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Il fascioliberismo
Sulla sintonia tra pensiero liberale e prassi autoritarie
di Francesco Sticchi*
La disintegrazione controllata dell’economia mondiale è un obiettivo legittimo per gli anni Ottanta”, affermò Paul Volcker, presidente della FED. Ed è proprio sulla soglia degli anni Ottanta che si svolge Armageddon Time (James Gray, 2022). In uno dei momenti più intensi del film, il “buon” padre di famiglia Irving (Jeremy Strong) confessa al piccolo protagonista Paul (Banks Repeta) di non essere stato un genitore ideale, di odiare le ingiustizie e le diseguaglianze e, allo stesso tempo, di non sapere cosa fare per affrontarle. Il suo monologo continua sottolineando che la vita ha dato a Paul una seconda chance: ha scampato per un soffio il carcere minorile per l’ennesima “monellata” pre-adolescenziale compiuta con l’amico Johnny (Jaylin Webb), il quale, in quanto nero e povero non avrà scampo e si addosserà tutte le colpe del piccolo crimine (il furto di un computer della scuola privata di Paul), accettando un destino segnato da marginalità ed esclusione.
Paul deve, come un contemporaneo Pinocchio, fare tesoro di questa possibilità, smetterla con il sogno di diventare pittore e dedicarsi a studiare qualcosa di serio con la prospettiva di avere un futuro migliore di quello dei suoi; aspirare alla mobilità sociale, al non doversi inchinare di fronte a qualcuno per elemosinare le speranze di una vita “buona”, stabile e sicura (ciò che dovrebbe essere garantito per diritto). Questo monologo/dialogo fra padre e figlio potrebbe essere facilmente associato e comparato a tanti scambi presenti nella storia del cinema (e non solo) con a tema la perdita dell’innocenza, l’inizio dell’età adulta e l’entrata nel mondo reale (e delle responsabilità).
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Ipocrisia sulla guerra
di Sergio Farris
Il 2023 si è aperto con un nuovo rilancio, da parte occidentale, dell'escalation militare nel confronto con la Federazione russa. Il Parlamento italiano ha votato a favore del sesto atto per l'invio di materiale bellico a Kiev.
Se non altro, dovrebbe risultare ancora una volta più nitido che dal centro dell'impero – gli USA – non si mira nel breve termine a una trattativa di pace che possa porre termine al conflitto in Ucraina.
Vinte le resistenze tedesche riguardanti l'approvvigionamento di carri armati Leopard–2 a Zelens'kyj e approvati nuovi provvedimenti di 'aiuti' finanziari e militari da immettere nel 'pozzo senza fondo' ucraino, restano pochi dubbi sul fatto che laddove la nostra classe dirigente parla di 'pace', il termine va decodificato come 'sconfitta, ritiro incondizionato dei russi e integrazione dell'Ucraina nell'ambito di influenza occidentale'.
Si alimenta una continua 'escalation' ma la si definisce ricerca della 'pace giusta'.
D'altronde, fin dal 24 febbraio del 2022 ambiguità e simulazioni semantiche sono parte integrante del racconto sulla guerra che il nostro sistema comunicativo ha avuto cura di propalare.
Il nostro apparato mediatico, riflettendo la posizione politico – culturale prevalente, ha continuamente alimentato ad arte un'interpretazione dell'evento bellico nell'est–Europa tale da trascinare l'opinione pubblica verso una presa di posizione acritica e assolutamente faziosa. Sono stati artificiosamente delineati due campi: quello dei probi democratici filoatlantisti e quello degli esecrabili filoputiniani. Chi, in questi mesi, ha cercato di riconoscere il contrasto di interessi geopolitici al fondo del conflitto, è stato condannato – per direttissima – a far parte del campo dei simpatizzanti del potere russo e, più in generale, di regimi dittatoriali.
