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L'invasione
di Dante Barontini
Grandi cambiamenti in corso. QUalcuno trasloca, qualcuno si insedia...
Berlusconi oggi lascia la presidenza del consiglio. Domani sera Napolitano darà l'incarico a Mario Monti, dopo rapide “consultazioni” mattutine.
Come si inquadra la nuova situazione politica per i prossimi mesi o anni? Possiamo continuare a ragionare politicamente come qualche giorno fa?
Ci tocca usare un'immagine forte, per farci capire, altrimenti si continua a girare intorno al problema, a non vedere la “lettera scomparsa” che sta davanti ai nostri occhi.
La diciamo così: siamo stati invasi dalle forze di una coalizione molto potente.
Non è un'invasione fatta con i carri armati, ma con le squadre di ispettori della troika (Ue, Fmi, Bce). Sono venuti per cambiare la struttura di questo paese e resteranno tutto il tempo necessario (Van Rompuy è stato chiaro). Forse per sempre. L'immagine dei “commissari” che bloccano la presentazione in aula del maxi-emendamento, per controllare fino all'ultimo istante che contenga soltanto quello che loro avevano deciso, dà la misura del “dominio pieno” che gli invasori hanno subito preso a esercitare. Non servono nuove elezioni; il "programma politico" c'è, il personale per realizzarlo pure. La democrazia può attendere. Anzi, deve. Per quanto tempo? Non si sa, ma va bene così, state tranquilli, "siamo venuti in pace" (ricordate Mars Attack?).
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Il denaro è diventato obsoleto?
Anselm Jappe
I media e le istanze ufficiali ci stanno preparando: molto presto si scatenerà una nuova crisi finanziaria mondiale e sarà peggiore che nel 2008. Si parla apertamente di «catastrofi» e «disastri». Ma che cosa accadrà dopo? Come saranno le nostre vite dopo un crollo su vasta scala delle banche e delle finanze pubbliche? L’Argentina ci è già passata nel 2001. A prezzo di un impoverimento di massa, l’economia di questo paese ha potuto successivamente risalire un po’ la china: ma in quel caso, non si trattava che di un solo paese. Attualmente, tutte le finanze europee e nord-americane rischiano di sprofondare insieme, senza alcun salvatore possibile.
In quale momento il crack delle borse non sarà più una notizia appresa dai media, ma un evento di cui ci si accorgerà uscendo per strada? Risposta: quando il denaro perderà la sua funzione abituale. Sia rarefacendosi (deflazione), sia circolando in quantità enormi ma svalutate (inflazione). In entrambi i casi, la circolazione delle merci e dei servizi rallenterà fino a potersi arrestare totalmente: i loro possessori non troveranno più chi potrà pagarli in denaro, in denaro «valido» che gli permetta, a sua volta, di acquistare altre merci e servizi. Essi terranno quindi per sé quei servizi e quelle merci. Ci saranno magazzini pieni, ma senza clienti; fabbriche in grado di funzionare perfettamente, ma senza nessuno che ci lavori; scuole in cui i professori non si presenteranno più, perché privi di salario da mesi. Allora ci si renderà conto di una verità che era talmente evidente da non essere più vista: non esiste alcuna crisi nella stessa produzione. La produttività aumenta continuamente in tutti i settori. Le superfici coltivabili della terra potrebbero nutrire tutta la popolazione del globo e allo stesso modo le officine e le fabbriche producono molto più di quanto sia necessario, desiderabile e sostenibile. Le miserie del mondo non sono dovute, come durante il Medio Evo, a catastrofi naturali, ma ad una specie di incantesimo che separa gli uomini dai loro prodotti.
Quello che non funziona più è l’«interfaccia» che si pone tra gli uomini e ciò che producono: il denaro. Nella modernità, il denaro è diventato il «mediatore universale» (Marx). La crisi ci mette di fronte al paradosso fondativo della società capitalista: in quest’ultima la produzione di beni e servizi non è un fine, ma soltanto un mezzo. Il solo fine è la moltiplicazione del denaro, è investire un euro per riscuoterne due.
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Eric Hobsbawn, How to Change the World*
di Laura Cantelmo
Una storia delle sue applicazioni e di come nel socialismo reale si elaborò quella teoria dello stato che Marx e il suo sodale Engels non portarono mai a compimento. L'enorme influsso sulla cultura e sulla teoria politica desecolo ne rendono imprescindibili la conoscenza, l'approfondimento e il suo riconoscimento come formidabile metodo di analisi della società capitalistica e delle sue crisi.
Il “racconto” dell'evoluzione della teoria marxiana e l'individuazione dell'umanesimo insito in essa. La sua attualità è dimostrata dall'attenzione ad essa rivolta dagli economisti di scuola liberista. Una storia delle sue applicazioni e di come nel socialismo reale si elaborò quella teoria dello stato che Marx e il suo sodale Engels non portarono mai a compimento. L'enorme influsso sulla cultura e sulla teoria politica del XX secolo ne rendono imprescindibili la conoscenza, l'approfondimento e il suo riconoscimento come formidabile metodo di analisi della società capitalistica e delle sue crisi.
Marx: un fantasma che si aggira per il mondo e di cui il mondo non riesce a liberarsi. In tempi di anti-comunismo, di demonizzazione indiscriminata di quanto il comunismo reale ha prodotto, potrà forse sorprendere che le opere marxiane non siano mai veramente finite “in soffitta”, come polemicamente affermava Bordiga.
Il lavoro di Hobsbawn vuole essere un racconto più che una trattazione accademica o un manuale operativo per militanti.
Un racconto inevitabilmente serio, ma dal tono discorsivo, che ripercorre lo sviluppo della teoria marxiana e poi del marxismo documentando a partire dagli scritti giovanili la pervasività del pensatore Marx in tutta la cultura, la letteratura, le scienze umane.
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Italia, un 'regime change' senza armi
Enrico Piovesana
La soluzione ai nostri guai sarebbe quindi Mario Monti, tecnocrate che gode della piena fiducia dei mercati. Non stupisce, visto che l'ex commissario europeo è anche consulente di Goldman Sachs (la superbanca che ha causato il collasso greco che l'affossamento dei Btp italiani) e della Coca Cola, presidente europeo della Commissione Trilaterale di David Rockefeller e membro direttivo del potente club Bilderberg.
Ma come si è arrivati a questo?
Lo scorso luglio i mercati internazionali, soprattutto statunitensi (grandi banche d'affari, fondi d'investimento, agenzie di rating, multinazionali e compagnie assicurative) hanno scatenato il loro attacco speculativo contro l'Italia: non perché le condizioni economiche del nostro Paese fossero improvvisamente peggiorate, ma per la definitiva perdita di credibilità e di fiducia del governo Berlusconi.
