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La democrazia è un concetto ambiguo
Intervista a Giorgio Agamben*
di Stratis Burnazos
Cos’è la politica? Questo, con sguardo ottimista, Agamben suggerisce di chiedersi nell’intervista greca che presentiamo, a ridosso delle elezioni europee (22-25 maggio) in cui il radicale greco Tsipras sarà il candidato della Sinistra. Le questioni su cui il filosofo ci invita a riflettere sono molteplici. Il filo conduttore è rintracciabile in un richiamo a quei dispositivi che, pur assoggettando la materia biologica, investono la nostra capacità di attivare processi di soggettivazione che vi oppongano resistenza. La crisi che stiamo vivendo può allora diventare ricerca di nuove forme. Queste non sono né giuridiche, né morali, ma innanzitutto politiche. Sulla scia del migliore insegnamento foucaultiano, più che un gesto di liberazione, noi dobbiamo costruire una pratica della libertà, non un altro esistenzialismo ma un’etica del sé non ridotta a individualità.
Che politica? è, peraltro, una domanda non posta in una dimensione statale. Il problema non è quello di liberare l’individuo dallo Stato – direbbe Foucault – ma di liberare noi stessi da esso e dalla sua proprietà individualizzante. Una dimensione politica (peraltro non statale) Agamben la auspica sul piano europeo, attraverso un’interrogazione genealogica dell’ambigua democrazia, dei suoi confini e del suo legato. Così, mentre si lavora sull’esercizio collettivo di definizione programmatica di pratiche di lotta che non si traducano in richieste di riconoscimento, mentre Balibar avanza la sua radicale idea di cittadinanza, Agamben penetra il linguaggio e chiama l’azione politica, cui siamo chiamati, esclusivamente de-stituente.
Il filosofo Giorgio Agamben era ad Atene invitato dai giovani di SYRIZA e dall’istituto Nikos Pulantzas.
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Sette osservazioni sulla crisi ucraina
di Piero Pagliani
La reazione russa era obbligata. Apre scenari da brivido, ma segue ferreamente e coerentemente la logica della III guerra mondiale in cui il mondo è immerso
Prima osservazione. La crisi in corso in Ucraina è l'ennesima riprova che le crisi sistemiche portano inesorabilmente a guerre mondiali. Per favore, basta stupirci delle guerre. La crisi sistemica del Seicento fu risolta dalle guerre anglo-olandesi che durarono più di vent'anni. La crisi sistemica scorsa fu risolta da una guerra mondiale di trent'anni che iniziò nel 1914 e terminò solo nel 1945. La guerra mondiale scatenata dall'odierna crisi sistemica è iniziata ufficialmente l'11 settembre del 2001, cioè tredici anni fa e oggi rischia di entrare in una fase nuova e più devastante.
Seconda osservazione. L'odierna crisi sistemica, si è conclamata ufficialmente il 15 agosto del 1971 quando Nixon dichiarando che il Dollaro non era più convertibile in oro, dichiarò implicitamente che la moneta imperiale era garantita esclusivamente dalla potenza politica, militare, diplomatica, culturale e solo infine economica degli Stati Uniti. Gli stessi motivi per cui quella moneta aveva corso mondiale obbligatorio. Basta, per favore, ripetere che la crisi attuale è iniziata con lo scoppio della bolla dei subprime o, al più, con quella della "New Economy". Sono due episodi della crisi sistemica principale.
Terza osservazione. La crisi ucraina sembra confermare l'ipotesi che ho avanzato in "Al cuore della Terra e ritorno": siamo entrati in una fase di deglobalizzazione, ovvero di suddivisione del sistema-mondo in compartimenti geo-economici separati e potenzialmente contrapposti.
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La grande bellezza
Due recensioni da Lo Straniero
Vi presentiamo due recensioni, apparse nel numero 157, luglio 2013, del film di Sorrentino vincitore dell'ultimo Oscar.
I burattini romani di Sorrentino
di Dario Zonta
Come tutti quei registi di certa ambizione, anche Paolo Sorrentino è caduto nella tentazione di raccontare Roma. Mettendosi alle spalle la folta e ingombrante schiera di chi è riuscito e di chi ha fallito, il regista napoletano - volente o nolente - si è dovuto misurare con l'autore che meglio ha saputo declinare il paradigma del provinciale a Roma: Federico Fellini. La dolce vita e il mancato Moraldo in città, seguito ideale di I vitelloni, sono necessari punti di riferimento, come Roma, monumento alla decadenza della città eterna (ma ha anche guardato al Satyricon). Anche se a parole Sorrentino ha preso le distanze da qualsiasi riferimento felliniano (come conviene che sia), nei fatti La grande bellezza si pone come rivisitazione di quello stesso immaginario alla luce non solo della trasformazione antropologica della società italiana, ma anche del personale sentimento e delle intime idiosincrasie del regista campano. Sorrentino ha insidiato il suo affresco con una miriade di figure allegoriche, genericamente prese in prestito dalla volgarità del contemporaneo, ma alla fine staccate dalla sua contingenza.
