polietilene tereftalato, il polistirene, il polietilene, altri con quote a scendere. Non si sanno ancora gli effetti, ma incombe il ricordo delle polveri di amianto.
Le microplastiche sono introdotte anche con il cibo, perché usate nella produzione agricola, dove si cospargono i campi con piccole pastiglie plastificate a lento rilascio: col tempo i prodotti chimici entrano nel suolo, ma la plastica resta lì; e comunque i vasi linfatici delle piante portano nutrienti ai semi e insieme anche microplastiche assorbite dal terreno; la frutta più che la verdura è inquinata per i tempi più lunghi di maturazione ed elevata vascolarizzazione del frutto.
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Lo strano caso del caso Moro by Report
di Davide Carrozza
Domenica sera è andata in onda una puntata di Report sul caso Moro: una serie di inesattezze e omissioni davvero imbarazzante per una trasmissione del servizio pubblico. Le paventate incredibili rivelazioni annunciate via social nei giorni precedenti, in realtà non sono altro che i soliti argomenti già analizzati, le solite congetture cavalcate dalla Commissione Moro 2, le quali però inevitabilmente cozzano con le ben 4 sentenze e i lavori di altre due commissioni. Sarà forse anche per questo che tale commissione non produsse mai una relazione finale non chiudendo i lavori? Di seguito solo alcune delle questioni affrontate da Report che necessitano perlomeno di chiarimenti, non escludo di ritornarci con un altro articolo di aggiornamento…troppa roba!
1) Il presunto covo di Via Massimi.
In numerose sentenze, in particolare nel Moro Quinques si ricostruisce con dovizia di dettagli, (grazie soprattutto alla testimonianza dell’Ingegner Altobelli, alias Germano Maccari poi condannato all’ergastolo come quarto carceriere), la genesi del covo di Via Montalcini, indicato da tutte le sentenze come unica prigione dell’On. Moro per tutti i 55 giorni: acquistato dalle BR con i proventi del sequestro Costa, fu individuato perché possedeva tutte le caratteristiche necessarie e ristrutturato dallo stesso Altobelli/Maccari per ricavare l’intercapedine e la cella insonorizzata dove fu rinchiuso Moro per 55 giorni; lo stesso Maccari fu infatti ingaggiato dalle BR per le sue doti da costruttore ed esperto di muratura. Dopo la conclusione tragica che conosciamo infatti, fu lo stesso Maccari a smantellare il tutto insieme a Prospero Gallinari, l’altro carceriere.
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L’Italia nel Triangolo delle Bermuda tra Pnrr, Mes e Patto di Stabilità
di Fulvio Bellini
La politica economica e quella estera dettate dagli Usa, confezionate dall’Unione Europea e applicate dal Partito Unico in salsa urbana (Pd) e da quello in salsa burina (Fratelli d’Italia), ci stanno conducendo fuori dal tunnel, dove ci sta… l’Argentina e il suo default
“L’uomo è immortale; la sua salvezza viene dopo. Lo Stato non è immortale, la sua salvezza si ottiene ora o mai più”.
