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Renzismo in arrivo

1. L’economia politica del Renzismo

di Mario Pianta

Meno attenzione per Parigi e le periferie europee e più legami con la City di Londra. Il sostegno dall'alto di un blocco di interessi che va dalla rendita finanziaria e immobiliare alla Confindustria fino alle piccole imprese con l'acqua alla gola. Cosa si intravede all'orizzonte del nuovo governo

Per capire la politica economica del nuovo governo di Matteo Renzi si è tentati di partire dalla sua intervista al “Foglio” dell’8 giugno 2012: “Dimostreremo che non è vero che l’Italia e l’Europa sono state distrutte dal liberismo ma che al contrario il liberismo è un concetto di sinistra, e che le idee degli Zingales, degli Ichino e dei Blair non possono essere dei tratti marginali dell’identità del nostro partito, ma ne devono essere il cuore” (www.ilfoglio.it/soloqui/13721). L’economista della Chicago School Luigi Zingales è ora vicino agli ultrà liberisti di “Fermare il declino”, Pietro Ichino è senatore di Scelta Civica e Tony Blair consiglia i governi di Albania, Kazakistan, Colombia.

Il quadro, tuttavia, è molto più complicato. L’orizzonte economico del Renzismo ha quattro punti cardinali. Il primo è l’ancoraggio internazionale. Matteo Renzi è il primo leader politico italiano con un rapporto prioritario con la finanza internazionale, attraverso il finanziere di Algebris Davide Serra, suo stretto consigliere. La capitale della finanza che ci riguarda è la City di Londra, che si avvia a contare più di Berlino, dove Merkel già rimpiange Enrico Letta. Bruxelles resta un passaggio obbligato, ma possiamo aspettarci un Matteo Renzi meno integrato nella faticosa costruzione istituzionale dell’Unione, pronto a smontarne qualche pezzo e a muoversi con le mani più libere, come spiega qui sotto l’articolo di Anna Maria Merlo.

 

Nessuna attenzione – si direbbe – invece per Parigi e le periferie dell’Europa, dove Roma potrebbe diventare un importante “contrappeso” rispetto a Berlino. La regola numero uno della finanza è che il cartello lo fanno i creditori, tutti insieme contro chi è in debito, preso da solo. Guai ai debitori che osassero coalizzarsi, e il governo Renzi – come quelli che l’hanno preceduto – riconosce che i poteri della finanza hanno la precedenza sugli interessi materiali del paese più indebitato d’Europa, il nostro.

Il secondo punto cardinale del Renzismo è il sostegno interno – “dall’alto” – da parte del blocco d’interessi che lo sostiene. Rendita finanziaria e immobiliare, le grandi imprese protette dallo stato – dalle banche a Mediaset, dall’energia alle telecomunicazioni –, Confindustria e le piccole imprese con l’acqua alla gola, scivolando nel ceto medio impoverito, che teme di perdere quel poco che ha, più di quanto immagini di poter ottenere in più da lavoro, conoscenza, investimenti. Resta da vedere come si collocheranno gli interessi che, soprattutto nel Mezzogiorno, sconfinano con l’economia criminale. Il Renzismo eredita così buona parte del blocco d’interessi che erano stati garantiti dal Berlusconismo, e ne raccoglie la bandiera unificante dell’ostilità alla tassazione dei patrimoni. Ma nel Renzismo c’è qualcosa di più, il rinnovamento della seduzione imprenditoriale esposta alla Leopolda, da Eataly alla moda, un’“economia dell’offerta” fatta in casa che promette protagonismo a giovani e nuove imprese, temi del primo Berlusconi poi sotterrati da decenni di scandali e manovre di potere.

Il terzo punto cardinale è il suo radicamento “dal basso”. Può questo blocco d’interessi rinnovare l’egemonia, trasformarsi in un blocco sociale che alimenti il consenso al Renzismo? È questo il compito più difficile. Un italiano su sei è oggi senza lavoro, tra chi lavora uno su quattro è precario, l’industria ha perso un quarto della produzione rispetto a prima della crisi, la povertà dilaga. L’agenda economica di Renzi garantisce il dieci per cento più ricco del paese, che possiede quasi metà della ricchezza. Come si può convincere almeno un quarto di italiani impoveriti che ciò che fa bene ad Alain Elkann fa bene anche a loro? Qui non c’è nulla da inventare, è un gioco riuscito a Ronald Reagan 35 anni fa e che ha funzionato abbastanza bene in tutto l’occidente (e oltre), Berlusconismo compreso. Si smontano le identità e gli interessi collettivi – comunità locali, reti di solidarietà, sindacati – e si spiega a tutti che siamo individui che dobbiamo cogliere le opportunità offerte dai mercati globali, siano queste le speculazioni sui derivati o l’emigrazione per fare pizze a Berlino. Lo stato e le sue tasse sono il nemico principale che abbiamo tutti in comune. Se le opportunità si rivelano illusioni – come succede in Italia da vent’anni – sarà soltanto colpa nostra. La politica non ha più la responsabilità di garantire sviluppo, diritti, uguaglianza.

Il quarto punto cardinale è il più efficace: il populismo. Finora c’è stata la “rottamazione” della vecchia politica, ora verranno nuove disinvolte operazioni per impaurire e convincere i perdenti che potrebbero perdere molto di più. Giovani precari a cui distribuire qualche briciola contro vecchi “garantiti” a cui togliere diritti. L’efficienza del privato contro la burocrazia pubblica che blocca il paese. E, naturalmente, gli italiani da tutelare contro gli immigrati. La politica e l’economia sono trasformate in caricature buone per la dichiarazione del giorno in tv. Gli argomenti possono rovesciarsi da un giorno all’altro, retorica e contenuti sono dissociati, accordi e alleanze sono guidate dall’opportunismo.

Con una bussola di questo tipo il Renzismo non ha nulla in comune con la tradizione socialdemocratica e l’esperienza delle coalizioni di centro-sinistra. Margaret Thatcher pensava che il suo risultato politico più importante fosse proprio la nascita del New Labour di Blair, costretto a “trascinarsi nel mondo moderno”, a sostenere “il mercato, le privatizzazioni, la riforma delle leggi sul lavoro e meno tasse su individui e imprese”. Silvio Berlusconi – e il fantasma della Lady di ferro – potrebbero presto dire lo stesso di Matteo Renzi.
 