Inizialmente sostenuto dai mercati internazionali per le sue promesse di 'rivoluzione liberale', ultimamente il Cavaliere, sempre più invischiato nei suoi scandali sessuali e concentrato a difendere i suoi interessi personali, veniva giudicato dai mercati irrimediabilmente inadeguato a portare avanti le riforme e le politiche economiche da essi richieste.
La crescente apprensione dei mercati si è tramutata in paura a giugno, con la vittoria del referendum contro la privatizzazione dell'acqua: un campanello d'allarme sulla pericolosa piega democratica che rischiava di prendere l'Italia nel vuoto di potere creato da Berlusconi.
In un Paese inaffidabile e indisciplinato come l'Italia, i mercati non potevano certo affidare il cambio di regime al popolo bue, rischiando di vedersi rieletto Berlusconi o di vederlo sostituito da un governo troppo sbilanciato a sinistra. Hanno giudicato più sicuro prendere direttamente il controllo dell'Italia con il pretesto dell'emergenza.
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Il default è un disastro ma è il male minore
di Guido Viale
Di quale crescita parliamo? Di rilanciare la produzione di suv, lavatrici e navi da guerra, o di tav, mose e ponti? Le ricette che hanno ucciso la Grecia ci preciterebbero nel baratro. Una polemica con Felice Roberto Pizzuti
«Un default azzererebbe il risparmio che i singoli cittadini/lavoratori, direttamente o indirettamente, hanno affidato allo stato, anche a fini pensionistici (...). Riguarderebbe anche le istituzioni del welfare, cioè il sistema pensionistico obbligatorio, gli ammortizzatori sociali e l'assistenza, il sistema sanitario nazionale, l'istruzione (...). Si estenderebbe alle banche e sarebbero colpiti anche i singoli correntisti (...). Priverebbe il sistema produttivo non solo del risparmio nazionale, ma anche del suo sistema bancario, con l'effetto di estendere la crisi all'economia reale (occupazione, consumi, prestazioni sociali, ecc) (...). Genererebbe seri rischi di altri fallimenti a catena nell'economia europea e mondiale. L'euro e la stessa Unione europea avrebbero molte difficoltà a sopravvivere (...). Bisognerebbe mettere in conto inevitabili reazioni, rivalse e un grave deterioramento delle relazioni internazionali (...). Sarebbe poi pressoché impossibile praticare politiche autonome che privilegiassero obiettivi sociali e ambientali».
Queste frasi, estratte da un articolo di Felice Roberto Pizzuti sul manifesto del 4 novembre, vorrebbero scongiurare il rischio di un default; e persino diffidare dal parlarne troppo, per paura che l'idea si diffonda per contagio. L'autore non sembra rendersi conto che quello che prospetta come conseguenza di una scelta politica per lui da evitare (blocco del welfare, paralisi di scuola e sanità, contrazione del circuito economico, disoccupazione, isolamento internazionale, azzeramento delle politiche ambientali, ecc.) non è molto diverso da quello che succede in Grecia con le misure imposte dalla cosiddetta troika. O dalla strada che l'Italia è destinata a percorrere se darà attuazione alle prescrizioni di Draghi e Trichet. Tutti sanno che la Grecia non si risolleverà per anni dallo stato di prostrazione economica e civile a cui la condannano quelle misure: la aspetta come minimo un «ventennio perso», come quello che il Fmi aveva imposto ai paesi dell'America latina alla fine del secolo scorso - e dal quale si sono risollevati solo quando ne hanno rigettato le prescrizioni.
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Comunismo fra Idea e Storia
Riflessioni a partire da Alain Badiou, Michael Hardt, Toni Negri e Gianfranco La Grassa
di Costanzo Preve
1. Anziché perderci nel “piccolo cabotaggio” di piccole formazioni che si auto-certificano soggettivamente come “comuniste” (ma anche i matti si auto-certificano soggettivamente come reincarnazioni di Napoleone), ma devono mettere in primo piano le compatibilità delle leggi elettorali e l'identità pregressa dei loro potenziali militanti e simpatizzanti, che non devono essere in nessun caso “scandalizzati” con novità irricevibili (novità, come è noto, di cui si nutrono esclusivamente la scienza e la filosofia), conviene invece tornare ai “fondamentali”. Ed i “fondamentali”, per un comunista, sono l'idea e la pratica del comunismo.
In proposito partirò da due soli libri recenti. Il primo (AAVV, L' idea di comunismo, Derive e Approdi, d'ora in poi IDC) contiene molti con tributi, ma per brevità mi limiterò a quelli di Alain Badiou (Badiou, IDC), Michael Hardt (Hardt, IDC) e Toni Negri (Negri, IDC). Ce ne sarebbero anche altri di meritevoli e rilevanti, ma voglio concentrare la mia attenzione su pochi nodi tematici. Il secondo (cfr. Gianfranco La Grassa, Oltre l'orizzonte. Verso una nuova teoria dei Capitalismi, Besa, d'ora in poi GLG) concerne invece solo l'ultima opera di questo prolifico autore (da più di trent'anni mio amico personale al di là di divergenze radicali sullo statuto filosofico “umanistico” o meno della teoria di Marx), che però riassume mirabilmente un serissimo processo di pensiero.
2. E' bene partire dai “fondamentali” per non perderci in due tipi di chiacchericcio, il solo che trova spazio nei giornaletti di “estrema sinistra” (Manifesto, Liberazione, eccetera), sedimentati dall'onda lunga della risacca del Sessantotto (da non confondere con l'anno solare 1968). Il Sessantotto vede in Europa Occidentale l'affermarsi incontrastato dell'incorporazione post-moderna del ceto intellettuale nelle strutture flessibili di un nuovo capitalismo “speculativo”, post-borghese, post-proletario e nello stesso tempo ultra-capitalistico, ed il pensare che l'idea di comunismo possa essere rilanciata all'interno di questa cultura di “sinistra” è forse l'impedimento più grande allo sviluppo di questo progetto.
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Colpo di Stato! Pino Cabras e Stefano G. Azzara' sulla situazione italiana

Monti, siamo pronti
di Pino Cabras
Il vero potere ha gettato la maschera e le ultime vestigia della semi-sovranità italiana sono state demolite, nell’annus horribilis della nostra Repubblica, dopo che anche la guerra di Libia aveva svelato la disfatta di ogni autonomia nazionale. Nessuna urgenza economica al mondo può giustificare un peggioramento così repentino degli interessi del debito - oltre la soglia del non ritorno, oltre le convenzioni del default tecnico - come quello del 9 novembre 2011.
Solo un concorso di volontà decise a imprimere una svolta rivoluzionaria poteva scatenare un attacco di questa portata, micidiale quanto un colpo di stato.