Cardinale Armand-Jean du Plessis duca di Richelieu
Premessa: alcune questioni sul senso di uno Stato
Henry Kissinger ha spesso dimostrato di essere affascinato dalla figura del Cardinale Richelieu, dal suo pensiero politico e dal suo modo di condurre lo Stato. Anche quando analizza l’operato di Otto von Bismark di un paio di secoli dopo, l’ex Segretario di Stato Usa ci infila il pensiero del Cardinale che abbiamo citato, ad esempio accostandolo al seguente passaggio di una lettera sul concetto di realpolitik indirizzata dal Cancelliere di Ferro al suo mentore, generale Ludwig von Gerlach, aiutante di campo del Re di Prussia: “Sono pronto a discutere con voi il punto di vista dell’utilità, ma se porrete antinomia fra diritto e rivoluzione, cristiani e infedeli, Dio e il diavolo, non potrò più discutere e mi limiterò a dire: ‘Non sono della vostra opinione e voi giudicate in me ciò che non vi spetta giudicare’. Questa amara dichiarazione di fede era l’equivalente funzionale dell’asserzione di Richelieu che, essendo l’anima immortale, l’uomo deve sottoporsi al giudizio di Dio, ma, essendo lo Stato mortale, questo può essere giudicato solo da come funziona” (Henry Kissinger, l’Arte della Diplomazia). Richelieu e Bismarck pongono alcune questioni di filosofia della politica assai utili da considerare nell’analisi della situazione italiana odierna, di un paese cioè che pare non veda nessuna luce nel tunnel di decadenza nel quale si è infilato ormai trent’anni fa. A titolo di aggiornamento, nell’ultimo mese del 2023 il Bel Paese è finito, consapevolmente oppure meno, addirittura al centro di una sorta di Triangolo delle Bermuda, foriero di foschi presagi per il 2024 e gli anni a venire.
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Yemen: un paese strategico nella scacchiera geopolitica
di Paolo Arigotti
La narrazione del mainstream sovente ci presenta gli Houthi – altrimenti detti Ansar Allah (“partigiani di Dio”) – come un gruppo ribelle, quasi a sottolinearne la natura non ufficiale di quello che, piaccia o meno, rappresenta il governo dello Yemen, perlomeno di una buona parte di questa martoriata nazione, ivi compresa la capitale Sanaa[1]. E non sarebbe neppure il caso di sminuirne il potenziale militare, tenuto conto che parliamo di un movimento di resistenza sciita che è stato in grado di tenere testa, a partire dal 2015, alla coalizione a guida saudita, nell’ambito di una lunga e sanguinosa guerra civile che ha funestato la nazione più povera della penisola arabica.
Gli Houthi sono tornati all’onore delle cronache quando hanno apertamente sfidato la potenza talassocratica per eccellenza, quella statunitense, nel contesto di uno dei più importanti e strategici “colli di bottiglia” del mondo: lo stretto di Bab al-Mandeb, sul mar Rosso, lo snodo di collegamento con l’oceano Indiano. Nessun dubbio circa le ragioni degli Houthi, che possono essere lette nelle dichiarazioni ufficiali del governo yemenita, nelle quali traspare la natura ritorsiva della strategia messa in atto a partire dallo scorso 14 novembre, per quanto il primo attacco si sia verificato il 19 ottobre, quando il cacciatorpediniere americano USS Carney aveva intercettato tre missili sparati dalle coste dello Yemen. Il gruppo sciita, quale risposta alle violenze perpetrate dalle forze armate israeliane nella striscia di Gaza, già costate la vita a oltre ventimila persone (per lo più donne e bambini), ha annunciato l’intenzione di prendere di mira, con droni e missili, qualsiasi nave legata a Israele che transiti da Bab al-Mandeb, che funge da porta d’accesso anche al Canale di Suez, per il cui tramite – giova ricordarlo - transita circa il 10 per cento del commercio globale e qualcosa come 8,8 milioni di barili di petrolio, corrispondenti più o meno a un decimo delle forniture globali, senza contare il circa 8 per cento di gas liquido.
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Come è possibile sciogliere in questa fase il nodo della questione comunista in Italia?
di Roberto Gabriele – Paolo Pioppi
Riceviamo e pubblichiamo
Le note che seguono servono a rinvigorire la discussione iniziata il 19 novembre col primo Forum. Ci auguriamo che l’interesse dei compagni sia rimasto vivo e per questo ci aspettiamo altri interventi sull’argomento prima che inizi la preparazione del secondo Forum su “I comunisti e la situazione internazionale” che si terrà alla fine di gennaio e della cui preparazione vi daremo conto.