2. Le occasioni di Craxi

di Carlo Donolo

Tra occasionalismo e accelerazione il Renzismo è il tentativo di ricompattare un variegato mondo di frustrazione e di aspettative, socialmente eterogeneo. Perciò necessita del consenso dal basso, che deve contendere ai grillini, e della formazione dall'alto di una coalizione di poteri forti che lo sostenga

“Le parole d'ordine della stabilità e della governabilità hanno assunto senso concreto come occasionalismo: su tutti i temi che di volta in volta si sono presentati sul tavolo e che richiedevano delle scelte, nel susseguirsi delle situazioni decisionali, nelle diverse emergenze il problema di Craxi è stato quello di mantenere l'iniziativa, di cogliere le occasioni” (“Lezioni di occasionalismo” in C. Donolo e F. Fichera, Le vie dell'innovazione, Feltrinelli 1988).

Le parole chiave per intendere il Renzismo alla luce dei precedenti Craxi e Berlusconi sono qui presentate in corsivo: occasionalismo, come abilità nel cogliere il tempo favorevole e di accelerare l'occasione “giusta”, sacrificando a questa postura opportunistica (in senso tecnico) ogni coerenza personale o programmatica. L'occasionalismo è spinto da una forte ambizione personale intesa e giustificata come medium di obiettivi ambiziosi. Questi possono essere raggiunti premendo sugli elementi di rottura: accelerazione, velocizzazione dei processi politici (che oggi poi sono in primo luogo comunicativi o di politics). L'occasione può essere aleatoria o anche in parte costruita, in ogni caso deve spiazzare vecchie dicotomie come destra/sinistra, pubblico/privato, ed anche consenso e programma, appunto la semantica dei rituali della vecchia politica progressista.

Nelle condizioni attuali delle democrazia di massa ormai entropiche la probabilità di successo del seize the time è legata a un accurato o anche squilibrato dosaggio di populismo comunicativo accattivante (oggi il “bravo ragazzo” contro la durezza caratteriale di Craxi) che per logica sua fa appello a tutti e non definisce niente in termini di contenuti programmatici. Va detto che il suo populismo ha dei toni “popolari” (Renzi proviene da lì) che si differenziano nettamente dal populismo aggressivo, veramente antipolitico, di Grillo.

Il renzismo al momento è più un potenziale di innovazione, che un esito acquisito, ci vuole comunque tempo; è il tentativo di ricompattare un variegato mondo di frustrazione e di aspettative, socialmente eterogeneo, che vuole Renzi pur di uscire dalla palude e dalla depressione anche psichica. Egli ha bisogno del consenso dal basso, che deve contendere principalmente ai grillini, e della formazione dall'alto di una coalizione di poteri forti che lo sostenga almeno come ipotesi di transizione. Ma mentre Craxi ed anche Berlusconi erano unici nel loro genere, oggi Renzi deve vedersela con competitors “affini” (almeno per qualche aspetto importante): l'eterno Berlusconi da lui stesso riesumato e da Grillo. Dall'occasione ai fatti: un percorso minato.
 

3. Un Principe alla ricerca del popolo

di Christian Raimo

Parafrasando Machiavelli, il neopremier Matteo Renzi dovrà guadagnarsi un consenso che sta perdendo

Le opinioni di chi ha sostenuto Renzi finora a proposito l’azzardo di Renzi sono sostanzialmente due. Il primo dice: abbiamo creduto nella diversità politica, una diversità politica non solo promessa ma dimostrata anche nei modi, e adesso molto di questo credito se l’è bruciato con una mossa da palazzo. Il secondo dice: cosa doveva fare Renzi? continuare a fare il segretario di un governo che non gli piaceva, impantanato nell’impossibile scelta tra sostegno od opposizione a Letta, con il serio rischio di bruciare il suo grande consenso personale, che è una delle poche ragioni della sopravvivenza del Pd? Così il primo gli fa gli auguri, sperando che Renzi al governo riesca a far dimenticare il peccato originale, e il secondo gli dà atto di aver trovato la mossa del cavallo in una situazione di stallo.

A me Renzi non è mai piaciuto, e non vedo l’ora ogni volta di ricredermi. Non mi è piaciuto Renzi rottamatore, non mi è piaciuto Renzi sindaco di Firenze, non mi è piaciuto Renzi scrittore di Stil novo, Fuori! e Oltre la rottamazione, non mi è piaciuto il Renzi comunicatore, non mi è piaciuto anche il Renzi delle due primarie (quelle da perdente e quelle da vincitore, entrambe contro avversari per diversi motivi deboli). La sua fortuna fin adesso è stata quella di essere il più aggressivo, più collegato al mondo reale, più dinamico, più televisivo in un partito pieno di nomenclatura che, preparata o meno, è spesso timida, impaurita, ridicolizzabile dal punto di vista comunicativo, dai giaguari smacchiandi in giù.

Ora, con il benservito al governo Letta, Renzi si è alienata la simpatia dei moltissimi a cui questa sua spavalda concretezza piaceva o che, come me, gli riconoscevano almeno di essere uno che, in un paese devastato dal deficit di rappresentanza dove i referenti politici sono l’espressione di vertici di partito, aveva sempre rivendicato invece una legittimazione popolare. Mi chiedo, come tutti: Perché l’ha fatto? Per sete di potere? Perché è uno stronzo? Per mantenere un’immagine di dinamismo impossibile nella palude governativa di Letta? Per il bene del paese? Per le pressioni degli investitori? Perché non poteva fare altrimenti?

Fatto sta che l’ha fatto. E ora si aprono i mesi di presunta luna di miele in cui Renzi si gioca la sua carriera politica, la sopravvivenza del Pd, la tenuta sociale del Paese. Qualcuno già oggi lo etichetta come machiavellico, secondo la cattiva vulgata del fine che giustifica i mezzi. E proprio per questo che sarebbe utile a Renzi rileggersi in questi giorni il suo conterraneo, per esempio quel passo quando nel Principe dice: «Debbe pertanto uno, che diventi principe mediante el favore del popolo, mantenerselo amico: il che gli fia facile, non domandando lui se non di non essere oppresso. Ma uno che […] diventi il principe con il favore de’ grandi, debbe innanzi a ogni altra cosa cercare di guadagnarsi el populo […] E perché li uomini, quando hanno bene da chi credevano aver male, si obligano più al beneficatore loro, diventa el populo subito più suo benivolo che s’e’ si fussi condotto al principato con e’ favori sua […] Concluderò solo che a uno principe è necessario avere il populo amico, altrimenti non ha nelle avversità remedio». Machiavelli dà due possibilità per diventare principe: col favore dei potenti e con quello del popolo. Renzi sembrava aver scelto la seconda finora, e invece – oplà – ha optato per la prima. Ma anche in questo caso, ricorda Il principe, il suo compito dovrà essere quello di “guadagnarsi el populo”.