A suggello di un giorno trionfale per la sovversione dall’alto decisa a livello di classi dominanti globali, il Presidente della Repubblica ha nominato senatore a vita Mario Monti, il tecnocrate italiano più organico all’élite planetaria, un vero cardinale del pensiero unico economico, uno dei padri nobili del feroce disastro sociale di questi anni, il babbo insensibile di tutti i precari, il fratello coltello di tutti i pensionati. L’uomo di Rockefeller e della Goldman Sachs, della Commissione Trilaterale e del Gruppo Bilderberg.
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Tutto tranne democrazia
Claudio Messora
Sta succedendo qualcosa. Qualcosa che va oltre la crisi economica: sembra più che altro una crisi di sovranità. E non è la questione di lana caprina che tanto sembra preoccupare i nostri editorialisti di punta, ovvero se sia giusto o meno farsi commissariare dalla UE e dall'FMI rinunciando così - formalmente e pro-tempore - al possesso delle nostre stesse chiavi di casa. E' qualcosa di più profondo, una trama nella trama che si può provare a spiegare in molti modi diversi, ma che non è prudente lasciare che si dipani mentre l'attenzione generale si concentra su alcuni personaggi e non su altri.
L'interesse che i mercati finanziari e le istituzioni globali dimostrano da qualche tempo nei nostri confronti è sotto gli occhi di tutti, certo, ma non è che la parte superiore dell'iceberg, quella sberluccicante sotto ai raggi del sole. I giornali e le televisioni (chi più, chi meno) ci spiegano che siamo commissariati da una terna di ferro, composta dal Fondo Monetario Internazionale, dall'Unione Europea e dalla Banca Centrale Europea (BCE). Un accerchiamento totale al quale il gioco della speculazione internazionale ci consegna senza possibilità di fuga. Per il nostro stesso interesse - si dice - e per quello dei sottoscrittori del nostro debito dobbiamo realizzare una serie di riforme. E poiché non siamo più credibili, forti pressioni costringono il Governo in carica a rassegnare le sue dimissioni, nonché tutto un popolo a rinunciare alla propria autodeterminazione. Mutatis mutandis è più o meno quanto è accaduto in Grecia.
Il principio più incredibile che viene sostenuto senza il benché minimo stupore sarebbe quello secondo cui la politica da sola non può realizzare misure impopolari, perché avrebbe il timore di giocarsi il consenso elettorale, per cui sarebbe imperativo affidare le riforme necessarie a un governo di larghe intese, oppure al cosiddetto governo tecnico, magari sotto la direzione di un podestà forestiero. Cosa significa?
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Sovranità e ritorno alla centralità della "politica"
Massimiliano Piccolo
La realtà ci offre, come sempre, infiniti spunti. La globalizzazione priva di aggettivazioni è stata smascherata dai fatti, si è rivelata per quello che è: il tentativo di governo economico, politico e ideologico del capitale nei modi possibili della sua attuazione.
Si tratta di un tentativo fallito per le contraddizioni insanabili che questo processo genera da sé. Fallimento riconosciuto da tutti. Parallelamente anche la tesi storiografica e politologica sulla presunta estinzione degli stati-nazionali mostra tutta la sua debolezza scientifica. L’inferenza logica cercata e, da taluni, auspicata era, conseguentemente, l’impossibilità e quindi l’inutilità della presa del potere. Mancando il luogo, lo spazio, della direzione politica, l’inversione di rotta è impossibile era affermato come Verbo, per cui meglio guardare a soluzioni possibili (cioè compatibili col modo di produzione capitalista). Qualcuno ringrazia per tanta grazia; certamente non i lavoratori né tutti quelli che hanno a cuore margini più ampi di partecipazione democratica e collettiva alle scelte politiche. Crisi della sovranità si dice. E sia. Crisi, però, non significa estinzione o annichilimento ma trasformazione possibile: nulla è già scritto.
La costruzione economica dell’Europa, sotto la spinta della globalizzazione capitalistica, ha determinato un vuoto politico sempre più marcato ma gli Stati europei, com’è sotto gli occhi di tutti, non si sono disintegrati, hanno parzialmente alienato un surplus o un residuo di sovranità: quelli che si candidano alla guida del nuovo polo imperialistico europeo, infatti, alienano il surplus funzionale alla creazione della nuova entità statale, mentre gli altri, che ne costituiscono il serbatoio iniziale, alienano invece il loro residuo di sovranità.
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Il destino dell’intellettuale
di Rino Genovese
Che cosa voglia dire essere un intellettuale è diventato oggi così problematico in confronto a ciò che poteva significare ieri, tra la fine dell’Ottocento e la metà del Novecento, quando il significato del termine era ancora del tutto evidente a chi fosse inserito nel gruppo sociale detto intellighenzia (con un termine russo ricalcato sul francese e ritornato attraverso uno strano détour in Occidente), come pure al pubblico dei lettori di giornali e di libri identificabile in una ristretta élite, che una ripresa della vexata quaestio rischia di vedere scomparire il suo oggetto sotto gli occhi nel momento stesso in cui si accinge a parlarne. Uno scrittore, un artista, uno studioso facevano parte di un piccolo mondo obiettivamente attrezzato all’elaborazione e alla diffusione della cosiddetta alta cultura; e soggettivamente potevano sentirsi degli intellettuali in quanto erano riconosciuti come tali da un pubblico, e tra loro stessi in modo reciproco, in rapporto a un’impresa comunicativa di portata più ampia, che era poi quella della società in generale. Ciò poteva avvenire sia nel segno di una spinta in senso illuministico sia in quello di un richiamo alla tradizione in chiave antilluministica. Appare infatti come suo fatale marchio d’origine che il termine intellectuel sia divenuto di uso corrente in Francia durante l’affare Dreyfus, e che quindi si sia situato da subito nel vivo della polemica tra i valori dell’universalismo democratico e liberale e quelli del nascente nazionalismo antidemocratico e, nel caso specifico, anche antisemita. I contendenti dei due schieramenti si scontravano in nome di uno stesso insieme di valori, declinandoli però in modo opposto. Gli uni puntavano su quelle che agli altri sembravano semplici astrazioni – la verità, lo Stato di diritto, la democrazia –, e i secondi erano denunciati dai primi in quanto cultori delle radici tradizionali a scapito della verità e della giustizia. Sia per i dreyfusardi sia per gli antidreyfusardi, tuttavia, era assodato che la letteratura, il lavoro culturale, fossero altra cosa dalla pura costruzione di effetti estetici o, peggio ancora, un mezzo per cercare di far soldi e basta; che fossero, cioè, modi di assunzione di una responsabilità sociale.
Questo almeno è ciò che essi pensavano di se stessi, la maniera in cui concepivano enfaticamente la propria missione.