* * * *
L’interrogativo va posto in modo assolutamente onesto e oggettivo non solo valutando i risultati dei ‘comunismi’ che si sono espressi nel nostro paese dopo lo scioglimento del PCI, che sono quelli che conosciamo, ma partendo dal dato degli effetti nella società italiana, e in particolare sui ceti di riferimento del partito comunista. Questo non vuol dire abbandonarsi a un pessimismo senza sbocchi, ma prendere atto della realtà e partire da questa per capire il Che fare?
In una società come quella italiana, in cui l’egemonia del PCI sul movimento dei lavoratori e sui ceti democratici e di sinistra è stata costante per decenni, la mutazione genetica del partito ha prodotto effetti devastanti. Per milioni di uomini e donne che avevano il partito come riferimento, la denuncia degli ‘errori e degli orrori’ del comunismo, l’azione propagandistica della borghesia e dei suoi organi di informazione, il venir meno del ruolo di difesa sociale del sindacato di classe, hanno fatto sì che la parola ‘comunista’ sia diventata qualcosa di estraneo. Se non si fanno i conti con questa realtà, che pesa come un macigno, si riesce solo a smuovere i cocci dei fallimenti registrati finora, ma non si fanno passi in avanti.
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Un test chiamato Gaza – Dal fronte umano (III)
di Collettivo Terra e Libertà
Riprediamo da terraeliberta.noblogs.org, il nuovo “Dal fronte umano”, dedicato al laboratorio-Israele, con uno sguardo specifico sulle collaborazioni delle università e delle fondazioni tecno-scientifiche trentine con il sistema israeliano. Ciò che si sperimenta contro la popolazione di Gaza (e della Cisgiordania) peserà a fondo sulle nostre vite. In tutti i sensi.
Il vasto movimento internazionale contro il genocidio di Gaza e in solidarietà con gli oppressi palestinesi, benché ancora insufficiente a porre fine al massacro in corso, contiene diversi aspetti positivi e alcuni caratteri in parte inediti. Il primo è senz’altro il protagonismo di immigrate e immigrati, per i quali oggi «Gaza è il cuore del mondo» e la Palestina «la patria di tutti gli sfruttati», mentre le complicità occidentali con la pulizia etnica condotta dallo Stato di Israele rappresentano qualcosa di incancellabile e senza ritorno. Da questo deriva la consapevolezza di doversi fare carico direttamente di spezzare le collaborazioni ideologiche, economiche, tecnologiche e militari con il colonialismo israeliano. Ecco allora le tante iniziative di lotta e le azioni contro multinazionali, banche, fabbriche di armi e logistica di guerra: dai blocchi ferroviari a quelli dei porti, dai picchetti fuori dalle aziende belliche alle incursioni o sabotaggi contro Amazon, McDonald’s, Carrefour, H&M, Axa Assurances. Ancora più inedita è la messa in discussione della neutralità della ricerca accademica e universitaria da parte di studentesse e studenti. La crescente indistinzione tra civile e militare, che trova nel sistema israeliano il proprio paradigma, ha reso sempre più stretti i rapporti tra i laboratori universitari, le varie fondazioni tecno-militari e l’industria bellica. «Fuori la guerra dall’università» è uno slogan che sta accompagnando occupazioni, blocchi della didattica, cortei di denuncia dentro e fuori degli Atenei. Il limite di tali importanti iniziative è la consapevolezza ancora scarsa sul fatto che l’intero apparato tecnologico è ormai una potenza di guerra (agli oppressi, alla natura, alla variabile umana e conflittuale). Un modo per avanzare nella critica teorica e pratica è quello di cogliere quanto ciò che Stati e capitalisti di mezzo mondo forniscono allo Stato d’Israele torni indietro affinato e testato sul campo, pronto all’uso per le città e le campagne smart in costruzione anche alle nostre latitudini.