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L’estremismo fase suprema dello snobismo in filosofia
Brevi note a “Stili dell’estremismo” di Alfonso Berardinelli
di Pietro Piro
Mons parturibat, genitus
immanens ciens, eratque in terris maxima
expectatio. At ille murem peperit. Hoc
scriptum est tibi, qui, magna cum minaris,
extricas nihil.
Fedro, Mons parturiens
Gli snob, nella cultura di massa, non sono più una
élite, sono una discreta massa.
A. Berardinelli, Stili dell’Estremismo
I. Libri profondi e belli
Oggi si scrivono solo libri belli. Profondi, acuti, colti, raffinati, pieni d’inventiva. Opere filosofiche memorabili e intramontabili. O almeno, questo si deduce dalla lettura delle recensioni che si pubblicano. Tranne rarissime eccezioni, le recensioni sono diventate degli esercizi di corteggiamento che raramente lasciano trasparire difetti dell’opera e ambiguità dell’autore. Il motivo di questa critica mielosa e piccolo-borghese è semplice. Nessuno vuole farsi dei nemici. Nessuno vuole rischiare perché in fondo: «non si può mai sapere». Così, nella tediosa e monotona successione delle letture consigliate, non si comprende più perché un libro sia da leggere o semplicemente da buttare in un contenitore della carta da riciclare. Elogio del qualunquismo e della democratica ambiguità. La vittima di questa scelta penosa è il lettore che si trova sempre più da solo nel processo di costruzione della propria biblioteca personale, anche se, ogni giorno, recensioni di libri promettono prodotti culturali di altissimo livello e comprovata dottrina. Per chi invece voglia iniziare a fare il duro mestiere del critico culturale, cercando di attenersi a una propria fiamma interiore, si consiglia di partire da un libro scritto nel 2001 da Alfonso Berardinelli, Stili dell’estremismo. Critica del pensiero essenziale, Editori Riuniti, Roma. Piccolo libro, scritto con una dose di causticità ai limiti del parossismo.
Berardinelli analizza con rigore metodologico e con acutezza critica (i limiti li metteremo in evidenza successivamente) lo stile di alcuni “mostri sacri” del Novecento, mostrando contraddizioni, ambiguità e rimozioni.
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Perché la lotta di classe è viva
Stefano Laffi intervista Carlo Formenti
Utopie letali. Capitalismo senza democrazia (Jaca book 2013) è l’ultimo libro pubblicato da Carlo Formenti, fra i più seri studiosi e da lungo tempo della mutazione economica e sociale che stiamo vivendo. È un libro scritto sotto un’urgenza particolare, che traspare già dal titolo, ovvero quella di non cadere nella fascinazione di categorie e letture che lanciano la palla oltre l’ostacolo, senza averlo mai davvero superato, bensì di guardare in faccia lo sfruttamento e l’impoverimento che viviamo ogni giorno, chiamandolo col suo nome. Per Formenti non sono i “lavoratori cognitivi” che lanceranno la rivoluzione, non sono i “beni comuni” a cambiare la perdita dei diritti che avanza, non è Internet un contropotere ma uno strumento di controllo in mano al capitale.
Mi pare che il libro voglia rimettere al centro dell’analisi della contemporaneità, e in particolare della profonda ingiustizia sociale che patiamo ogni giorno, la mutazione economica e politica di questi anni. I primi capitoli sono infatti dedicati alla finanziarizzazione e a quella che chiami postdemocrazia. Ci aiuti a capire bene cosa intendi e perché ritieni che da lì si debba partire?
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A proposito di qualche divergenza fra Moishe Postone e la "Wertkritik"
di Clément Homs
Anche se Moishe Postone non appartiene propriamente al movimento della "Wertkritik (Critica del Valore) - ci si può perfino domandare se egli si riconosca in tale definizione - da cui dev'essere chiaramente distinto (NdT: Come il marxista tedesco Michael Heinrich, che riprende il termine di "critica del valore" ma che, come tutta la teoria borghese, continua a fare del lavoro astratto una categoria della circolazione), bisogna precisare che ciò che caratterizza tale movimento è una rottura in seno alla teoria marxiana del capitale (ovvero, una rottura più a monte di quella in seno alla teoria della rivoluzione, così come la si ritrova nel movimento della "comunizzazione"), rottura operata a partire dalla fine degli anni 1980 dai gruppi tedeschi, prima "Krisis", poi "Exit!", e dal movimento militante rivoluzionario che intorno a questi gruppi gravita, in Europa e nell'America del sud. La "Wertkritik" è dunque una denominazione specificamente tedesca, cui Postone è del tutto estraneo. Tuttavia, quest'autore ha proposto, nella sua opera principale, "Tempo, lavoro e dominazione sociale" prime, e poi in una sua raccolta di articoli, recentemente pubblicata, "Critica del feticcio-Capitale", una reinterpretazione della teoria di Marx (citati da Jappe nel suo "Con Marx, contro il lavoro") in parte parallela, su numerosi punti, a quella di quegli autori tedeschi ed austriaci i quali costituiscono più un movimento - con le sue scissioni e le sue polemiche interne - che una corrente omogenea: Robert Kurz, Roswitha Scholz, Norbert Trenkle, Ernst Lohoff, Peter Klein, Anselm Jappe, Claus Peter Ortlieb, Karl-Heinz Lewed, Franz Schandl, Justin Monday, Gérard Briche, Christian Höner, Peter Samol, ecc. Bisogna perciò subito premettere che le divergenze di sequito discusse non sono distribuite sempre equamente fra tutti questi autori.