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11 novembre cosa faremo?
di Franco Berardi "Bifo"
L’interminabile imbarazzante agonia del governo Berlusconi annuncia e proroga lo scontro vero. Il mammasantissima è stato così occupato a far gli affari suoi che non ha avuto tempo di portare ad esecuzione i diktat della banca centrale europea. Per questo cercano ora di farlo fuori coloro stessi che lo avevano invece sostenuto o tollerato quando le sue colpe erano soltanto quelle di favorire la mafia e l’evasione fiscale, distruggere la scuola pubblica, comprare deputati e senatori, corrompere i giudici e seminare ignoranza e servilismo per mezzo del monopolio mediatico che gli è stato consentito accumulare.
Ora che si rivela incapace di stringere il cappio al collo della società italiana, perché non ha la forza e la credibilità per strangolarci ecco efficienti aguzzini apprestarsi a prendere il suo posto, perché a loro il polso non trema. Incitati da un Presidente inflessibile solo quando si tratta di salvaguardare gli interessi della classe finanziaria globale, i cani latrano tirando sul laccio che li trattiene. Vogliono azzannare gli efficienti adoratori dell’impietosa divinità che si chiama Mercato. Ma non c’è più nessun mercato, in verità, solo un campo di battaglia.
Di là l’esercito aggressivo dei predoni accumula bottino – privatizza i servizi, licenzia, aumenta le ore di lavoro straordinario non pagate, nega la pensione a chi l’attende con buon diritto, elimina spese inutili come la scuola e la sanità. Di qua l’esercito disordinato dei lavoratori trasformato in esercito di precari poveri senza speranza, arretra lanciando urla che promettono una vendetta che non verrà, perdendo metro dopo metro i suoi pochi averi, il prodotto dei suoi risparmi e del suo lavoro, la speranza di mandare i figli a scuola.
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Viva l’Italia, ma quella del 99%
di Augusto Illuminati
Non siamo eguali! Non siamo assolutamente eguali! Gliel’ha gridato così bene Vanessa in faccia a Diego Della Valle durante Servizio pubblico di Santoro che non è il caso di aggiungerci niente. Una scarpa in faccia allo scarparo mastelliano. Sì, il 99% non è eguale al residuo 1% e poco importa se quell’1% sia composto da politici corrotti o da politici falliti, da imprenditori di successo o da magliari assatanati. Ci dividono il reddito e i progetti, il bilancio del passato e le volontà di futuro. La divisione non passa fra generazioni o fra politica e società civile, non passa neppure fra garantiti e non garantiti –come vorrebbero compassionevoli riformisti e allucinati insurrezionalisti– ma fra chi pratica la democrazia e rifiuta di pagare la crisi e chi usa la crisi per accrescere i profitti e strangolare la democrazia. Di volta in volta (e fa poco differenza, se non tattica) in nome del partito della gnocca o delle larghe intese, dell’Europa o della sovranità nazionale, della Bce o di Bankitalia, rinserrati nel bunker di Bab al-Graziolya o indaffarati a comporre un governo da Fini a Di Pietro. Il partito dell’amore contro il partito della sfiga. E finiamola pure con il moralismo, perché è spassoso ridere di Scilipoti e Brunetta, ma –siamo oggettivi– che dire di Rutelli o di Bocchino, delle bischerate di Renzi o di Fini passato dalla sala operativa di Genova 2001 alle risse di Ballarò? Eguali un cazzo! E le intercettazioni di Lavitola dovrebbero distrarci dai guai che ci arrivano dalla corrispondenza di Draghi o dagli impegni libici di Napolitano e dai suoi appelli sacrificali? Tutti i “regalini” del cavalier Pompetta alle olgettine sono molto meno dei soldi che dobbiamo cacciare di tasca nostra per salvare le banche, sanare le difficoltà delle multinazionali e bombardare, in conto Usa, ieri la Libia domani l’Iran.
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“Se salta la moneta unica, potrebbe saltare anche il mercato unico”
Manuele Bonaccorsi intervista Emiliano Brancaccio
Siamo a un passo dal baratro: la recessione, la fine dell’euro e forse persino il default dell’Italia. Secondo Emiliano Brancaccio, docente di Economia politica all’università del Sannio, tra i più noti esponenti del pensiero economico “critico”, occorre capire se in Germania i favorevoli all’euro prevarranno su chi vorrebbe ormai sbarazzarsi della moneta unica. E bisogna pure valutare il ruolo dei partiti socialisti europei, i quali si stanno rendendo conto della situazione e hanno avanzato proposte di riforma che vanno nella giusta direzione. Ma il rischio è che si stiano muovendo in ritardo.
Brancaccio, Berlusconi risponde alle sollecitazioni dell’Ue sostenendo che la libertà di licenziamento è una via per la crescita. È vero?
No. Le ricerche dell’ultimo decennio ci dicono che la precarizzazione del lavoro non riduce la disoccupazione e non fa crescere la produttività. Inoltre, agevolando i licenziamenti nei periodi di crisi, la flessibilità aggrava le recessioni. E’ vero peraltro che rendere i contratti ancora più precari indebolisce i lavoratori e può favorire la riduzione dei salari. Secondo alcuni economisti questo potrebbe accrescere la competitività dell’Italia. Il problema è che questa strada l’abbiamo già praticata, dagli anni ‘90, provocando una compressione salariale senza precedenti. Ciò nonostante la nostra posizione competitiva non è migliorata, anzi il disavanzo commerciale si è accentuato. È una politica fallimentare. Che non risolve le contraddizioni alla base della crisi, ma le amplia.
Per quale motivo?
Perché lo stesso fenomeno è avvenuto in tutta Europa. In particolare in Germania, dove nell’ultimo decennio i salari reali sono rimasti al palo, nonostante un forte aumento della produttività. Se il Paese leader dell’Ue insiste con una politica restrittiva e di competizione salariale, gli squilibri strutturali della zona euro sono destinati ad accentuarsi. In questo modo, infatti, la Germania contiene le importazioni, accresce le esportazioni e aumenta il suo surplus verso l’estero. Di conseguenza, l’Italia, la Grecia, la Spagna, il Portogallo e la stessa Francia aumentano i loro deficit verso l’estero. La politica restrittiva e competitiva del Paese leader genera dunque uno squilibrio insostenibile.