L’aspetto paradossale di tutta questa manovra è che Renzi il favore del popolo ce l’ha avuto finora. E avrebbe potuto arrivare al governo alimentando questo consenso. Come? Ce chi delinea un cul-de-sac in cui già nei mesi post-investitura da segretario Renzi si stava ficcando: quello del logoramento. C’ha provato, dice, a agire di sponda con la legge elettorale, e i risultati sono stati un ennesimo traccheggio parlamentare. Con quest’andazzo, i renziani avranno considerato che il pericolo fosse che alle elezioni europee si sarebbe prospettato un trionfo per le forze antigovernative, Berlusconi e Grillo, e una debacle per chi aveva retto, obtorto collo, le gambe molli di Letta. Come poteva Renzi guadagnarsi el populo, continuando a sostenere un governo inviso a lui prima che agli italiani?

Beh, un modo forse c’era, mi dico. Perché Renzi non ha pensato, ora che era segretario, di trasformare il partito in un vero laboratorio democratico? Perché per esempio non ha pensato di contrastare l’M5s e Forza Italia incalzandoli con una grande chiamata all’impegno politico? Perché non lottare strenuamente contro gli avversari invece che con i suoi compagni di partito?

Oppure: perché non lanciare una grande campagna di tesseramento per un partito di sinistra completamente rinnovato? Perché non pensare finalmente a costruire un partito-laboratorio, un partito aperto, un partito della società civile, persino un partito-palestra (come lo definisce Barca), in una prospettiva di lungo periodo, mostrando come, adesso che è lui il segretario, le cose all’interno sarebbero andate tutte diversamente?

O ancora: se si voleva questa crisi, perché non dichiararla alla luce del sole nei mesi precedenti? O perché non farlo ora attraverso un iter parlamentare, criticando il governo nel merito? Quando una settimana fa ha detto di non voler fare il processo al governo e poi l’ha sfiduciato, valendosi della maggioranza dei suoi fedeli di partito, non si è reso conto di non aver colto per l’ennesima volta l’occasione di rendere trasparenti ai cittadini quali sono le ragioni per cui si appoggia un governo, si fa una verifica, lo si mette in discussione, si apre un’altra fase? Io il processo l’avrei voluto. Dopo aver criticato il potere invasivo di Napolitano, perché farsi forte di una legittimazione finora solo fiduciaria?

Per il resto, auguri Matteo Renzi: io sto sempre qui disposto a cambiare idea. Ci metterò credo moltissimo.
 

4. L'Italia al traino della Mitteleuropa

Intervista a Marcello De Cecco 

L'Europa non esiste. Al suo posto una regione con 150 milioni di abitanti con al centro la Germania. Intervista con l'economista Marcello De Cecco

Con Marcello De Cecco, economista, attualmente docente di Economia e finanza dei paesi emergenti alla Luiss di Roma e autore, per citare l'ultimo libro, di “Ma che cos'è questa crisi”, una raccolta degli interventi pubblicati su Repubblica, proviamo a ripercorrere le tappe della crisi – finanziaria, economica, sociale – che ci sta travolgendo.

Che cosa pensa di Matteo Renzi? È il nuovo interprete degli interessi della finanza?

Su Renzi mi esprimerò quando leggerò il suo programma. Ora posso dire solo che l’intera vicenda del benservito a Letta non mi è piaciuta affatto, così come non mi è piaciuta la faccenda di Berlusconi al Quirinale. È un chiaro messaggio al paese, da parte della sua classe dirigente, che le leggi valgono solo per chi non conta nulla.

Come vede le elezioni europee? Cosa dobbiamo aspettarci in questi tempi di nazionalismi e populismi di ritorno?

A questo punto interessano poco, ci sarà una rappresentanza di questi populismi, dei partiti antieuropei, ma non una maggioranza. Detto ciò non credo che ci sarà una vera scossa e l'Italia è destinata ad andare a rimorchio. Queste sono le carte e con queste si gioca, con la creta si possono fare solo le pignate come dicono al mio paese.

Il cambio di governo e le elezioni europee avvengono in un sistema finanziario internazionale in maremoto: le valute dei Brics crollano, gli Stati uniti tirano i remi in barca sulle politiche monetarie e le riprese, dove ci sono, sono alimentate da bolle speculative. Dalla crisi non abbiamo imparato niente?

Non ho mai pensato che dalle crisi si impari qualcosa, i sistemi si evolvono secondo una logica che dipende da tante variabili. Il capitalismo di oggi, come ha ridetto ultimamente Larry Summers, sopravvive con bolle di investimento che poi esplodono e che sopperiscono alla mancanza strutturale di domanda di un economia matura dei paesi al centro, perciò ci si muove da una bolla a un'altra. Finanza ed economia reale sono fatte l'una per l'altra, convivono, sono figlie dello stesso tempo ma non sono equipotenti, dipende dai periodi. È vero che l'economia finanziaria oggi ha preso il sopravvento, ma come diceva Braudel ci sono epoche in cui questo accade, anche se quando le cose vanno bene tutti tendono a dimenticarlo. Basti pensare che alcuni sostengono che l'economia romana è andata in crisi perchè troppo finanziarizzata. E anche l'enorme sviluppo cinese, senza la finanza stravagante, non ci sarebbe.

In che modo i capitali potrebbero essere in parte messi sotto controllo da istituzioni come il Fondo monetario internazionale?