Malgrado ciò, queste due rifondazioni teorico/analitiche della critica marxiana dell'economia politica, da una parte e dall'altra dell'Atlantico, sono rimaste parallele, nel senso che le influenze reciproche sono state minime.
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Muos… Non è solo colpa dell’imperialismo yankee
di Antonio Mazzeo
Le megaparabole del MUOS sono lì, nel cuore della “Sughereta” di Niscemi, erette a emblema di morte, distruzione, olocausto. Nulla hanno potuto contro l’arroganza dei Signori di tutte le Guerre, i cento - mille volti, sguardi e corpi che hanno sfidato il senso comune e le leggi per impedire l’ennesimo scempio nell’Isola portaerei-fortezza Usa e Nato. Il suo ruolo a livello mondiale? Servirà principalmente per dare ordini bellici. È una struttura nociva per la salute delle persone e dell’ambiente. Per parecchi mesi intricate trattative, complicato e segreto carteggio… Lotte ad oltranza del movimento. Balletti delle istituzioni, decisioni dei Tribunali, il 24 luglio 2013 la giunta Crocetta revocò la sua revoca, consentendo l’installazione finale delle antenne del MUOS. La sua era stata tutta propaganda elettorale… il nostro un sogno…
Stavolta, però, non è solo colpa dell’imperialismo yankee o di una borghesia nazionale affarista, vile e mafiosa. Se un giorno i siciliani riusciranno a liberarsi del MUOStro per le guerre globali del XXI secolo, come fecero già vent’anni fa con i missili nucleari di Comiso, ricorderanno certo ancora il nome di chi avrebbe potuto e dovuto ostacolarne, e non l’ha fatto, i lavori di costruzione, violando la Costituzione e le normative urbanistiche, ambientali e antimafia.
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Il lungo addio all'immagine di mondo occidentale
di Pierluigi Fagan

Senza questa necessaria ricostruzione, non si capisce il perché noi stagniamo in questo lungo addio, quali sono le ragioni per cui l’addio debba essere radicale ed urgente mentre il distacco sembra essere così dilaniante e difficile. Perché tardi il formarsi di principi che possano farci pensare una nuova immagine di mondo senza la quale, rimarremo aggrappati a quella vecchia anche se questa non sostiene più alcuna nostra valida inferenza, né sia più in grado di prescrivere azioni sensate sul mondo, proprio quando l’andamento del mondo richiederebbe invece un nostro urgente intervento.
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Come gli operai-folla sono diventati i fantasmi della macchina digitale
di Moshe Z. Marvit
L’indagine realizzata da Moshe Z. Marvit – uscita in «The Nation» il 4 febbraio 2014 e della quale pubblichiamo la traduzione di ampi estratti – fa luce su una delle più notevoli e sinistre innovazioni introdotte dal gigante Amazon nell’organizzazione del lavoro contemporaneo. Non c’è un nano gobbo dentro al Turco meccanico utilizzato da Amazon, né il suo scopo è quello di apparire invincibile nel gioco degli scacchi. Al suo interno vi è una folla di lavoratori e di lavoratrici, che magari non sono la teologia e non fanno perciò vincere il materialismo storico, ma dimostrano comunque che il progresso non apre necessariamente frontiere luminose. Lo scopo di questo Turco meccanico è aumentare, intensificare, frammentare lo sfruttamento del lavoro. Il «lavoro nella folla» [crowdworking] – l’appalto di attività che non possono essere del tutto automatizzate e informatizzate a singoli lavoratori che le svolgono dal proprio computer, senza possibilità di contrattare le proprie condizioni di lavoro – rivela la brutale materialità del lavoro «immateriale» contemporaneo. Nonostante l’entusiasmo che ha suscitato e continua a suscitare, il lavoro immateriale mostra qui tutti gli elementi di continuità politica con il più classico lavoro industriale: dalla segmentazione incontrollata delle mansioni al basso salario.
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Non esistono paesi allegorici
Claudio Giunta
Ero a Reykjavík nel 2008, nei primi momenti del primo atto della Bancarotta Nazionale, e mi ricordo bene dei cortei di protesta davanti al parlamento, i cortei contro i banchieri ladri e i politici distratti o collusi che li avevano lasciati rubare. Solo che non erano cortei di proletari, erano cortei di ex proletari che nei decenni della lenta inesorabile crescita economica post-seconda guerra mondiale erano diventati piccoli e medi borghesi, e poi, negli anni della turbo-crescita fondata sul denaro elettronico, 2000-2008, gli anni della truffa di Icesave e della corona islandese dopata, avevano provato a diventare ricchi prendendo soldi a prestito a tassi d’interesse ridicoli e comprando seconde e terze case sul mare, SUV, biglietti A/R per Londra quasi ogni week-end per far la spesa da Harrods, pacchetti-vacanze alle isole Fiji.