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Non di solo denaro sono imbottite le poltrone
di Gian Giacomo Migone
I privilegi di casta più insidiosi non sono quelli materiali, ma l’esclusione dalla normale condizione dei cittadini
Cari “Espresso”, Stella, Rizzo, Travaglio e tutti coloro che hanno svolto una meritoria denuncia dei privilegi della casta politica di cui, in maniera intermittente, ho fatto parte e, in quanto beneficiario di un vitalizio di circa 4.000 euro e di un’apposita mutua, faccio tuttora parte. Tutte utili e necessarie, le denuncie di macchine blu, voli di stato, prebende e privilegi, anche se manca quella cruciale. Vi è sfuggita la manipolazione di poteri, a scapito di un corretto funzionamento delle istituzioni, che sottende quel sistema nel suo insieme. Ne risultano lesi la politica democratica, come prevista dalla Costituzione, oltre che i conti dello stato; il cittadinoelettore oltre che il cittadino-contribuente. Ogni sforzo di riforma resterebbe monco, oltre che esposto alla pur strumentale accusa di demagogia da parte di coloro che difendono l’esistente, se non affrontasse l’uno e l’altro aspetto.
Quando, nella primavera del 1992, assunsi le funzioni di senatore della Repubblica – destinate a durare fino al 2001 – ebbi l’immediata sensazione che uno dei momenti salienti del mio battesimo di fuoco fosse il colloquio, apparentemente banale, con un bonario impiegato del cosiddetto ufficio competenze di quel ramo del Parlamento. Egli mi elencò stipendio, diaria, persone a mia disposizione, rimborsi forfettari, vitalizio, indennità di buona uscita, assicurazioni, rimborsi di mutua, mensa di alto livello pressoché gratuita, viaggi, cinema, partite di calcio pure gratuiti, cui avevo acquisito diritto. Tra l’altro capii che questa frammentazione dei benefici materiali aveva lo scopo di contenere la voce “stipendio” che, se omnicomprensiva, avrebbe reso trasparente l’effettiva consistenza della retribuzione di cui avrei goduto in quanto membro del Parlamento.
A questi vantaggi materiali, attenuati dal versamento ai gruppi di sinistra di una congrua percentuale degli introiti (non è vero che siamo tutti eguali), se ne aggiungevano altri che potremmo definire psicologici e istituzionali e che arrivai a cogliere nel corso della legislatura.
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Gli incoscienti sostengono il default
di Felice Roberto Pizzuti
Come si può sostenere la giusta battaglia per i beni comuni e contemporaneamente auspicare il fallimento dell'istituzione collettiva che dovrebbe gestirli e amministrarli?
Gli "indignati" – di qualsiasi età, ma soprattutto i giovani – hanno molte buone ragioni per esserlo. C'è di più: l'indignazione è un sentimento morale che può avere ed è giusto abbia una valenza anche direttamente politica; invece, per anni è stata derubricata a manifestazione d'ingenuità da parte di chi così nascondeva l'indifferenza, il conformismo e l'acquiescenza all’andamento delle cose dietro posizioni che pretendevano di essere politicamente emancipate e "moderne".
L'attualità politica degli indignati sta nel fatto che colgono il carattere epocale della crisi in corso di cui non vogliono pagare le conseguenze dopo aver subito il dispiegarsi delle sue cause; la natura dell’indignazione è progressista perché la rimozione delle sue origini sanerebbe ingiustizie e inefficienze che non solo pesano sugli "indignati", ma ostacolano il cambiamento economico e sociale che favorirebbe la collettività nel suo insieme.
Tuttavia, anche le migliori ragioni trovano difficoltà ad affermarsi se sostenute in modo ambiguo e controproducente. Ad esempio, lo slogan “la vostra crisi non la paghiamo” non può essere confuso con la sua parodia “il debito non si paga” o con la sua più becera versione “chi se ne frega del default”, il cui sapore avanguardista evoca la violenza prevaricatrice del “blocco nero”. La “indignazione” è un sentimento spontaneamente sorto in tutto il mondo dalla giusta e crescente insofferenza verso il modello socio-economico che nell’ultimo trentennio, favorendo pochi a danno di molti, ha umiliato il lavoro, ha precarizzato la vita, ha saccheggiato la natura, ha aumentato le sperequazioni reddituali e ha subordinato le scelte democratiche prese nell’ambito delle istituzioni pubbliche a quelle decise da poche persone nell’ambito dei mercati.
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La risata che ci seppellirà
di Stefano Jorio
Quando in agosto l’Unione Europea ha imposto all’Italia di rivedere a tempo di record la propria manovra economica (imposizione che l’Italia ha accettato a tempo di record), da più parti si sono levate proteste contro l’esproprio di sovranità a opera di un organismo internazionale saldamente ancorato ai principi neoliberali. In quelle proteste c’era molto di condivisibile: è vero, gli stati stanno perdendo la sovranità esercitata su mandato dei cittadini. Ed è vero che a livello globale assistiamo a un percorso preoccupantemente inverso: non sono i paesi africani che si vanno affrancando dai dictat politici imposti loro da Banca Mondiale e Fondo Finanziario Internazionale per accedere ai prestiti, sono invece gli stati europei a venire asserviti con richieste sine qua non lesive della loro sovranità.
Quando in settembre le agenzie di rating hanno degradato gli indici di credibilità italiana sui mercati finanziari, una seconda alzata di scudi ha protestato contro l’ingerenza di aziende intese al profitto (e intese al profitto nell’atto stesso di dare i voti in pagella) nella vita delle democrazie e dei loro governi. Anche in questa seconda protesta c’era molto di condivisibile: quello che si prospetta è uno scenario purtroppo sempre meno fantascientifico, nel quale un impero finanziario privato internazionale sarà presto capace di pilotare a proprio vantaggio le decisioni politiche e le scelte individuali. Un progetto “eversivo”, si sarebbe detto una volta, nel quale si prevede (e in parte si è già attuato) che cittadini e cittadine resteranno tali solo nominalmente, mentre nei fatti saranno sudditi.
L’indignazione è stata invece espressa da più parti nei confronti della “risatina” con la quale alcuni giorni fa Merkel e Sarkozy, durante una conferenza stampa a Bruxelles, hanno risposto a una domanda circa le rassicurazioni date da Berlusconi ai partner europei. “Nessuno nell’Unione può autonominarsi commissario e parlare a nome di governi eletti e di popoli europei. Nessuno è in grado di dare lezioni ai partner,” ha dichiarato Berlusconi.
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Truffati e truffatori
di Anonimo
Non solo il debito non lo paghiamo, ma rivogliamo indietro i nostri soldi!
“Noi il debito non lo paghiamo!”
“Come: ti hanno prestato dei soldi e adesso non li vuoi restituire?”
Detta così sembra che in torto ci siamo noi.
Invece questa della “crisi del debito” non è altro che l’epilogo di una serie di truffe che si sono sommate tra loro, dove i protagonisti sono sempre gli stessi e di cui viene chiesto a noi adesso di saldare il conto.
La prima truffa è stata fatta nel 2001 ed è continuata fino al 2009 e riguarda la Grecia.