Il Fondo monetario internazionale fa parte del sistema economico mondiale come ne fanno parte la finanza e l'economia reale e quindi se è vero che per tutto il periodo post bellico ha prevalso il controllo dei cambi e del commercio estero non bisogna dimenticare che l'intento degli Usa era quello di riavviare un economia globalizzata e di libero scambio. A quei tempi il governo Usa ha visto un prevalere di coloro che rappresentavano l'economia reale, ma anche quelli volevano una finanza di qualche tipo: quel modello di sviluppo l'hanno voluto tutti, anche Henry Ford. Quello che è interessante è che il capitalismo abbandonato a se stesso, libero e globalizzato, va a finire come abbiamo visto, con la concentrazione dei redditi e dei patrimoni, con la crisi dello Stato e quindi con una rimessa in questione della fase precedente, quella dei consumi di massa. Questo modello è finito, e non si può tornare indietro. Lo Stato controllore ha perso ovunque, negli Usa come qui. La tobin tax non ha funzionato da nessuna parte come un deterrente, in Italia non ce ne siamo nemmeno accorti, e negli Usa i prodotti derivati impazzano, sono ripartiti alla grande perché in pochi hanno voluto combatterli e chi voleva non ne ha avuto la forza. Bisogna accettare le cose come sono, il velleitarismo non serve a niente.

Nello scacchiere mondiale l'Europa conta e conterà sempre meno?

Dobbiamo prepararci a contare di meno, questo non è il mondo delle federazioni, è il mondo dei grandi Stati nazionali: Usa, Cina, India, Brasile, Russia e la Germania che prova a essere un grande Stato nazionale potendo contare sul fatto che attorno a sè ha gli Stati dell'est che oggi ci hanno sostituito come suoi fornitori. L'Europa non c'è. Ormai la regione della Mitteleuropa, come la chiamo io, è risorta, ha il suo centro nella Germania e avrà 150 milioni di abitanti.

Quale era il progetto dell'euro e cosa ne è rimasto?

L'euro è nato per essere moneta dell'Europa, non un'alternativa al dollaro. La verità storica è che non è nato con le caratteristiche per fare quel che fa il dollaro: il dollaro è una moneta finanziaria, l'euro no perchè al suo centro c'è un paese che non vive di finanza, la Germania. E infatti non è un caso che l'altro paese finanziario, la Gran Bretagna, ne sia rimasto fuori. D'altra parte se l'euro fosse diventato una moneta finanziaria sarebbe crollato immediatamente. L'euro porta ai deficit interni perchè è una moneta concepita per la libertà dei pagamenti interni, non c'è il controllo per pareggiare i surplus commerciali, e ora paghiamo gli squilibri che si sono accumulati negli ultimi dieci anni.

Cosa è andato storto nella costruzione dell'unione monetaria europea e nelle politiche di Francoforte e Bruxelles?

Non credo si debba parlare di errori ma di comportamenti imposti dal tipo di rapporti di forza tra i contraenti che hanno fatto l'unione monetaria. Se avesse rappresentato i governi, la Bce sarebbe diventata la banca centrale dei poveri, perché i paesi in deficit avevano bisogno di aiuto mentre gli altri no. Questo è stato voluto non dai tedeschi ma dai francesi che hanno acconsentito alla riunificazione della Germania e hanno voluto mantenere un controllo con l'unione monetaria. Il trattato di Maastricht stesso è nato all'insegna del monetarismo.

Vede un rischio effettivo di dissoluzione dell'euro o di espulsione di paesi dall'area europea?

Credo che nessuno voglia una dissoluzione dell'euro, e questa è la ragione per cui si fa il patto fiscale. Poi è vero che quella che viene dispensata è una medicina tedesca ma ricordiamo che prima di tutto i tedeschi l'hanno data a se stessi, alla Germania dell'Est. È una visione antikeynesiana, i tedeschi ritengono che non convenga essere altruisti.

È pensabile un'area mediterranea dell'euro?

No assolutamente, la Francia fa di tutto per uniformarsi alla Germania. I francesi non stanno con noi, la loro principale preoccupazione è quella di distinguersi dai latini. E quanto ai Pigs, io nel caso dell'Italia avrei siglato un memorandum di intesa come hanno fatto spagnoli, greci e portoghesi per accettare il controllo. La Spagna di oggi ha riavuto la fiducia dei mercati.

La finanza non si può ridimensionare, la politica è sempre più debole, sembra non si possano pensare cambiamenti, ma allora che tipo di contraddizioni scoppieranno e cosa ci aspetta in Italia?

L’unica cosa esplosiva che abbiamo è la disoccupazione giovanile. Ma è bene vedere come a questo problema hanno fatto fronte i paesi meno sviluppati, dove esiste da molti anni: i giovani disoccupati sono assorbiti da populisti di destra, razzisti ed estremisti religiosi, che cercano di inquadrarli nelle loro file. La risposta della sinistra, ovunque, non è all’altezza della gravità del problema.
 

5. Gli occhi di Bruxelles sull'Italia

di Anna Maria Merlo

L'Unione europa teme che un fallimento del nuovo governo possa fare sprofondare l'Unione europea. E potrebbe allentare la stretta sull'Italia in cambio di tagli alla spesa

Le prime reazioni al cambiamento di primo ministro in Italia sono, evidentemente, prudenti. “Non conosciamo i piani di Renzi” ha affermato il capo dell’Eurogruppo, Jeroen Disselbloem. Matin Schultz, presidente dell’Europarlamento, ha riassunto le aspettative comuni: “non ci interessano i nomi dei ministri, l’importante è che il governo presieduto da Renzi sia stabile. Nella seconda metà del 2014 l’Italia avrà la presidenza dell’Unione, la crescita del paese significherà stabilità in Europa”.

L’Europa, in altri termini, attende che l’Italia realizzi delle riforme che permettano di recuperare la crescita nella terza economia della zona euro. Bruxelles sembra pronta ad allentare un po’ la stretta: “possiamo concedere più tempo in cambio di un piano di riforme” ha affermato Disselbloem. Il commissario agli affari monetari, il guardiano dell’ortodossia Olli Rehn, teme ora che “il fallimento di Renzi potrebbe condurre l’Italia in un angolo dal quale sarebbe difficile uscire”. Ma precisa: “è chiaro che tutto deve avvenire sotto il 3%” di deficit. Renzi non potrà quindi puntare su uno sfondamento del tetto e sul non rispetto degli impegni presi: l’Italia ha promesso 2,5% di deficit per quest’anno (ma la Commissione calcola che sarà il 2,7%). Antonio Tajani, commissario all’industria, è più possibilista: il 3% “non è gestito da un computer, ci sono fattori attenuanti che vanno valutati”, il tetto “va interpretato in modo intelligente se Italia si presenta con riforme serie, con un piano di tagli alla spesa e di investimenti per la crescita”. Tajani ricorda che per Francia e Germania il piano fu sospeso nel 2003, quando fu chiaro che né Berlino né Parigi erano in grado di rispettarlo. François Hollande non è però riuscito – o non ha voluto, per timore di una punizione dei mercati – ad allentare i vincoli in questo periodo di recessione. Renzi riuscirà dove Hollande ha (finora) fallito?