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Il laboratorio del capitale. Metafisica delle competenze e controriforma scolastica
di Marco Maurizi
In cammino verso l’Oltre-Scuola
È sintomatico che l’intervento del Ministro Valditara alla Presentazione del Programma Nazionale “Suola e competenze 2021-2027”[1] sia passato relativamente inosservato. Dalle parti degli “ultra-pedagogisti” di sinistra[2] che lo avevano subito bollato come fascistissimo rappresentante di una scuola passatista, gentiliana e dal pugno duro non si è levato suono. Si capisce il perché. Non avrebbero saputo cosa dire.
Non tanto perché nel giro di un anno il Ministro ha imbellettato il proprio profilo, passando dalla “pedagogia dell’umiliazione” a farsi improbabile paladino di una scuola dell’inclusione, della lotta al sessismo e dell’educazione all’affettività, ma, ciò che più conta, perché la sua amministrazione del PNRR esprime perfettamente le linee ideologiche che da sempre accomunano i desiderata dell’UE e quelli della pedagogia sedicente “progressista”.
Queste ultime convergono nel sottrarre ogni autonomia al lavoratore docente attraverso una sussunzione del suo operato in schemi produttivi, “efficienti”, para-aziendalistici, asservendolo al contempo sempre più a compiti eteronomi di soddisfazione dell’utente-cliente scolastico, con particolare attenzione alle sue esigenze psicologico-emotive e “creative”[3].
Valditara e la pedagogia di sinistra marciano all’unisono, il cammino verso l’oltre-scuola, la Überschule del futuro, è ormai già segnato: i volti e lo stile di chi si avvicenda al MIUR sono relativamente indifferenti rispetto a un’agenda già scritta che esprime tendenze oggettive, di lungo periodo.
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Mes e patto di stabilità. Il problema è l’Unione Europea
di Ascanio Bernardeschi*
Dopo tanti contorcimenti l’Italia ha approvato la brutta riforma del patto di stabilità, ricacciandosi così nelle politiche di austerità prepandemiche. Una nuova eventuale recessione ci troverà privi di strumenti per affrontarla. Il vero problema è l’Unione Europea
Il Patto di Stabilità e Crescita, stipulato nel 1997, mirava al controllo delle politiche di bilancio pubbliche degli Stati membri dell’Unione Europea per impedire, secondo le affermazioni ufficiali, la lievitazione dei disavanzi e dei debiti pubblici e per ricondurli ai parametri stabiliti nel trattato di Maastrich: un deficit pubblico non superiore al 3% del Pil e un debito pubblico al di sotto del 60% del Pil. Per i Paesi aventi parametri al di sopra di quei limiti veniva stabilito un percorso di rientro fatto di “avvertimenti preventivi”, di “raccomandazioni” per abbattere il rapporto deficit/Pil (leggasi tagli alla spesa pubblica e privatizzazioni) e sanzioni per chi non osserva tali raccomandazioni nella forma di deposito infruttifero che viene trasformato in ammenda dopo due anni di persistenza del deficit eccessivo. I Paesi che superavano la soglia del 60% del debito pubblico rispetto al Pil dovevano invece impegnarsi in un percorso di riduzione del debito, che prevedeva un taglio della parte eccedente il 60% nella misura del 5% all’anno, di modo che in 20 anni ogni Stato sarebbe rientrato nel parametro.
L’Italia ha attualmente un debito pubblico del 140%. L’applicazione della misura prevista dal patto avrebbe comportato tagli dell’ordine dei 75 miliardi l’anno per vent’anni, cioè un disastro sociale infinito, tanto che lo stesso Romano Prodi, non certo un antieuropeista, definì questa misura “patto di stupidità”. Infatti né il nostro Paese né altri sono riusciti a centrare l’obiettivo di quel taglio.
Nel 2020 e fino alla fine del 2023, a seguito delle difficoltà generate dalla pandemia, il patto venne sospeso. La sua riattivazione a partire da quest’anno peserà come un macigno anche se vengono proposte da parte della Commissione Europea (costituita da un membro indicato da ciascun governo) alcune modifiche volte ad attenuarne certe rigidità.