Per poter entrare nell’Euro nel 2001 la Grecia, visto che non era in regola con nessuno dei parametri previsti dal trattato di Maastricht, si è rivolta a due banche d’affari, la Goldman Sachs e la JP Morgan Chase che le hanno suggerito come fare.
La truffa consisteva nel falsificare i bilanci pubblici utilizzando alcuni strumenti finanziari che si chiamano derivati. In particolare si trattava, attraverso l’uso dei Cross Currency Swap, di ristrutturare il debito pubblico del settore sanitario, convertendolo prima in Dollari, poi in Yen e quindi in Euro ad un tasso di cambio particolarmente favorevole per le casse elleniche.
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La Bce così non va
Sergio Cesaratto e Lanfranco Turci
Dopo gli sberleffi del duo Merkel-Sarkozy pensavamo che la sinistra non avrebbe dovuto cadere nella trappola di accettare gli ultimatum di Bruxelles in nome dell’anti-berlusconismo.
Questo continuiamo a pensare anche dopo la pasticciata risposta di Berlusconi alla Ue e le inutili conclusioni del vertice europeo. Berlusconi andava e va rimproverato di aver subito le imposizioni europee senza ricordare che le responsabilità della crisi non sono italiane e che anzi noi stiamo contribuendo a salvare le banche tedesche e francesi, vera fonte della crisi. Purtroppo anche a sinistra c’è chi ritiene che, davvero, quelle richieste siano un bene per l’Italia e l’Europa (anche il giornale che ci ospita condivide, ci sembra, queste posizioni, per cui apprezziamo la sua apertura alla discussione più franca).
Fatte salve tutte le ragioni per cui questo governo è impresentabile e le sue manovre economiche inique e inutili, non dobbiamo accettare che siano governi stranieri e la Bce a dettarci i compiti per casa, peraltro sbagliati. Mentre in questo bailamme l’Italia è trattata come il “pig” di turno, non si deve perdere di vista che dopo tanti vertici, compreso l’ultimo del 26 ottobre, una soluzione per la crisi dell’Europa ancora non c’è, come ben documentano i commenti di Lucrezia Reichlin e di Roberto Perotti sul Corriere della Sera e sul Sole24Ore del 28 ottobre. Chi si aspettava miracoli da questa accentuazione di austerity europea e dall’ennesimo grande piano salvastati, si è trovato il giorno dopo con i nostri Btp ben al di sopra del 6%! Le difficoltà europee non possono certo essere fatte risalire al debito italiano. Questo ha origini ben più lontane ed è stato lì a lungo senza fomentare crisi epocali, e deve il recente aggravamento dei suoi costi non solo o non tanto al burlone che ci governa, ma soprattutto al mancato funzionamento della Bce come una normale banca centrale, quale la Fed americana o la banca centrale inglese.
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Ecco lo sciopero generalizzato
Felice Mometti
Riuscita a Oakland la giornata di blocco del 2 novembre indetta non dai sindacati ma dall'assemblea Occupy. Bloccato il porto, le scuole, molti uffici, il traffico. Nonostante le leggi durissime e l'assenza del sindacato ufficiale
Non sono state le 54 ore consecutive di blocco della città dell’ultimo sciopero generale di Oakland, quello del dicembre del 1946, ma lo sciopero generale di mercoledì 2 novembre lascerà dei segni visibili nei luoghi del potere politico-economico, nel movimento che occupa le piazze e nel sindacato americano. Innanzitutto per la modalità di convocazione. Uno sciopero generale della città indetto da un’assemblea generale - e non dai sindacati - espressione di un movimento di soggetti plurali con tanto di votazione democratica rappresenta una novità assoluta negli Stati Uniti, ma crediamo lo sarebbe anche da altre parti.
L’organizzazione dello sciopero è avvenuta in soli 6 giorni con il coinvolgimento di tutto il movimento Occupy Oakland e con il sostegno, in varie forme, da parte dei movimenti delle altre città. Lo sciopero è stato inteso come una forma di conflitto che doveva attraversare tutti gli ambiti della società e non solo i luoghi di lavoro. La sfida era molto alta. La legge Taft-Hartley del 1947, ulteriormente peggiorata a livello federale nel 1959 e da una miriade di delibere, ingiunzioni delle amministrazioni locali, nei fatti vieta lo sciopero generale a qualsiasi livello e non riconosce alcun diritto a praticarlo. Le sanzioni sono pesantissime, dal licenziamento all’arresto. Occupy Oakland, nei pochi giorni di preparazione dello sciopero, ha fatto una campagna a vasto raggio illustrando i vari modi di partecipazione allo sciopero, garantendo la difesa legale in caso di provvedimenti disciplinari. Sono state usate le forme più tradizionali di comunicazione, come l’autoproduzione di volantini e manifesti diversi a seconda dei destinatari, ma anche quelle più innovative come il massiccio uso di social network e piattaforme audio-video del web 2.0. Fino agli incontri assembleari con i portuali di Oakland.
Le grandi centrali sindacali, come l’Afl-Cio e Change to Win, hanno cercato in un primo momento di boicottare lo sciopero invocando le clausole contrattuali antisciopero che avevano sottoscritto nei contratti delle singole categorie – come se non bastassero le leggi vigenti- e allo stesso tempo contestando la modalità di convocazione. Poi, viste le prese di posizione di alcuni importanti Local di Oakland (una specie di sezioni sindacali territoriali) degli insegnanti e dei portuali che pur non dichiarando sciopero appoggiavano la mobilitazione, hanno preferito non contrapporsi frontalmente. Solo la piccola e storica IWW e il Local 10 dei portuali, già protagonista nel 2003 del blocco delle navi cariche di armi destinate alle truppe in Iraq, hanno effettivamente organizzato lo sciopero sui luoghi di lavoro.
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Per un pugno di seggiole
di Leonardo Mazzei
Senza idee, senza proposte, senza una linea: proprio per questo - se il tracollo finanziario non travolgerà tutto prima del tempo - Prc e Pdci potranno rientrare in parlamento. Non gli servirà a niente, ma è quel che gli basta.
Quanto sono vicine le elezioni politiche? A giudicare dal lavorio delle segreterie dei partiti, abbastanza vicine. Osservando lo scalpitare di alcuni personaggi, considerati «emergenti» nella cloaca massima della politica italiana (Renzi, ma non solo), sembrerebbero vicinissime. E' questo il parere del genero di Caltagirone, secondo il quale l'odiato Berlusca staccherebbe la spina a gennaio per votare a marzo.