Ma qualcosa, o meglio, tutto non aveva funzionato, le banche islandesi erano fallite ed erano state nazionalizzate (con la spiacevole conseguenza che il loro debito finiva per scivolare sulle spalle dei contribuenti, mentre i banchieri si ritiravano nei loro attici di Londra e Berlino), e a decine di migliaia di islandesi adesso (2008) restavano solo le rate da pagare, rate che nel frattempo si erano quintuplicate alla stessa velocità con cui la corona islandese aveva perso più o meno i due terzi del suo sopravvalutatissimo valore pre-crisi.
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Cattive condotte
di Sandro Mezzadra
Michel Foucault. Gallimard pubblica «La société punitive», i corsi del primo semestre 1973 del filosofo francese. Fra le pagine, si analizzano le strategie disciplinari del potere per legittimare il capitalismo moderno
1. La pubblicazione dei corsi tenuti da Michel Foucault al Collège de France tra il 1970 e il 1984 ha ormai sedimentato un secondo corpus di opere del filosofo francese, accanto a quelle da lui pubblicate. E non si può che rimanere affascinati, anche semplicemente scorrendo i volumi, dall’inquietudine e dal rigore con cui egli apriva continuamente nuovi cantieri di ricerca, da quello sul neoliberalismo (a cui è dedicato il corso del 1979) a quelli greci e tardo-antichi degli ultimi anni. Temi e concetti associati al lavoro di Foucault, ad esempio quelli di “governamentalità” e “biopolitica”, trovano nei corsi della seconda metà degli anni Settanta sviluppi di straordinaria e talvolta imprevista ricchezza. E d’altro canto, ascoltando “la parola pubblicamente proferita da Foucault” (a cui i curatori si attengono con scrupoloso rigore), ne abbiamo imparato a conoscere lo stile di insegnante, l’eleganza ma anche la capacità di affascinare e coinvolgere chi lo ascoltava.
Si capisce dunque come l’uscita di un nuovo corso, mentre l’edizione si avvia alla conclusione, costituisca sempre un evento. Quello da poco pubblicato in Francia si intitola La societé punitive (a cura di Bernard E. Harcourt, EHESS/Gallimard/Seuil, pp. 354, € 26), ed è stato tenuto nel primo trimestre del 1973.
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Impostura mondiale
Impoverimento e ineguaglianza nel mondo negli ultimi 40 anni
Riccardo Petrella
Negli ultimi mesi a seguito anche della risoluzione finale di Rio + 20 “il futuro che vogliamo” sono apparse una serie di rapporti e documenti da parte di organi pubblici mondiali (ONU, Banca Mondiale, OCSE,…) e privati (World Economic Forum, rapporti di banche, fondazioni private e altri organismi) i quali tentano di veicolare chi più e chi meno esplicitamente, la tesi che il mondo starebbe andando sulla buona strada per giungere verso il 2030 all’eliminazione totale della povertà “estrema”. Lo scopo del testo pubblicato qui di seguito è di fornire conoscenze e alcuni dati essenziali per rendersi conto della impostura mondiale rappresentata da tale tentativo.
1. Il contesto: dopo lo smantellamento dello Stato del welfare, il salvataggio del capitalismo allo sbando. Il grande cambio in quaranta anni.
Nel secolo scorso, la lotta contro la povertà e lo sfruttamento dei lavoratori e dei contadini trovò in Occidente uno sbocco piuttosto positivo nel Welfare, il sistema di ricchezza/sicurezza sociale generalizzata fondato sulla piena occupazione ed il ruolo motore dell’investimento pubblico per la produzione e l’accesso ai beni e servizi comuni essenziali per la vita ed il vivere insieme (acqua, scuole, ospedali, trasporti pubblici, case popolari, polizia, magistratura, sicurezza energetica…).
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Il trionfo del capitale industriale in Italia
di Pasquale Cicalese
Enrico Giovannini, ex Ministro del Lavoro del Governo Letta, intervista a Il fatto quotidiano dell’11 febbraio 2014.
Il numero magico è 30%, questo è il livello di svalutazione salariale che ha in mente il padronato italiano, un numero che Letta non garantiva: da qui il feroce attacco di Confindustria. In termini numerici parliamo di una cifra compresa tra 30 e 35 miliardi di euro, tale da pareggiare la deflazione salariale tedesca degli ultimi 12 anni, e ridurre il gap della produttività. La cifra è stata fornita da Cottarelli, ex Fondo Monetario, incaricato di approntare la Spending Review. La guerra di Confindustria ha ormai spostato il tiro. Dopo aver massacrato le “terze persone” che si annidano nel terziario e nella rendita immobiliare, l’oggetto di attacco sono le “terze persone” che affollano la pubblica amministrazione, soprattutto i livelli medio-alti.