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Globalizzazione addio. Ormai è un coro…
di Francesco Piccioni, Guido Salerno Aletta*, Andrea Indini**
Sul fatto che il periodo della cosiddetta globalizzazione sia finito sembra ormai che ci sia un consenso generale. Ma quando si passa dalla constatazione in termini generali, o teorici, agli aspetti concretamente materiali i problemi escono fuori a decine. E tutti di dimensioni “sistemiche”. Ossia, enormi…
In questo articolo vi presentiamo due contributi molto diversi, per contenuto e impostazione, che però convergono nel delineare una situazione economica – per l’Occidente neoliberista – che si va facendo insostenibile. Ma che è stata costruita e preparata proprio dalle scelte compiute dai capitali vincenti, negli ultimi 30 anni.
Ossia dalle multinazionali e dal capitale finanziario “occidentale” (o “euro-atlantico”, come preferiva dire uno dei suoi principali esponenti, mr. Mario Draghi).
Il sempre attento Guido Salerno Aletta, su TeleBorsa, rimette con i piedi per terra l’analisi da fare sulla “rottura” della globalizzazione. Niente geopolitica, che pure ha il suo ruolo, ma ridefinizione delle “catene del valore” a livello mondiale, a cavallo della pandemia da Covid – che le ha pesantemente interrotte e perturbate – e della improcrastinabile “transizione tecnologica” verso una produzione meno devastante in termini ambientali.
“Eravamo abituati così nella manifattura: i bassi costi delle materie prime e delle forniture intermedie consentivano di concentrare la maggior parte del valore aggiunto e quindi dei profitti nell’ultima fase di integrazione dei prodotti, quella che si interfaccia con il consumatore.
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Quali sono le ragioni della guerra della Russia?
di Paul Schreyer
Putin vuole costruire un impero o garantire la sovranità e l’esistenza della Russia? Questa domanda, dalla cui risposta dipende la valutazione della guerra, è ancora poco discussa nei grandi media. Probabilmente perché tutti pensano di conoscere già la risposta. Ma questa certezza può essere politicamente devastante. Una ricerca di indizi
Il 27 febbraio 2022, tre giorni dopo l’inizio della guerra, il cancelliere Scholz ha dichiarato nel Bundestag (video) che il presidente russo stava guidando l’attacco contro l’Ucraina “per una sola ragione”: “La libertà degli ucraini mette in discussione il suo regime oppressivo”. Putin vuole quindi “cancellare un paese indipendente dalla mappa del mondo”, “riorganizzare fondamentalmente le condizioni in Europa secondo le sue idee” e “stabilire un impero russo”.
Da allora, la politica tedesca si è basata su questa argomentazione del Cancelliere, che alla fine è culminata nella decisione degli ultimi giorni di consegnare pesanti carri armati all’Ucraina. I carri armati tedeschi stanno rotolando di nuovo contro la Russia, come lo furono l’ultima volta nel 1941-1945 .
L’argomentazione di Scholz è coerente con l’interpretazione degli Stati Uniti, vi somiglia alla lettera. Tuttavia, è scarsamente o per niente documentato. John Mearsheimer, nato nel 1947 e uno dei politologi più rinomati a livello internazionale, lo ha sottolineato in un saggio dettagliato nel giugno 2022 :
“Si dice che [Putin] abbia ambizioni imperiali: vuole conquistare l’Ucraina e altri paesi per creare una Grande Russia che abbia qualche somiglianza con l’ex Unione Sovietica. In altre parole, l’Ucraina è il primo obiettivo di Putin, ma non l’ultimo. (…) Sebbene questa narrazione sia ripetuta più e più volte nei media mainstream e praticamente da tutti i leader occidentali, non ci sono prove a sostegno. (…)
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L’afonia di un disagio politico-esistenziale
Le società occidentali e la marginalità dell’intelligenza critica
di Gaspare Nevola
Le società occidentali contemporanee racchiudono un disagio spesso afono. Un disagio che nasce dalla storia (anche solo quella recente) e da spinosi problemi irrisolti da una società a dominanza neoliberale che reagisce rimuovendoli, equivocandoli o (più o meno dolcemente) reprimendoli. Un’afonia figlia della marginalità sociale, politica e culturale dell’intelligenza critica. Di questo trattano le riflessioni che qui consegno al lettore.