L'ipotesi è convincente, ma la data potrebbe anche essere più vicina. La pressione sul governo dei centri del potere finanziario si è fatta asfissiante; l'esecutivo è ormai palesemente sotto tutela, non solo da parte dell'Unione Europea, ma anche delle sue «quinte colonne» Napolitano e Draghi. Costoro preferirebbero terminare la legislatura con un governo «tecnico», o di «emergenza nazionale», una veste comodamente asettica per poter meglio massacrare il popolo italiano, ma perché la destra dovrebbe prestarsi a questo gioco?
E' verosimile, dunque, che lo scenario prospettato dal piccolo leader della mini-Dc, denominata Udc, sia piuttosto realistico. Ciò consentirebbe al Cavaliere un'uscita di scena non troppo disastrosa. Niente ribaltoni né disarcionamenti, solo un mesto addio con il passaggio del testimone ad un personaggio di secondo piano (presumibilmente Alfano), come si conviene quando si tratta di gestire una sconfitta. Questa mossa consentirebbe poi di consegnare alle attuali opposizioni parlamentari l'onere delle maxi stangate che ci attendono, volendo restare nella gabbia dell'euro e dunque nelle mani degli aguzzini della speculazione internazionale.
Prc e Pdci in vista delle probabili elezioni anticipate
L'abbiamo presa alla larga per arrivare al tema di questo articolo: il gioco dei due partiti della Federazione della sinistra (Fds) in vista delle probabili elezioni anticipate.
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Un fronte comune, insieme ai Pigs
Guido Viale
Prima ancora di esserne la causa - e in gran parte, ovviamente, lo è - Berlusconi è il prodotto del berlusconismo: una tabe che affligge non solo il suo entourage politico-affaristico e il suo elettorato, ma larga parte dell'establishment culturale, imprenditoriale e politico del paese (il sindaco di Firenze e il suo seguito ne sono un esempio).
E Confindustria che lo ha sostenuto fino all'altro ieri anche; e allora, di che si lamenta?). Ma gli uomini e le donne al governo dell'Europa sono anch'essi promotori e prodotto (sono prigionieri del loro elettorato; che è però quello che hanno costruito e vellicato) di un virus altrettanto grave, di cui Berlusconi non è che la manifestazione più grottesca, infame e repellente. Quel virus è il pensiero unico: la convinzione, contro ogni evidenza, che il mercato, e solo il mercato, può tirarci fuori dai guai in cui ci ha cacciati. E che per tirarci fuori dai guai, per uscire dalla crisi, occorre rilanciare la crescita: cioè sperare - e che altro, se no? - in un aumento del Pil tale da generare entrate fiscali sufficienti a pagare gli interessi e a rimborsare, un po' per volta, una parte consistente del debito pubblico. Per loro l'economia è come un'auto a cui si è imballato il motore. Basta dargli una spinta e tornerà a correre - cioè a crescere - di nuovo. Ma le cose non sono così facili; e non lo saranno mai più. E intanto, in attesa di questo miracolo, la soluzione vincente è il taglio della spesa pubblica: pensioni, sanità, scuola, trasporto pubblico, welfare municipale, pubblico impiego, salari e stipendi. E privatizzazione di tutto, contando di ricavarne le risorse necessarie a tacitare gli appetiti dei mercati, cioè di tutti coloro impegnati a produrre denaro per mezzo di denaro: banche, assicurazioni, fondi di investimento, speculatori, mafie (queste, sì, con la liquidità necessaria a fare piazza pulita di tutto quel che è in svendita: a partire dai servizi pubblici locali). Di tagliare per altre vie le unghie alla speculazione non si parla; perché quello che chiamano mercato è speculazione: senza l'una non c'è l'altro, e viceversa; simul stabunt, simul cadent. Così, invece di crescere l'economia si avvita su se stessa in una spirale che porta diritto al fallimento (default): non solo delle finanze pubbliche (a beneficio di chi le tiene in pugno), ma del sistema produttivo, della convivenza civile, dell'ambiente.
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Uscire dall’euro è una opzione per i gravi squilibri strutturali dei Piigs?
di Luciano Vasapollo
Contributo per la discussione verso il forum “La Mala Europa” del 5 novembre a Roma. Il movimento dei lavoratori e la crisi sistematica del capitale. I sindacati di classe europei di fronte alla costruzione economica e politica dell’Europolo
1. Quando si scatena la crisi dei subprime negli Usa, volutamente viene evidenziata come crollo di carattere finanziario per lo scoppio delle bolle speculative immobiliari e finanziarie; ma è semplicemente la punta dell’iceberg che evidenzia un blocco dell’economia reale nei processi stessi dell’accumulazione, cioè sono questi stessi meccanismi che permettono la crescita capitalistica che si sono inceppati già dai primi anni ’70 e che dimostrano che la crisi è irreversibile. La difficoltà di riattivare un nuovo e profittevole modello di accumulazione rende questa crisi unica, mettendo in seria discussione lo stesso modo di produzione capitalistico, quindi è di carattere sistemico.
E’ evidente che con le privatizzazioni, con l’attacco al costo del lavoro, al sistema del Welfare, ai diritti, con la finanziarizzazione dell’economia, hanno cercato di fuoriuscire o almeno di coprire la crisi internazionale del capitale che si porta dietro il carattere della strutturalità e sistemicità. Così si fa più aspra e diretta la competizione globale alla ricerca della centralizzazione della ricchezza in poche mani,con scenari sempre più frequenti di guerra economica- finanziaria,guerra commerciale , guerra sociale verso le classi subalterne e guerra militare espansionista per la conquista e il dominio sulle risorse energetiche sempre più scarse per sostenere i ritmi del processo di accumulazione internazionale .
Tutto quello che appare come qualcosa di nuovo, come il possibile default degli Usa in realtà vede l’origine dal 1971 con la fine degli Accordi di Bretton Woods. Da tale data gli Usa decidono in base al potere politico e militare di imporre il proprio modello di sviluppo basato sull’import attraverso l’indebitamento, facendo così pagare il costo agli altri: debito privato, debito pubblico, e consumo sostenuto dal mix tra debito interno ed esterno, avendo molto deboli i cosiddetti fondamentali macroeconomici e una economia reale che già da allora mostrava i caratteri della crisi strutturale e sistemica.
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Insostenibilità del debito*
Intervista a Luca Fantacci**
Professore, che cosa sta succedendo da qualche settimana nelle borse?
Niente, è proprio questo è il problema. Non c’è un solo fatto nuovo che giustifichi il terremoto finanziario delle scorse settimane: dalle difficoltà di Obama con il Congresso alle fragilità fiscali dell’Europa, tutto era già presente e noto. Perfino il downgrading degli USA era già stato più volte preannunciato. Per non parlare dei debiti pubblici, che hanno potuto crescere per anni senza preoccupare nessuno. Davvero, non è successo niente di nuovo e sconvolgente.
Nulla di cui preoccuparsi, dunque?