Facile sopprimere le Province, ora l’attacco è diretto, e fulmineo, contro le Regioni, i veri centri di spesa pubblica che dominano dal 2001, da quando cioè il centro-sinistra varò la riforma del Titolo V. Da settimane il loro organo di stampa, Il Sole 24 Ore, spara bordate pazzesche contro il federalismo, omettendo di dire che negli anni novanta furono proprio gli industriali a volerlo. Altri tempi, altri imbecilli che dirigevano Viale dell’Astronomia. Da 3 anni il centro studi è diretto da Luca Paolazzi, che sulle regioni spara da anni bordate paurose.
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Buon compleanno al Manifesto di Marx e Engels
David Harvey
Il 21 febbraio 1848 a Londra viene pubblicata la prima edizione del "Manifesto del partito comunista" di Marx e Engels. Nel fare gli auguri di buon compleanno vi proponiamo l'introduzione di David Harvey all'edizione americana del 2008
Il Manifesto del Partito Comunista del 1848 è un documento straordinario, ricco di intuizioni, di significati e di opportunità politiche. Milioni di persone in tutto il mondo – contadini, lavoratori, soldati, intellettuali e professionisti di ogni sorta – vi sono negli anni state toccate ed ispirate. Non solo ha reso il dinamico mondo politico-economico del capitalismo più facilmente comprensibile, ma ha spinto milioni di tutti i ceti sociali a partecipare attivamente nella lunga, difficile e apparentemente interminabile lotta politica per alterare il cammino della storia, per fare del mondo un posto migliore attraverso il loro sforzo collettivo. Ma perché ripubblicare oggi il Manifesto? Può la sua retorica creare ancora l’antica magia che creava un tempo? In quali modi può parlarci oggi questa voce del passato? Hanno i suoi appelli alla lotta di classe ancora senso?
Mentre possiamo non avere il diritto, come Marx ed Engels scrissero nella loro Prefazione all’edizione del 1872, di alterare ciò che già da allora era diventato un documento storico chiave, abbiamo entrambi il diritto e l’obbligo politico di riflettervi sopra e se necessario reinterpretare i suoi significati, di interrogare le sue proposte, e soprattutto di agire sugli spunti che vi traiamo.
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“Fuga dalla storia?” di Domenico Losurdo*
Ovvero: divergenze tra il compagno Losurdo e noi
Militant
Sebbene uscito nel 1999, scopriamo oggi un testo di Domenico Losurdo nella nuova edizione datata 2012, rivista e ampliata dall’autore. Colpevolmente in ritardo, decidiamo comunque di recensirlo soprattutto per la stima che proviamo verso uno dei rari studiosi, appartenenti al sistema universitario ufficiale, non piegati alle retoriche dominanti e alle mode accademiche del momento. Con una coerenza che gli fa onore, Losurdo ha col tempo mantenuto dritta la barra dell’antimperialismo, con la sua produzione teorica e la sua attività politica. Nonostante questo, non nascondiamo lo stupore per certe tesi avanzate nel presente testo, e nel recensirlo non possiamo che catalogare tale libro fra gli “sconsigli” per gli acquisti.
Il testo, in realtà composto da un insieme di saggi e articoli scritti in momenti diversi, dal 1999 al 2011, ha l’ambizione di tracciare una sintesi storica delle rivoluzioni russa e cinese, di comprendere l’attualità di quelle esperienze nonostante i molti anni passati dal crollo del socialismo a est e dalla profonda riforma del “socialismo” cinese. Nel farlo, l’autore si concentra soprattutto sulla via intrapresa dalla Cina post-Mao. E’ proprio il discorso sullo sviluppo cinese ad essere per noi irricevibile.
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Le (presunte) virtù salvifiche della riduzione del cuneo fiscale
di Guglielmo Forges Davanzati
E’ da almeno un decennio che i Governi che si sono succeduti in Italia hanno ritenuto di poter creare le condizioni per la crescita economica riducendo il c.d. cuneo fiscale, ovvero la differenza fra salario lordo e salario netto. E, nell’ultimo Rapporto OCSE (Going for growth), questa misura è fortemente raccomandata per accrescere la competitività delle imprese italiane. Pare, insomma, che la riduzione del cuneo fiscale abbia virtù salvifiche.
Occorre innanzitutto chiarire che il cuneo fiscale, in Italia, non è esageratamente alto, o comunque non è a livelli talmente “fuori norma” da legittimare l’assoluta priorità della sua riduzione. Su fonte OCSE, si registra che la differenza fra retribuzioni lorde e nette è pari, nel nostro Paese, al 47.6%, inferiore a quella registrata in Belgio, Francia, Germania, Ungheria e Austria, ma superiore alla media dei Paesi industrializzati (pari al 35.6%). In merito alla sua riduzione – sulla quale sembra esserci un consenso pressoché unanime – occorre rilevare alcune criticità.
Per ciò che è dato sapere al momento, la riduzione del cuneo fiscale sarà di importo consistente e dovrà essere finanziato – secondo il responsabile per l’economia del PD, Filippo Taddei – con tagli di spese nell’ordine degli 8-10 miliardi. Qui sorgono tre problemi.