A leggere il programma di Renzi sull’Europa, tra omaggio a Mario Monti, che ha preso decisioni importanti “che vanno nella giusta direzione” e accettazione dei Fiscal Compact che “va bene” poiché “pone vincoli alla tentazione di aumentare il debito”, non si trovano proposte nuove, a parte la riflessione sul rigore imposto che “non affronta il problema di come far fronte a shock sistemici come quello che stiamo attraversando che si ripercuotono sulle finanze pubbliche” degli stati membri e che spinge a “lavorare” per arrivare a un “sistema di assicurazione reciproca”, cioè “in ultima istanza” alla creazione di Eurobond. Renzi afferma che bisogna farla finita con la solita posizione – “ce lo chiede l’Europa” – e, pur cedendo alla banalità di puntare il dito contro i “burocrati di Bruxelles”, promette di battersi per “superare l’austerity come religione”, per arrivare a un “nuovo sistema di vincoli che sia al passo con i tempi” e non più legato – 3% di deficit e 60% di debito – ai conti dell’inizio degli anni ’90, quando furono varati.

Renzi è estremamente prudente, molto di più delle proposte che dei gruppi di economisti, in Germania e in Francia, stanno cercando di riformare l’Europa e la zona euro. Riprendendo le grandi linee delle proposte del gruppo Glienicker, composto da economisti e giuristi tedeschi, un collettivo di economisti e sociologi francesi (tra cui Thomas Piketty, Pierre Rosanvallon, Xavier Timbeau, Laurence Tubiana) ha pubblicato un manifesto con una serie di proposte di riforma per far uscire l’Europa dalla crisi. “Una moneta unica con 18 debiti pubblici diversi sui quali i mercati possono liberamente speculare e 18 sistemi fiscali e sociali in concorrenza sfrenata gli uni contro gli altri non funziona e non funzionerà mai”, scrivono. Condividere la sovranità monetaria e rinunciare alle svalutazioni competitive, senza strumenti economici, fiscali e sociali comuni, ha portato la zona euro in una zona di transizione insostenibile. Gli economisti fanno proposte concrete sull’armonizzazione fiscale, anche per lottare contro l’”ottimizzazione” delle multinazionali. Riprendono l’idea di economisti tedeschi sulla mutualizzazione dei debiti al di sopra del 60% e delineano un’unione politica con precise riforme istituzionali che permettano un funzionamento democratico, coinvolgendo i parlamenti nazionali in una Camera europea che dovrebbe fare le funzioni che oggi si arroga il Consiglio dei ministri. Un segnale di distensione è venuto in questo periodo dalla Germania, con il rinvio da parte del tribunale costituzionale di Karlsruhe alla Corte di giustizia europea sulla delicata questione del programma di acquisto delle obbligazioni sovrane da parte della Bce. Un preludio verso una strategia economica comune? È almeno una breccia su cui indagare, che rischia di richiudersi se i capi di governo, Renzi compreso, pensano di cavarsela imitando la strategia britannica della linea Thatcher-Blair-Cameron.
 

6. Barca-Vendola e il "quarto partito"

di Guglielmo Ragozzino

Come si forma un governo? Chi discute di programmi e persone? Chi sceglie chi? La telefonata tra Barca e Vendola è indicativa in proposito

Il governo di Enrico Letta è caduto, improvvisamente, perché Squinzi della Confindustria gli ha tolto, improvvisamente, l’appoggio. Si tratta forse della stessa forza finanziaria, industriale e sociale che Alcide De Gasperi, più di sessanta anni fa, considerava ostile e chiamava “il quarto partito”? Certo è il blocco, per chiamarlo così, che ne ha ereditato la sorte e la ricchezza. De Gasperi cercava allora di non farsi condizionare dal “quarto partito” perché era sicuro di rappresentare lo Stato repubblicano e democratico, popolare, e di doverlo difendere, sempre e comunque. Matteo Renzi il nuovo segretario del partito democratico, discende da De Gasperi, probabilmente ne erediterà il ruolo, ma non ne ha conservato l’analogo senso di Stato. Anzi vede lo Stato come spreco diffuso, burocrazia intrigante e lentissima, spese pazze e inutili, corruzione dilagante e conta di rimpicciolirlo.

L’operazione di formare il nuovo governo è complicata per Matteo Renzi, molto di più di quanto si sarebbe aspettato. Egli è costretto a rallentare e per mantenersi vivo promette al tempo stesso altri successi, uno al mese, per i problemi del Senato, della legge elettorale, della semplificazione amministrativa e altri ancora. La cronaca è piena di attese.

La storia dei governi nuovi non cambia mai. Suggerimenti e veti della Politica, manuali Cencelli di ogni sorta, peso di interessi industriali, sindacali, corporativi, accademici, di amicizie e affinità regionali. Ci sono le grandi banche e c’è l’Europa. Una novità renziana, assai complicata, è l’esclusione di molte persone d’età, esperte o sedicenti tali (la cosiddetta rottamazione). Si può apprezzare che manchino oggi i suggerimenti di Usa e Vaticano, le due Segreterie di Stato che ieri contavano molto. In ogni caso le forze rimaste in campo si battono come possono per facilitare l’avvento di un governo fidato e di ministri amici, sbarrando la via agli avversari, veri o presunti, sgambettandoli preventivamente. Ogni mezzo è buono.

Nasce così il caso di Fabrizio Barca. Questi, economista, direttore generale al Tesoro, è stato ministro per la coesione sociale nel governo di Mario Monti. Sono in molti a temere (o sperare) che sia lui il prossimo ministro dell’economia. In un colloquio telefonico riservato con Nichi Vendola, presidente della Puglia e capo di Sel, unico partito di sinistra nel Parlamento italiano, Barca ha spiegato la preoccupazione, il vero e proprio disagio per una proposta, irrituale, al ruolo di ministro dell’economia. Racconta all’interlocutore di aver ricevuto segnali, mezze frasi, da parte di intermediari, senza che nessuno gli abbia mai chiesto quale sia la sua intenzione, se voglia partecipare al governo con un incarico di tale importanza e perché, cosa preveda di fare e come e con quali alleanze; senza alcuna curiosità sulla sua strategia preferita in ordine all’Europa e alla moneta. "Non c'è un'idea, è avventurismo: siamo agli slogan". Barca ormai non è più soltanto indispettito ma è soprattutto preoccupato per le conseguenze politiche generali “Questo mi rattrista, sto male, sono preoccupatissimo perché vedo uno sfarinamento veramente impressionante….”. Insomma si chiama fuori e al tempo stesso teme per il suo partito e per il paese che sta perdendo colpi.