Tutt’altro. E’ proprio questo terremoto in assenza di novità il dato su cui è opportuno riflettere: se oggi senza motivo i mercati finanziari tremano, vuol dire che fino a ieri erano spavaldi, ugualmente senza motivo. Niente giustificava i guadagni di ieri, così come niente può spiegare le perdite di oggi o i recuperi di domani. I mercati finanziari dimostrano di avere sempre meno un criterio attendibile per distinguere fra quando va bene e quando va male, fra chi va bene e chi va male.
Una finanza che vive in un mondo che ha poco a che fare con la realtà?
Non mi riferisco a una semplice scollatura tra finanza ed economia reale. E’ perfettamente legittimo, e anzi necessario, che il valore di borsa di un’azienda possa discostarsi temporaneamente dall’andamento corrente dei suoi affari. Perché la borsa, per sua natura, guarda avanti: guarda ai profitti futuri, non a quelli attuali; esprime aspettative e può sbagliarsi. Ma, affinché questo gioco di scommesse abbia un senso, bisogna che almeno due condizioni siano rispettate. Primo, occorre che a un certo momento una linea sia tracciata e i conti siano fatti. Bisogna che finisca la gara, in modo che si veda chi ha scommesso sul cavallo vincente.
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Tawergha, genocidio nella "nuova" Libia
Marinella Correggia
Roma, 01 novembre 2011, Nena News – Insieme a Sirte assediata e distrutta, Tawergha, la città dei neri libici, diventa il simbolo della Libia “liberata” grazie alla Nato. Situata a qualche decina di chilometri da Misurata, Tawergha contava circa 30mila abitanti, in gran parte libici di pelle nera: nacque nel XIX secolo come città di transito nel traffico degli schiavi. E “schiavi” (abeed) è l’insulto che più ricorre sui muri della città dopo la conquista in agosto da parte delle truppe dei “ribelli della Nato” provenienti da Misurata. Il suo nome è stato cancellato sul cartello stradale e sostituito da “Nuova Misurata”.
Tawergha è ora disabitata (e molte case incendiate e saccheggiate): i suoi abitanti sono scappati altrove all’avvicinarsi delle forze anti-Gheddafi due mesi fa; le ultime centinaia sono state espulsi in seguito dalle milizie. A decine di migliaia sono adesso sparsi presso parenti e soprattutto in campi profughi improvvisati; di tanti si sono perse le tracce. In molti sono stati arrestati ai check-point o addirittura prelevati dagli ospedali e scomparsi. Non si contano gli assassinati in questa pulizia etnica nella quale l’odio razziale si è mescolato all’accusa ai tawerghani di essere stati pro-Gheddafi e suoi “mercenari” (ma sono libici), perché da quella zona l’esercito libico lanciava gli attacchi contro Misurata.
Risale agli inizi del conflitto la demonizzazione (e molte uccisioni anche con decapitazioni) dei neri libici, combattenti e non, accusati senza prove di crimini e stupri. Tawergha è il genocidio di un’intera città. Il primo a lanciare l’allarme, inascoltato, era stato il…Wall Street Journal il 21 giugno (“Libyan City Thorn by Tribal Feud”; http://online.wsj.com/article/SB10001424052702304887904576395143328336026.html): uno suo reporter, Sam Dagher, aveva intervistato i comandanti militari di Misrata (schierati con i “ribelli” e la Nato): Ibrahim al-Halbous, per esempio, diceva con chiarezza che una volta conquistata la cittadina, i suoi abitanti avrebbero dovuto fare fagotto, perché “Tawergha non esiste più, c’è solo Misrata”. Altri “ribelli” raccomandavano di impedire ai tawerghani di lavorare e mandare i bambini a scuola a Misrata.
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Eddytoriale 148
Nubi pesanti sul dopo-Berlusconi. A destra e a sinistra. Registriamo due fatti di questi ultimi giorni: un articolo del Corriere della sera e a un non articolo della rivista Micromega.
Sono due fatti molto distanti tra loro, ma entrambi indicativi delle difficoltà che si presenteranno: la prima quando, ricondotte le istituzioni italiane a un minimo di decenza, si vorranno affrontare i nodi politici in un rapporto civile tra posizioni alternative; la seconda, quando si avvieranno le politiche per il futuro.
Sul Corriere della sera Piero Ostellino ha colpito con pesantissime accuse il giurista Ugo Mattei (che i frequentatori di eddyburg conoscono bene). Oggetto della critica un articolo di Mattei sul manifesto. L’autore aveva osato affermare (nella sintesi di Ostellino) che «il diritto costituzionale d'accesso alla casa di abitazione si può emancipare dal ruolo subordinato alla presenza delle condizioni economiche dichiarate dallo Stato e dagli enti chiamati a soddisfarlo come diritto sociale concesso dal welfare pubblico. Nel quadro della funzione giuridica offensiva e della piena destinazione dei beni comuni esso può invece soddisfarsi tramite occupazione acquisitiva legittimata dalla pubblica necessità di spazi socialmente percepiti come abbandonati. Il diritto anche in questo caso sgorga dalla fisicità del conflitto e non può essere generato dalla riflessione astratta di chicchessia».
Mattei aveva insomma espresso un principio antico, che era stato bandiera di rivendicazioni di massa negli anni Sessanta, abbandonato nella ventata neoliberista che si è abbattuta sul mondo, e ripreso negli ultimi decenni sia nella letteratura internazionale che nelle migliaia di episodi di contestazione dei danni apportati dalle pratiche neoliberiste alle condizioni di vita nella società e nella città: il principio del “diritto alla città”. La rivendicazione espressa da quel “diritto” ha, tra le sue componenti, proprio l’appropriazione. Che Ostellino non conosca Lucien Lefebvre e gli altri studiosi che hanno esplorato l’argomento, che non sia informato delle pratiche sociali in atto nel mondo, tutto ciò non costituisce scandalo. E neppure lo costituisce che non condivida la tesi di fondo, e che si proponga anzi di contrastare i movimento che la agita, per difendere invece i vecchi interessi dominanti. Ciò che invece colpisce, e preoccupa ogni spirito autenticamente liberale, è la conclusione che Ostellino trae dalla critica.
Una conclusione minacciosa, ci verrebbe voglia di definire “fascista”. Chi sostiene quella tesi – secondo Ostellino – è oltre la Costituzione, oltre il welfare state, oltre la realtà effettuale, oltre il formalismo giuridico. Quindi, secondo Ostellino, chi sostiene quella tesi è un terrorista. Se non direttamente, è certamente un “cattivo maestro”: di quelli, dice il buon maestro, che vogliono perpetuare la «”guerra civile“ che insanguinò l'Italia nell'immediato dopoguerra e ne impediscono la modernizzazione».
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