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La nuova governance economica europea
di Orizzonte48
Il ritorno dell'austerità espansiva tra triloghi e crescente de-costituzionalizzazione del processo legislativo nazionale
1. Dalla mail di EIR- Strategic Alert n.1/2024, del 4 gennaio 2024, riceviamo il sotto riportato commento alla nuova governance dell'Unione europea, a buon punto di adozione dopo il Consiglio del 20 dicembre 2023; lo riproduciamo ponendovi delle ulteriori note a illustrazione più approfondita del complesso insieme di fonti che compone tale riforma del Patto di Stabilità e Crescita.
Avvertiamo che, sulla scorta della premessa che andremo brevemente ora a svolgere (è breve rispetto alla portata dell'argomento sul piano giuridico-costituzionale), non entreremo nel merito della complicatissima serie di previsioni transitorie di cui tutt'ora si discute nei "triloghi".
2. Quello che ora interessa evidenziare è la sostanza "a regime" della nuova disciplina e come, ancora una volta, ci troviamo a subire, - senza alcuna possibilità concreta di influire sulla sua sostanza regolatoria, della massima importanza nelle nostre vite quotidiane e, in proiezione collettiva, della nostra esistenza democratica -, una disciplina inesorabile e distruttiva, sia dal punto di vista occupazionale, quantitativo e qualitativo, che della nostra capacità industriale, e delle connesse prospettive demografiche, SENZA AVERLA MAI CONCEPITA ALL'INTERNO DI UN DIBATTITO CONFORME AI PRINCIPI FONDAMENTALI DELLA NOSTRA COSTITUZIONE E A QUALSIASI ESPRESSIONE DELLA VOLONTA' POPOLARE RILEVABILE NELLE ELEZIONI POLITICHE.
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Angelo Calemme, La Questione meridionale dall’Unità d’Italia alla disintegrazione europea
Recensione di Ciro Schember
In cambio della riforma del premierato e, in subordine, di quella della riduzione dei poteri del Parlamento e del Presidente della Repubblica, in altre parole, in cambio dell’approvazione del Ddl Casellati, Roma pensa di dare il via libera al Senato per il Regionalismo differenziato ovvero per la realizzazione ulteriore del progetto leghista della “secessione senza secessione”, precisamente della legale separazione socio-economica del Mezzogiorno italiano senza rinunciare all’Unità (politica) del Paese: il 16 gennaio si discuterà, quindi, non solo della riforma per l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei Ministri, ma, anche e soprattutto, della definitiva separazione fiscale di regioni centro-settentrionali come Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto, con ciò aggravando ancor di più lo scambio ineguale (subcoloniale) tra Centro-Nord e Sud. A conferma di questa tesi giunge la nota dell’Ufficio parlamentare di Bilancio relativa ai tagli previsti al Fondo perequativo infrastrutturale per gli anni 2024, 2025 e 2026, la quale informa che il Mezzogiorno sin da quest’anno perde 281,1 milioni di euro, 264,2 milioni l’anno prossimo e 300 tra due anni.
Per chi non ne fosse a conoscenza, il Fondo perequativo infrastrutturale è lo strumento costituzionale (introdotto dalla L. Cost. 3/2001, che ha sostituito l’Art. 119 della Cost.) che, all’interno del quadro normativo previsto dal Federalismo fiscale prima e del Regionalismo asimmetrico poi, deve compensare eventuali squilibri (asimmetrie?) fra le entrate tributarie delle regioni italiane e consentire agli enti preposti di erogare i servizi di loro competenza a livelli omogenei su tutto il territorio nazionale.
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Palestina, i diritti negati
Alba Vastano intervista Michele Giorgio
Alba Vastano: Prima di entrare nel tema dell’intervista, possiamo fornire ai lettori brevi informazioni su come è avvenuto che la tua storia professionale si è intrecciata con la storia della Palestina?