C’è un penultimo aspetto. La telefonata in questione non è mai avvenuta, come tutti sanno. Ora gli autori ne menano vanto, si considerano i muckraker dell’epoca moderna; più modestamente l’imitatore della voce di Vendola forse pensa di essere un grande artista politico. Invece tutti loro hanno lavorato, forse senza saperlo, per sostenere la linea padronale, lo Squinzi pensiero.

Rimane in fondo una preoccupazione: come si forma un governo? Chi discute di programmi e persone? Chi sceglie chi? La telefonata tra Barca e Vendola è indicativa in proposito: c’è un intenso chiacchiericcio tra cento o mille persone; qui le scelte principali (e secondarie) sono discusse e messe a punto, pesate e sottoposte a svariati pareri, a incroci di veti, finché la lista non è definitiva e si va, in comitiva, al Quirinale.
 

7. È nato il governo Renzusconi

di Valentino Parlato

Senza l’intesa tra Renzi e Berlusconi su legge elettorale, riforme della Costituzione e politica economica non saremmo arrivati alla presentazione del governo

Domani, forse, conosceremo la composizione del nuovo governo e capiremo qualcosa di più, ma fin da ieri era già evidente che avremo un governo Renzi-Berlusconi. Senza l’intesa tra i due su legge elettorale, riforme della Costituzione e politica economica non saremmo arrivati alla presentazione del governo. La sostanza è quella di uno spostamento a destra rispetto al governo Letta (un governo del Pd liquidato dal Pd). Così che Alfano, per difendersi da Berlusconi, deve gridare contro la patrimoniale e c’è attesa per vedere chi sarà il ministro responsabile dell’economia; ci vorrà il gradimento di Berlusconi visto che siamo passati da un governo Letta a un governo Renzi-Berlusconi, lo ripeto.

Tutto questo pericoloso pasticcio politico dentro una crisi economica di grave portata, direi storica. E aggiungo che le crisi economiche in occidente hanno sempre spostato a destra gli equilibri politici e nessuno denunzia questo oggettivo pericolo. Sul terreno della politica e del Pd va registrato che le primarie – lo ha spiegato molto bene Asor Rosa sul manifesto del 15 febbraio – sono un disastro e mi verrebbe da ricordare ai lettori che nel Pd è stata avanzata la proposta di non chiamarsi più partito, ma solo “democratici”. Insomma basta con i partiti, meglio i gruppi di interesse che senza mascherature politiche dichiarano direttamente i loro obiettivi.

E tutta questa confusione politica in una crisi economica di estrema gravità, che investe duramente l’Europa e anche, e gravemente, l’Italia. Viviamo una situazione difficile per l’economia e assai pericolosa per la politica. Il Renzismo non prospetta nulla di buono. Bisogna sperare che nel Pd cresca una forza di opposizione e anche (importante ma tuttavia secondario) che Alfano non pensi di resistere a Berlusconi spingendo ancora più a destra Matteo Renzi. E, per ultimo, raccomanderei al lettore di fare attenzione agli atteggiamenti di Confindustria e dei vari potentati della finanza e delle banche. Per Renzi sono forze di sostegno, nei fatti – e ne avremo conferma – forze di comando.
 

8. L’alba del Renzismo

di Redazione

L'ascesa di Renzi è avvenuta con la retorica del “nuovismo” – la promessa di una “grande riforma” al mese – e in questo Renzi ripercorre le orme di Tony Blair

L’ascesa di Matteo Renzi a Palazzo Chigi inaugura una nuova fase della politica italiana. È avvenuta attraverso un colpo di palazzo, e in questo il giovane Renzi si è rivelato un genuino erede della vecchia Democrazia cristiana. È avvenuta attraverso una personalizzazione estrema dell’azione politica, con il sostegno unanime di giornali e televisioni, e in questo Renzi si presenta come continuatore dello stile di Silvio Berlusconi, ricevendone l’investitura dal suo impero mediatico. È avvenuta con la retorica del “nuovismo” – la promessa di una “grande riforma” al mese – che nasconde il vuoto di contenuti, e in questo Renzi ripercorre le orme di Tony Blair quando prese la guida del New Labour e del governo britannico.

Queste tre eredità sono alla base del progetto politico espresso da Renzi e riflettono bene il blocco di interessi che il nuovo leader rappresenta. Il ceto medio conservatore dell’Italia profonda, il mondo delle imprese protette dallo stato, con la rendita immobiliare in testa, la finanza internazionale della City e la sua agenda liberista.

La via che Matteo Renzi percorre, salendo al Quirinale per avere l’investitura a premier, è lastricata di successi. Ha “rottamato il vecchio” nel Pd, dove non ci sono ormai che flebili. Ha un accordo di ferro con Berlusconi – “resuscitato” proprio da lui – sulle riforme della legge elettorale e della Costituzione, garanzia di un governo di legislatura, al di là del perimetro ancora variabile della sua maggioranza parlamentare. Ha l’appoggio di Confindustria in casa e della grande finanza oltre i confini, che gli ha regalato spread in calo e rating in rialzo.

Ma il suo capolavoro è l’immagine di dinamismo che trasmette, la promessa di una possibilità di cambiamento anche nella “palude” in cui si è trasformata l’Italia. Ci hanno creduto i due milioni di elettori Pd che l’hanno scelto nelle primarie. Ci credono molti giovani, esasperati dall’immobilità del paese. Ci potrebbero perfino credere un po’ imprese e banche, che potrebbero tornare a investire regalandogli una mini-ripresa dell’economia. Forse ci crede lo stesso Renzi, che pensa di avere i margini per grandi operazioni – un reddito minimo o un taglio delle tasse – e di poter sforare il vincolo del 3% nel rapporto tra deficit pubblico e Pil. I risultati del suo governo andranno valutati nel merito, ma la sua via resta cosparsa di trappole: quelle della “vecchia politica” italiana – riemerse in questi giorni – e della rigidità della politica europea, che potrebbe azzerare i suoi margini di manovra.