1. Da dove veniamo?
Su quale strada camminano le società occidentali? Quale cultura politica prevale nelle nostre liberaldemocrazie sotto tensione? A partire dagli anni ’70 dello scorso secolo, la cultura politica dominante tra le élites e, progressivamente, anche a livello di massa si è inchinata al modello di vita ispirato dal neoliberalismo. A ritmo incalzante, il neoliberalismo ha impresso il suo marchio al modo di concepire l’economia e la vita politica, il diritto e la cultura, le relazioni collettive e tra le persone.
Dopo la Seconda guerra mondiale, gli Stati occidentali conobbero trent’anni di crescita economica e di diffusione del benessere sociale: sono i “trenta gloriosi” portati alla ribalta dallo storico Hobsbawm nel suo noto Il secolo breve[1]. Siamo all’epoca del “consenso keynesiano”, quando lo Stato interviene massicciamente (e con plauso trasversale tra gli schieramenti politici) a sostegno dei settori strategici dell’economia, a sostegno dell’occupazione, dello sviluppo economico e dei sistemi di tutela sociale delle fasce più deboli della popolazione. Nasce il moderno welfare state e i diritti sociali (istruzione, sanità, pensione, assistenza e sussidi sociali, tutela dei lavoratori) entrano a far parte del sistema democratico della cittadinanza[2].
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Il pensiero di Xi Jinping come marxismo del Ventunesimo secolo
di Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli
B. Brecht: il comunismo “è la semplicità che è difficile a farsi”.
V. I. Lenin: “l’esito della lotta” (tra comunismo e imperialismo) “dipende in ultima analisi dal fatto che la Russia, l’India, la Cina costituiscono l’enorme maggioranza della popolazione” (mondiale).[1]
He Yiting: “finché il socialismo cinese non cadrà, il socialismo del mondo starà sempre in piedi. Oggi, il grande successo ottenuto dal socialismo con caratteristiche cinesi ha permesso di scrivere il capitolo più splendido dei 500 anni di socialismo mondiale”.[2]
Il pensiero di Xi Jinping come marxismo del Ventunesimo secolo
Dopo la celebrazione da parte di Xi Jinping del bicentenario della nascita di Marx un importante dirigente del partito comunista cinese, il compagno Wang Huning, aveva affermato nel maggio del 2018 che il pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era ha “arricchito e sviluppato il marxismo con una serie di importanti visioni e pensieri originali e strategici”, ed è il “marxismo nella Cina contemporanea e del Ventunesimo secolo”.[3]
Nel giugno del 2020 l’importante rivista teorica Tempi di studio pubblicò un articolo del vicepresidente della prestigiosa Scuola centrale del partito comunista cinese, He Yiting, nel quale si affermò nuovamente che il pensiero di Xi Jinping equivaleva al “marxismo per il Ventunesimo secolo”.
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La farsa degli accordi di Tripoli
di Antonio Pertuso
Nel panorama scontato e privo di riflessioni dell’informazione italiana sulla visita del Presidente del Consiglio Meloni in Libia due articoli, entrambi apparsi su “L’Antidiplomatico” hanno fornito un minimo di salutare controcanto:
♦ uno a firma di Michelangelo Severgnini – il pezzo “8 miliardi dalla Meloni a Tripoli per finanziare migrazione e terrorismo”, comparso sul sito “L’Antidiplomatico”(vedi → https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-8_miliardi_dalla_meloni_a_tripoli_per_finanziare_migrazione_e_terrorismo/41939_48605/ )
♦ e l’altro di Giacomo Gabellini: – Il “Piano Mattei” tra realtà e propaganda. –https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-il_piano_mattei_tra_realt_e_propaganda/39130_48635/
Poiché la questione delle forniture energetiche dalla Libia è un tema di vitale importanza per l’Italia è bene rimanere in argomento e correggere per primo alcune imprecisioni ed errori.