Primo (il più ovvio): perché dovrebbe riuscire nell’impresa il Governo Renzi, laddove – a parità di condizioni politiche e del quadro macroeconomico – il precedente Governo non è riuscito a trovare la necessaria copertura finanziaria?
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Sierra Charriba
di Sandro Moiso
“Soldato, io sono Sierra Charriba. CHI MANDERETE CONTRO DI ME, ADESSO?!” (Sam Peckinpah, 1964)
Più la crisi istituzionale, economica, sociale e politica italiana tende ad avvitarsi su se stessa, più tornano a risuonare nella memoria le parole dette con ferocia da un capo apache ad un ufficiale dell’esercito americano, appeso a testa in giù su un fuoco acceso, nelle prime scene di un classico del cinema western dei primi anni Sessanta. “Sierra Charriba” appunto.
E’ chiaro che nei panni del capo guerriero non è individuabile una particolare forza politica o sociale, ma è possibile confondere la sua figura con quella della crisi attuale e nei panni del disgraziato ufficiale si può cogliere l’infelice destino degli uomini di governo che si sono succeduti, inizialmente in grande spolvero e con grandi squilli di trombe, sulla poltrona della presidenza del consiglio italiana nell’arco degli ultimi ventisette mesi. Monti, Letta e, ora, Renzi. Tutti finiti o destinati semplicemente a mordere la polvere del fallimento personale e politico.
Gli stessi tre governi succedutisi nel tempo sembrano, infatti, ripercorrere il destino di quel film.
Nato per durare 278 minuti, fu ridotto, prima ancora di andare nelle sale, a 156. Poi, viste le critiche negative a 136 e, infine, si attestò su una durata di 123 minuti. Come dire: il governo dei tecnici salvatori della Patria durò circa quindici mesi.
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Renzi: sotto il vestito niente
di Leonardo Mazzei
Dicono che Renzi abbia tenuto un "discorso programmatico". Lo dicono, ma nessuno sa dire cos'abbia detto. Neppure quelli che al Senato c'erano. Dunque: sotto il vestito niente. Stupore? No, dopo il discorsetto del siluramento di Letta tenuto al cospetto della direzione piddina niente può più stupire.
La sensazione è quella di una banda assetata di potere, che giunta al traguardo ancor prima del previsto adesso non sa bene cosa fare. Se questa è l'ultima carta del regime oligarchico che incatena l'Italia alla gabbia europea, allora questo regime è veramente alla frutta.
Ma cos'è davvero il renzismo? A giudicare dal discorso di ieri è il nulla circondato dal niente. Un fritto misto di frasi fatte, luoghi comuni, retorica di basso livello. Il tutto nella solita cornice iper-liberista, ma un liberismo scopiazzato, di seconda mano, logorato dal tempo e dall'esperienza della crisi. Sulla quale nulla si sa dire. Anzi, ad ascoltarlo sembra quasi che la crisi sia arrivata per caso, al massimo per responsabilità della burocrazia e di una politica troppo vecchia. Una lettura da scuola elementare, verrebbe da dire, visto che Renzi ha voluto farsi bello con qualche frase innocua sull'istruzione.
Se è ancora presto per dire cosa sia esattamente, assai più facile è capire da dove arriva il renzismo.
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Unione europea, colpo di stato?
di Isidoro Davide Mortellaro
Una bella novità
«L’acqua che non ha fatto in cielo sta». Con questa levantina versione del “tutti i nodi vengono al pettine”, da tempo ci si dispone al diluvio che da destra s’addensa sulle urne europee. Larga fa presa una rassegnata e fatalistica aspettativa: il voto certificherà un divorzio profondo tra Unione europea, istituzioni e grandi settori della società europea.
Ci fu un tempo in cui la collera dei più s’apriva alla speranza e la nutriva, alimentava ricerca di verità, provava a marchiare il futuro. Anche in giorni a noi più vicini, però, si è potuto salutare movimenti vogliosi di riplasmare la globalizzazione, contrastare, come «seconda superpotenza», l’unilateralismo della folle guerra al terrorismo e magari riaffermare regolazioni condivise dell’umano consorzio e dei suoi beni. Da tempo, invece, viviamo un mondo sfrangiato da folate di collera e rancore sociale: generazioni precarie s’accalcano in sequenza, frammiste a ceti medi smagriti, denudati dei paramenti abituali, del welfare che fu. Come mercurio scosso schizzano e s’aggrovigliano senza sosta. Sul web o in raduni selvaggi, su piazze punteggiate da forconi, Bonnetts Rouges o svastiche dalle fogge più varie.
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L'apocalittico Martin Schulz, il Dollaro risorto e l'Euro da liquidare
di Domenico Moro
Sull’inserto domenicale del Sole24ore del 16 febbraio è apparso un articolo di Martin Schultz sull’euro e sull’Europa, tratto da un suo libro recentemente tradotto in Italia. Schultz è uno dei massimi dirigenti socialdemocratici tedeschi ed è stato presidente del gruppo al Parlamento europeo dell’Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici, emanazione del Partito socialista europeo (Pse). Alle prossime elezioni europee sarà il candidato presidente della Commissione europea del Pse, al quale il Pd di Renzi ha chiesto di aderire a pieno titolo.