Dove potrà condurci allora quest’“uomo solo al comando”? Nel suo documento per il congresso Pd Renzi aveva promesso di “superare l’austerity come religione”. Ora si dice che prima bisogna fare riforme e tagli. Ma perseverare nell’austerità – lo sappiamo da sei anni – significa aggravare la depressione e scivolare sempre più ai margini dell’Europa. Verso un paese dove si taglia la spesa sociale e si rinuncia ai diritti del lavoro: le riforme qui sono quelle tentate e non riuscite al Berlusconi che voleva la libertà di licenziare e al Monti che voleva il contratto unico precario; la stessa agenda ora, invece di scatenere proteste di massa prima e scetticismo poi, viene accolta con sollievo anche da chi ne verrà colpito. Quanto ai nuovi posti di lavoro, non li hanno creati oggi i bassi salari e difficilmente li creerà domani l’entusiasmo per il Jobs Act.

E la politica? La promessa è quella di gestire lo stato come una città, e di gestire il comune come un’azienda. Il sollievo di meno burocrazia, meno regole per un paese che non le rispetta, più privatizzazioni che non ci hanno mai regalato più efficienza. Più che rovesciare i vent’anni di declino economico dell’Italia – alimentati dalle politiche di Berlusconi come del centro-sinistra – il Renzismo potrebbe diventare il modello per gestirlo. Potrebbe dare governabilità al paese, rassicurare la finanza, proteggere i privilegi del dieci per cento più ricco e sventolare promesse per il novanta per cento che sta peggio di prima. Il Renzismo potrebbe inaugurare la “terza repubblica”, e mettere in un angolo la democrazia.
 

9. Job Act, tra deregulation e flexsecurity

di Davide Antonioli , Paolo Pini

Quella sul lavoro sarà la prima riforma del governo Renzi. La sfida della cancellazione del supermarket contrattuale e il rischio della svalutazione competitiva

In questi giorni si costruisce il nuovo governo Renzi. Il “lavoro” è annunciato come uno dei pilastri del programma di governo da attuare nel mese di marzo. Renzi parte dal Jobs Act abbozzato a gennaio. Occorre riprendere le sue criticità e verificare poi in che direzione si muoverà il governo. Segnerà quel cambio di verso che il futuro primo ministro ha annunciato, oppure si appresta ad essere una tappa ulteriore senza soluzione di continuità con il passato?

Il Jobs Act potrebbe semplicemente inserirsi nel solco di una politica neo-liberista che informa le attuali proposte di riforme strutturali. Semplificazione, meno burocrazia e meno regole potrebbero sottendere una confermata volontà di deregolamentare il mercato del lavoro, rendendolo ancora più flessibile, non solo in entrata, ma anche in uscita, riducendone le tutele.

Se questo fosse l’obiettivo, esso si inscriverebbe appieno nel solco della politica europea della flessibilità del lavoro per riacquistare competitività con le svalutazioni competitive interne, del lavoro. Se così fosse, il programma sarebbe da rigettare. Appropriate sarebbero le osservazioni di Damiano (2014) (http://www.huffingtonpost.it/cesare-damiano/decalogo-per-il-jobs-act_b_4616154.html), o di Fassina (2014) (http://www.huffingtonpost.it/stefano-fassina/memo-x-il-programma-di-un_1_b_4751051.html) quelle ancor più critiche di Sinopoli (2014) (http://www.syloslabini.info/online/appunti-su-contratto-unico-e-articolo-18-aspettando-il-job-act/), e molto diverso sarebbe l’approccio del governo Renzi rispetto alla visione del “decalogo del lavoro” di Bruno (2014) (http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Un-decalogo-per-il-Piano-del-Lavoro-21658).

Il programma sul lavoro dovrebbe invece segnare una discontinuità rispetto al passato, e non avvalorare le tesi “riformiste” di Scelta Civica e del senatore Pietro Ichino (http://www.pietroichino.it/?p=1079). Si dovrebbe andare verso una radicale eliminazione del supermarket dei contratti per indurre le imprese ad investire in capitale cognitivo ed in innovazione organizzativa, invece di introdurre un contratto a tutele progressive che si affianchi alle decine di modalità esistenti senza modificare i diffusi comportamenti difensivi delle imprese. Se si vuole introdurre il contratto a tutele progressive, lo si faccia non a complemento dell’esistente, ma in sostituzione di molto dell’esistente.

Al contempo, l’enfasi quasi ossessiva sulla riduzione generalizzata del costo del lavoro come strumento per accrescere la competitività, nega sia il ridotto peso che ha il lavoro nei costi complessivi dell’impresa, sia la rilevanza dell’innovazione nei processi e nei prodotti, nella qualità del lavoro. Questi sono invece fattori cardine per contrastare la stagnazione della produttività che frena sia competitività che retribuzioni, e quindi domanda di mercato, estera ma soprattutto interna.

La riduzione del cuneo fiscale, il nuovo mantra, avrebbe un senso positivo solo se almeno queste tre condizioni sono rispettate:

a) che sia concentrata nelle fasce di lavoro a basso reddito, in modo tale da costituire una leva significativa per sostenere redditi netti e quindi consumi interni;

b) che privilegi le imprese che investono in innovazione, tecnologie verdi e conoscenza, e non si applichi in modo generalizzato a tutte le imprese;

c) che sia realizzata nel quadro di una revisione delle detrazioni fiscali e delle aliquote fiscali marginali sui redditi, in modo da introdurre una ben maggiore progressività della tassazione.

Inoltre, taluni interventi sul lavoro, più che sul mercato del lavoro, presenti e da rafforzare nel JobsAct sono essenziali: rappresentanza e diritti, assegno universale, minimi salariali, scuola e formazione. Questi sono volti ad estendere i diritti e le opportunità, coniugando i primi con le seconde; sarebbe una strada opposta a quella delle riduzioni delle tutele del lavoro praticata da decenni. Se si vuole rilanciare la competitività di qualità delle imprese sui mercati, occorre partire da questi nodi.