Michele Giorgio: Mi sono recato a Gerusalemme per motivi di lavoro, per qualche periodo alla fine del 1989 per conto di un agenzia di stampa. Nel periodo successivo sono andato e tornato varie volte. Vivevo tra Roma e Gerusalemme. Un momento importante è stato nel periodo della guerra del Golfo del ‘91quando sono venuto qui per scoprire quello che accadeva nei territori occupati palestinesi e in Israele durante quella guerra. Poi ho cominciato a collaborare con “il Manifesto”. Sono diventato poi il corrispondente da Gerusalemme. Ho effettuato vari viaggi di lavoro per “il Manifesto” in vari paesi del Medio oriente, nel Nord Africa e in Asia centrale. Nel 2021 ho fondato con altri colleghi una rivista che si chiama “Pagine esteri.it”, rivista di approfondimento politico e culturale sugli Esteri.
AV: Su quanto accaduto il 7 ottobre i media continuano a ribadire che la scintilla che ha scatenato il conflitto con Israele l’ha accesa Hamas con l’attentato definito di matrice terroristica. Qual è la tua opinione, ma soprattutto, qual è la verità sul conflitto in corso e sulle dinamiche dell’escalation?
MG: Sicuramente a Gaza è avvenuta una grossa rappresaglia, da parte di Israele, che ha causato la morte di molti civili innocenti. Non lo affermo sulla base di un mio convincimento personale, ma sulla base di quello che sono le notizie, soprattutto sulla base di quello che riferiscono le agenzie umanitarie più importanti.
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Siria, Libano, Iran, Iraq: escalation di attentati e attacchi in Medio Oriente
di Roberto Iannuzzi
Una serie impressionante di attacchi, attribuiti a Israele, all’ISIS e agli USA, e rivolti invariabilmente contro l’asse iraniano in Medio Oriente, accresce i rischi di destabilizzazione regionale
Negli ultimi dieci giorni, a cavallo fra il vecchio e il nuovo anno, una progressione sconcertante di attentati ha colpito obiettivi legati all’asse iraniano in Medio Oriente. La serie ha avuto inizio con l’uccisione del generale iraniano Radhi Mousavi lo scorso 25 dicembre a Damasco, in Siria. Il 2 gennaio, un attacco missilistico (probabilmente compiuto da un drone) ha ucciso Saleh al-Arouri, uno dei principali esponenti del movimento islamico palestinese Hamas, insieme ad altri uomini del gruppo, nel sobborgo meridionale di Beirut, considerato la roccaforte del gruppo sciita libanese Hezbollah. Il giorno dopo, una doppia esplosione nei pressi della tomba del generale Qassem Soleimani, a Kerman, in Iran, ha mietuto quasi cento vittime fra i presenti giunti a commemorare il comandante assassinato quattro anni fa dagli USA in Iraq. Infine, proprio in Iraq gli Stati Uniti hanno ucciso, ancora una volta tramite un drone, il leader di una milizia filo-iraniana il 4 gennaio.
Questa sanguinosa serie di episodi infiamma ulteriormente un panorama mediorientale già profondamente scosso dal terribile conflitto in corso a Gaza e dalle sue ramificazioni regionali, fra le quali spiccano lo scontro militare fra Israele e Hezbollah (fino a questo momento limitato a reciproci bombardamenti lungo il confine libanese), e le tensioni nel Mar Rosso causate dagli attacchi alle navi mercantili dirette verso Israele da parte della formazione sciita yemenita di Ansar Allah (meglio nota come movimento degli Houthi, dal nome del suo fondatore).