Secondo quanto dice Schultz nell’articolo in questione, siamo arrivati ad un bivio: o si prosegue con l’integrazione europea o si imbocca la strada della rinazionalizzazione ovvero dell’abbandono dell’Unione Europea. Schultz vede quest’ultima prospettiva come fumo negli occhi. In primo luogo, si tratterebbe di una prospettiva antistorica, in quanto “Nessuno Stato si può sottrarre alla storia mondiale”.
Per storia mondiale Schultz intende la globalizzazione ed i suoi processi. In secondo luogo, il socialdemocratico tedesco ritiene che i Paesi fuori dalla Ue e dall’euro non se la passino meglio di quelli che stanno all’interno.
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"Politiche monetarie, banche centrali e crisi dell'Euro"
Una moneta del comune per il reddito di cittadinanza in Europa
Beppe Caccia intervista Christian Marazzi
Abbiamo intervistato Christian Marazzi a Lugano, nei giorni della tempesta che ha investito le valute delle potenze economiche emergenti e all'indomani del referendum con cui oltre il 50 per cento degli elettori svizzeri hanno chiesto misure restrittive nei confronti dell'immigrazione proveniente dai paesi dell'Unione Europea. Ne è venuta fuori una lettura originale e stimolante delle politiche monetarie seguite dalla Federal Reserve Bank americana e dalla Banca Centrale Europea, nel quadro dell'evoluzione della crisi finanziaria globale. E alcune utili indicazione per i movimenti sociali costituenti in Europa.
Anche nella comunicazione dominante, la narrazione della “ripresa” ha sostituito la retorica dei “sacrifici”: dalle “lacrime e sangue” dell’austerity si è passati a descrivere l’apertura di un nuovo ciclo, di una nuova fase economica di superamento della crisi. Quanto c’è di reale in questo discorso, guardando ovviamente alle diverse aree economiche e politiche del pianeta? Un discorso vale sicuramente per gli Stati Uniti, un discorso vale per le cosiddette “economie emergenti”, un discorso vale per l’Europa.
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Sulle possibilità di una democrazia radicale
Note critiche ad “Agonistics” di Chantal Mouffe
di Giuseppe Montalbano
Nel suo ultimo lavoro Chantal Mouffe propone una lettura delle più pressanti questioni nella teoria politica contemporanea a partire dalla suo modello di democrazia agonistica. Dalla possibilità di un ordine cosmopolitico alle prospettive di una democratizzazione dell’Unione europea, dai limiti dei movimenti contro l’austerity degli ultimi anni fino agli orizzonti di una ‘nuova sinistra’, l’idea di agonismo è per Mouffe la chiave di volta di un ripensamento complessivo del problema democratico e di una strategia per la costruzione di un’alternativa al neoliberismo. Ma la proposta teorica di Mouffe regge davvero?
Nei saggi raccolti in Agonistics (Verso, London 2013) la studiosa belga Chantal Mouffe offre al lettore una complessiva rilettura dei principali temi della sua riflessione teorica attraverso il filtro di una sempre più profonda crisi di legittimità nelle democrazie occidentali contemporanee. Esito di un percorso intellettuale condotto a fianco del filosofo argentino Ernesto Laclau, tale proposta teorica risale già all’opera che avrebbe reso entrambi protagonisti del dibattito francese e anglosassone sulle ‘nuove sinistre’ tra gli anni ’70 e ’80, Hegemony and Socialist Strategy, vero e proprio manifesto del cosiddetto post-marxismo[1]. Il profondo ripensamento dell’idea gramsciana di egemonia[2] ha costituito la base di tutta la successiva riflessione politica di Mouffe tra gli anni ’80 e ’90, per approdare nell’ultimo decennio alla formulazione di uno schema agonistico della conflittualità politica, come modello di analisi e insieme proposta normativa di rifondazione del pluralismo liberal-democratico. Agonistics intende così affrontare le questioni ritenute più pressanti per la teoria politica: dalla critica ai progetti cosmopolitici dei teorici liberali alla crisi dell’integrazione europea, dai movimenti di protesta che hanno investito le democrazie occidentali dal 2010 fino al ripensamento del ruolo pubblico dell’arte come luogo contro-egemonico.
Egemonia e agonismo
L’idea di agonismo in Mouffe prende le mosse da un’interpretazione della nozione gramsciana di egemonia quale nucleo originario di una decostruzione filosofica dell’apparato concettuale marxista e categoria fondamentale per la ridefinizione dell’orizzonte politico delle sinistre contemporanee.