Convivono poi nel JobsAct idee di politica industriale pubblica per i settori strategici, sia tradizionali e maturi, sia innovativi. Questa non può che essere complementare a politiche macro, e quindi orientata a sostenere, inprimis, la domanda interna, di cui l’impresa percepisce sia la mancanza congiunturale che la rilevanza strutturale. Creare domanda interna senza investimenti pubblici, però, è oggi illusorio ed il lavoro senza questa domanda non si crea. Al contempo, avere una idea di politica industriale significa scegliere come e dove posizionare la nostra manifattura nel mercato globale, in termini di tecnologie, produzioni e domanda, e ciò implica cambiamenti strutturali del sistema economico, non solo crescita della domanda. L’Europa è anche il luogo dove si intende lanciare il nuovo Industrial Compact con l’obiettivo di portare la manifattura al 20% del Pil nel 2020 (EC, 2014) (http://ec.europa.eu/enterprise/initiatives/mission-growth/index_en.htm#h2-1). Anche a questo occorre rapportarsi se non si vuole rischiare l’isolamento ed il declino industriale.

Non dimentichiamo però che l’attivazione di forti investimenti passa attraverso la rimozione dei vincoli di bilancio (3% deficit/Pil e 60% debuto/Pil) (Pini, 2013) (http://www.rivisteweb.it/doi/10.1428/73097) imposti ai paesi dell’eurozona, se non si vuole rimanere ad un puro esercizio retorico. Pensare che le riforme strutturali si realizzino nel rispetto di tali vincoli condanna non solo l’Italia a periferia dell’Europa, ma la stessa idea di Europa.

Solo se tale fosse il senso del JobsAct e la volontà di politica economica che lo sottende, allora vi potrebbe essere spazio per articolarne i precisi contenuti e farne un programma di governo per il “lavoro”. Questo programma dovrebbe essere tale da fornire risposte chiare alle seguenti domande cruciali.

Primo, la visione programmatica del governo Renzi intende condurre l’Italia nella costruzione di un nuovo paradigma industriale fatto di tecnologie verdi e conoscenza (vedi Perez, 2013 (http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S2210422412000743), e Pianta, 2013) (http://www.globalresearch.ca/an-industrial-policy-for-europe/5362751) sulla cui base fondare lo sviluppo della società europea per i prossimi decenni?

Secondo, il modello economico sottostante la visione programmatica riconosce alle istituzioni un ruolo regolatorio e di indirizzo del mercato, che, giova ricordare, è anch’esso una istituzione a cui è delegato il compito di regolare le transazioni tra soggetti economici?

Terzo, si intende recuperare l’idea delle “riforme di struttura” alla Riccardo Lombardi (https://archive.org/details/2013_lombardi), oppure si adotta l’idea regressiva delle “riforme strutturali” che appartengono ad una cultura davvero ottocentesca e pre-keynesiana?

Quarto, si potrebbe prefigurare un ritorno a quell’entrepreneurial state alla Mariana Mazzucato (2013) (http://marianamazzucato.com/projects/entrepreneurial-state/), nel quale la politica economica non si esaurisce nel sostegno della domanda pubblica come componente quantitativa della domanda effettiva, quanto si caratterizza come politica della spesa pubblica che concorre a realizzare le condizioni di specializzazione produttiva e di politica dell’innovazione, come ci ricorda anche Romano (2014) (http://ilmanifesto.it/torna-la-politica-economica/)?

Sappiamo bene che i motivi di preoccupazione sono numerosi, e che probabilmente rintracciare risposte soddisfacenti alle precedenti domande nel programma di governo sarà una impresa ardua, per alcuni versi impossibile. Siamo combattuti tra il pessimismo della regione e l’ottimismo della volontà. Per il primo, non siamo certo confortati dalle modalità con le quali il governo si annuncia. Per il secondo, dobbiamo forse guardare oltre, soprattutto al dopo e al di fuori della prospettiva governativa.

 

Riferimenti
Bruno S. (2014), “Un decalogo per il Piano del Lavoro”, Sbilanciamoci.info, 14 gennaio: http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Un-decalogo-per-il-Piano-del-Lavoro-21658.
Damiano C. et al. (2014), “Decalogo per il Jobs Act”, L’Huffington Post, 17 gennaio: http://www.huffingtonpost.it/cesare-damiano/decalogo-per-il-jobs-act_b_4616154.html.
EC (2014a), “Communication for a European Industrial Renaissance”, EC COM14/2, Brussels, 22 gennaio: http://ec.europa.eu/enterprise/initiatives/mission-growth/index_en.htm#h2-1
EC (2014b), “State of the Industry, Sectoral overview and Implementation of the EU Industrial Policy”, EC SWD 14/3, Brussels, 22 gennaio: http://ec.europa.eu/enterprise/initiatives/mission-growth/index_en.htm#h2-1
Fassina et al. (2014), “Memo per il programma di un governo di svolta”, The Huffigton Post, 8 febbraio: http://www.huffingtonpost.it/stefano-fassina/memo-x-il-programma-di-un_1_b_4751051.html
Ichino P. (2014), “Semplificazione e Flexsecurity”, pietroichino.it: http://www.pietroichino.it/?p=1079
Lombardi R. (2013), “Lombardi 2013”, convegno Fondazione Basso, 10-11 aprile, Roma: https://archive.org/details/2013_lombardi
Mazzucato M. (2011, 2013), The Entrepreneurial State. Debunking Public VS Private Sector Myths, Anthem Press, Londra, New York: http://marianamazzucato.com/projects/entrepreneurial-state/
Perez C. (2013), “Unleashing a Golden Age after the Financial Collapse: Drawing Lessons from History”, Environmental Innovation and Societal Transitions, vol.6, marzo, pp.9-23: http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S2210422412000743.
Pianta M. (2013), “An Industrial Policy for Europe”, Paper alla “19th Conference on Alternative Economic Policy in Europe”, Londra, 20-22 settembre, in Global Research: http://www.globalresearch.ca/an-industrial-policy-for-europe/5362751.
Pini P. (2013), “What Europe Needs to Be European”, Economia Politica, vol.30, n.1, pp.3-12: http://www.rivisteweb.it/doi/10.1428/73097
Romano R. (2014), “Torna l’economia”, il Manifesto, 10 gennaio: http://ilmanifesto.it/torna-la-politica-economica/.
Sinopoli F. (2014), “Appunti su contratto unico e articolo 18 aspettando il «Job act»”, Associazione Paolo Sylos Labini, 10 gennaio: http://www.syloslabini.info/online/appunti-su-contratto-unico-e-articolo-18-aspettando-il-job-act/.
 
 
 
 
 

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