Attacco al cuore del potere iraniano a Damasco
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La scelta della guerra civile
di Christian Laval, Haud Guéguen, Pierre Dardot, Pierre Sauvêtre
Il testo che segue è un estratto dall'Introduzione al volume La scelta della guerra civile. Un'altra storia del liberalismo, di Christian Laval, Haud Guéguen, Pierre Dardot, Pierre Sauvêtre, edito da Meltemi
1. Le strategie di guerra civile del neoliberalismo
Il neoliberalismo muove sin dalle sue origini da una scelta effettivamente fondativa, la scelta della guerra civile. Questa scelta continua ancora oggi, direttamente o indirettamente, a comandare gli orientamenti e le politiche neoliberali, anche quando questi non implicano l’uso di mezzi militari.
È questa la tesi sostenuta da un capo all’altro del libro: attraverso il ricorso sempre più manifesto alla repressione e alla violenza contro le società, ciò che si sta realizzando oggi è una vera e propria guerra civile. Per comprendere correttamente questo fenomeno, conviene innanzitutto tornare su questa nozione. È molto diffusa l’idea che vede la guerra civile come guerra interna opporsi alla guerra interstatale come guerra esterna. In virtù di questa opposizione, la guerra civile si fa tra cittadini di uno stesso Stato. Mentre la guerra esterna è una questione di diritto, alla quale tutti i soggetti belligeranti sono sottomessi, la guerra interna è rigettata nella sfera del non-diritto. Alla rivendicazione di Courbet nell’aprile del 1871 in favore di uno statuto di belligeranti per i comunardi, che invocava “gli antecedenti della guerra civile” (la guerra di Secessione del 1861-1865) è stato opposto che “la guerra civile non è una guerra ordinaria”1. A questa antitesi bisogna aggiungerne una seconda, che raddoppia la prima, quella della politica e della guerra civile: mentre la politica è la sospensione della violenza attraverso il riconoscimento del primato della legge, la guerra civile è dispiegamento sregolato della violenza, di una collera “che mescola indissolubilmente furore e vendetta”, per dirla con Tucidide2. Tutte queste antitesi, e altre ancora, ostacolano la presa in esame del neoliberalismo a partire dalla sua stessa strategia. Adottando questo punto di vista, apprendiamo che la politica può perfettamente far suo l’uso più brutale della violenza e che la guerra civile può essere combattuta attraverso il diritto e la legge.
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La guerra. Esperimento Terra
di Giovanna Cracco
L’impatto ambientale degli esperimenti nucleari. Documenti desecretati rivelano che tra il 1945 e il 1992 gli Stati Uniti hanno effettuato 1.051 test atomici esplodendo in totale 180 megatoni, pari a 11.250 bombe di Hiroshima; 12 test hanno contemplato il lancio di razzi fino a 700 km di quota, nella magnetosfera, con l’obiettivo di verificare se la struttura stessa del sistema Terra potesse essere utilizzata come arma. Quali sono state le conseguenze a lungo termine sull’equilibrio terrestre e sul clima?
Quando si imputa alle attività umane la responsabilità del cambiamento climatico, una di esse gode di un unanime e trasversale occultamento: l’attività militare. L’economia, la politica, i principali think tank, le grandi agenzie sovranazionali... nessuno ne fa citazione nei dettagliati e accalorati documenti che auspicano, o impongono, innovazioni green e transizioni ecologiche. L’industria della guerra, dalla produzione alle esercitazioni ai conflitti in giro per il pianeta, è esclusa sia dall’elenco delle cause che da quello delle soluzioni. La sua incidenza sull’ambiente è innegabile, ma la difficile quantificazione per mancanza di dati, come mostra il Report di Scientists for Global Responsibility e Conflict and Environment Observatory qui pubblicato a pag. 34, la porta, per restare nel campo semantico, ‘fuori dai radar’ della discussione.
D’altra parte, la guerra è morte e distruzione della biosfera e della vita; è bombardamenti e agenti chimici; è aviazione, carri armati, proiettili, gas... come si potrebbe discutere di rendere ecologicamente sostenibile una simile attività umana? Siamo davanti a un nonsense.