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Renzismo in arrivo
1. L’economia politica del Renzismo
di Mario Pianta
Meno attenzione per Parigi e le periferie europee e più legami con la City di Londra. Il sostegno dall'alto di un blocco di interessi che va dalla rendita finanziaria e immobiliare alla Confindustria fino alle piccole imprese con l'acqua alla gola. Cosa si intravede all'orizzonte del nuovo governo
Per capire la politica economica del nuovo governo di Matteo Renzi si è tentati di partire dalla sua intervista al “Foglio” dell’8 giugno 2012: “Dimostreremo che non è vero che l’Italia e l’Europa sono state distrutte dal liberismo ma che al contrario il liberismo è un concetto di sinistra, e che le idee degli Zingales, degli Ichino e dei Blair non possono essere dei tratti marginali dell’identità del nostro partito, ma ne devono essere il cuore” (www.ilfoglio.it/soloqui/13721). L’economista della Chicago School Luigi Zingales è ora vicino agli ultrà liberisti di “Fermare il declino”, Pietro Ichino è senatore di Scelta Civica e Tony Blair consiglia i governi di Albania, Kazakistan, Colombia.
Il quadro, tuttavia, è molto più complicato. L’orizzonte economico del Renzismo ha quattro punti cardinali. Il primo è l’ancoraggio internazionale. Matteo Renzi è il primo leader politico italiano con un rapporto prioritario con la finanza internazionale, attraverso il finanziere di Algebris Davide Serra, suo stretto consigliere. La capitale della finanza che ci riguarda è la City di Londra, che si avvia a contare più di Berlino, dove Merkel già rimpiange Enrico Letta. Bruxelles resta un passaggio obbligato, ma possiamo aspettarci un Matteo Renzi meno integrato nella faticosa costruzione istituzionale dell’Unione, pronto a smontarne qualche pezzo e a muoversi con le mani più libere, come spiega qui sotto l’articolo di Anna Maria Merlo.
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Sceneggiature e sceneggiate
di Piotr
Tra la sceneggiatura del golpe in Ucraina e la sceneggiata di Vladimir Luxuria a Soci, assistiamo al marketing del nuovo imperialismo. Bugie, martellamenti e amnesieSceneggiatura. L'Ucraina
1. Quando nel mio post di un mese fa ho scritto che prevedevo che l'Ucraina stesse per diventare la Siria europea, la profezia era purtroppo molto facile.
Tutto si è ripetuto da copione. Mi viene in mente la barzelletta del carabiniere che va due volte a vedere Ben Hur perché pensa che possa cambiare il risultato della corsa delle bighe.
No. Il risultato è lo stesso ovunque Cia, Nato e suoi uffici specializzati in "rivoluzioni colorate", con contorno di Ong e di media e intellettuali progressisti (che sono diventati i nemici giurati di ogni ipotesi di emancipazione umana, comunque la si declini, vuoi con Marx, vuoi con Gesù o vuoi soltanto per puro amore di noi stessi, dei nostri figli e dell'Umanità e della Natura).
Il risultato è lo stesso perché il copione è esattamente lo stesso. Persino la pretesa "morte in diretta" dell'infermiera. Quando l'ho vista mi è subito venuta in mente la "morte in diretta" di Neda Soltan a Teheran. Ve la ricordate? Fece piangere indignato tutto il cortile della distopia ginocratica di sinistra, con a capo Lidia Menapace, più propriamente detta Menaguerra da quando votò a favore delle nostre missioni sub-imperiali a fianco degli Usa con motivazioni pseudo-poetico-intellettuali da presa per il culo.
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Come l’ossessione della sicurezza fa mutare la democrazia
Una cittadinanza ridotta a dati biometrici
di Giorgio Agamben
La sicurezza figura tra quelle parole «sgabuzzino» alle quali non si presta più alcuna attenzione tanto sono familiari. Eretta a priorità politica da una quarantina di anni, questa nuova denominazione del mantenimento dell’ordine cambia spesso di pretesto (la sovversione politica, il «terrorismo») ma conserva la sua mira: governare le popolazioni. Per comprendere ed eludere la ragione securitaria, bisogna coglierne l’origine e risalire al XVIII secolo…
La formula «per ragioni di sicurezza» («for security reasons», «pour raisons de sécurité») funziona come un argomento autorevole che, tagliando corto in ogni discussione, permette di imporre prospettive e misure che non si accetterebbero senza di essa. Bisogna opporgli l’analisi di un concetto dall’apparenza anodino, ma che sembra aver soppiantato ogni altra nozione politica: la sicurezza. Si potrebbe pensare che lo scopo delle politiche di sicurezza sia semplicemente prevenire i pericoli, i disordini, persino le catastrofi. Una certa genealogia fa infatti risalire l’origine del concetto al proverbio romano Salus pubblica suprema lex («La salvezza del popolo è la legge suprema»), iscrivendolo così nel paradigma dello stato di emergenza. Pensiamo al senatus consultum ultimum e alla dittatura a Roma (1); al principio del diritto canonico secondo cui Necessitas non habet legem («La necessità non ha affatto legge»); ai comitati di salute pubblica (2) durante la Rivoluzione francese; alla costituzione del 22 frimaio dell’anno VIII (1799), che evoca i «disordini che minaccerebbero la sicurtà dello stato»; o ancora all’articolo 48 della costituzione di Weimar (1919), fondamento giuridico del regime nazional-socialista, che ugualmente menzionava la «sicurezza pubblica». Per quanto corretta, questa genealogia non permette di comprendere i dispositivi di sicurezza contemporanei.
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