Non è l’unico. Se i danni da gas serra sono almeno conosciuti e riconosciuti, ve ne sono altri tuttora ignoti.
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La montagna della UE e il topolino del nuovo patto di stabilità
di Domenico Moro
Con la pandemia di Covid-19 e la forte crisi economica a essa connessa, il Patto di stabilità, basato sui vincoli del 3% al deficit e del 60% al debito, era stato sospeso fino alla fine del 2023. In circa 20 anni in cui sono stati in vigore, i vincoli al debito e al deficit hanno dato una pessima prova di sé, contribuendo a determinare la stagnazione dell’economia della Ue. La crescita europea è stata talmente risicata da determinare la perdita di posizioni economiche a livello mondiale nei confronti dei Paesi emergenti, in particolare della Cina. Ad esempio, la Ue a 27 è scesa, tra 2003 e 2022, dal 19,1% al 13,8% delle esportazioni mondiali, mentre la Cina è salita dal 7,6% al 18,3%[i].
Consci di questa situazione di decadenza economica, dovuta non solamente ma certamente almeno in parte a come era stato congegnato il Patto di stabilità, la Commissione europea e molti paesi hanno colto al balzo l’occasione della sospensione del Patto di stabilità per chiederne una modifica sostanziale. Il fronte della riforma è composto dai Paesi con maggiori difficoltà debitorie pubbliche, specialmente quelli con debito superiore al 100%: Grecia (160,9%), Italia (139,8%), Francia (109,6%), Spagna (107,5%), Belgio (106,3%) e Portogallo (103,4%). Come si può facilmente osservare si tratta di una fetta molto ampia della popolazione della UE, che comprende la seconda, la terza e la quarta economia europea. Non proprio una bazzecola. A contrastare il fronte della riforma si è eretto il solito fronte dell’austerity e della severità di bilancio, che è rappresentato dalla Germania, unica tra le grandi economie, e dai suoi satelliti, i cosiddetti “frugali”, in particolare l’Olanda, la Danimarca, l’Austria e la Finlandia.
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Salvare l’economia da sé stessa
Jacopo Caja intervista Steve Keen
L'economista australiano Steve Keen, intervistato da Jacobin, propone una visione alternativa a quella dell'economia neoclassica che domina da cinquant'anni, per fronteggiare le disuguaglianze e scongiurare il collasso climatico
La politica economica dei paesi avanzati negli ultimi anni ha mostrato tutti i suoi limiti ed è sempre più in discussione. Da quasi cinquant’anni, l’economia è dominata dalla visione neoclassica che presuppone la razionalità degli individui e ignora il ruolo della moneta, escludendola dai modelli di previsione. Questa semplificazione, nata con l’idea di rendere più «maneggevole» l’economia, ha prodotto effetti profondi nel mondo reale, aprendo alla deregolazione dei mercati finanziari e alle politiche di austerità.
Steve Keen, professore di economia alla Western Sydney University e all’University College di Londra nel libro L’economia Nuova, da poco uscito in Italia per Meltemi, evidenzia la necessità di un’alternativa a questa visione prevalente. Un’alternativa che tenga conto delle complessità per fronteggiare realmente le disuguaglianze e scongiurare il collasso climatico.
* * * *
Lei è da sempre uno studioso del mercato monetario e del ruolo del debito privato. Ed è stato uno dei pochi economisti ad aver previsto la crisi del 2008. Come mai, invece, non l’hanno prevista gli economisti mainstream?
Gli economisti neoclassici hanno sempre sostenuto che il denaro non abbia importanza per l’economia reale. Pensano che il governo controlli l’offerta di moneta: se quest’ultimo crea troppa moneta, produce inflazione. In questa visione, i fattori monetari non influenzano il livello reale della produzione. E questo è categoricamente sbagliato. Al contrario, il denaro creato dalle banche diventa sia parte del reddito aggregato che della spesa aggregata. Quindi, il denaro ha effetti reali.
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