Gli otto miliardi del titolo di Severgnini non sono fondi che vanno (anzi, andrebbero) alle milizie ma investimenti in impiantistica per lo sviluppo di un giacimento marino di gas.
In realtà, come vedremo in seguito, questi fondi non si materializzeranno mai, perché gli accordi firmati a Tripoli sotto gli occhi della Meloni non sono che una farsa, una commedia degli inganni dove ciascuno sa di mentire, per la sua parte, e che gli altri pure mentono, ma non sa bene in che cosa mentano.
Per il resto l’indignazione di Severgnini è davvero legittima, lo schiavismo migratorio ha una causa politica ma conviene approfondire meglio anche le dinamiche economiche.
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Come gli Stati Uniti hanno messo fuori gioco il gasdotto Nord Stream
di Seymour Hersh
Qui di seguito l’inchiesta curata dal veterano del giornalismo investigativo, Seymour Hersch, sul sabotaggio del gasdotto russo/tedesco Nord Stream da parte degli incursori statunitensi. Una verità già evidente a tutti ma non rivelata per salvaguardare l’alleanza NATO e il fronte bellicista sulla guerra in Ucraina. Ma di fronte a questa verità adesso rivelata, il governo o il popolo tedesco potranno continuare a far finta di niente?
Il Diving and Salvage Center della Marina degli Stati Uniti si trova in un luogo oscuro come il suo nome, in quello che una volta era un viottolo di campagna nella zona rurale di Panama City, una città di villeggiatura ora in piena espansione nella parte sud-occidentale della Florida, 70 miglia a sud del confine con l’Alabama.
Il complesso del centro non è descrittivo come la sua ubicazione: una struttura in cemento scialbo del secondo dopoguerra che ha l’aspetto di una scuola superiore professionale nella zona ovest di Chicago. Una lavanderia a gettoni e una scuola di danza si trovano dall’altra parte di quella che ora è una strada a quattro corsie.
Il centro ha addestrato per decenni sommozzatori in acque profonde altamente qualificati che, una volta assegnati alle unità militari americane in tutto il mondo, sono in grado di effettuare immersioni tecniche per fare il bene – utilizzando esplosivi C4 per liberare porti e spiagge da detriti e ordigni inesplosi – e il male, come far saltare in aria piattaforme petrolifere straniere, sporcare le valvole di aspirazione delle centrali elettriche sottomarine, distruggere le chiuse di canali di navigazione cruciali.
Il centro di Panama City, che vanta la seconda piscina coperta più grande d’America, era il luogo perfetto per reclutare i migliori, e più taciturni, diplomati della scuola di immersione che l’estate scorsa hanno fatto con successo ciò che erano stati autorizzati a fare a 260 piedi sotto la superficie del Mar Baltico.
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La duplice devalorizzazione del valore. Verso la crisi storica del denaro
di Robert Kurz
Pubblichiamo la traduzione di Samuele Cerea del cap.XVII di Geld ohne Wert, ultimo libro pubblicato in vita da Robert Kurz, preceduta da una breve introduzione del traduttore
L’ultimo saggio ultimato da Robert Kurz, Geld ohne Wert, rappresenta un tentativo ambizioso di rinnovare la critica dell’economia politica di Marx in una prospettiva eterodossa di superamento rispetto all’originaria esposizione de Il Capitale. Il capitolo XVII del testo si focalizza sulla crisi del denaro come aspetto specifico della crisi generale della valorizzazione capitalistica.
A cosa serve il denaro? Come è noto, per la teoria economica si tratta di uno strumento indispensabile in una società che si fonda su di un regime generalizzato di transazioni economiche. Secondo i manuali di economia il denaro funziona da mezzo di pagamento, unità di conto e misura e riserva del valore. In cosa consiste però il valore del denaro? Cosa si intende dire quando si afferma che esso ha un valore? Rappresenta effettivamente il valore in senso sostanziale, oggettivato? Oppure il valore del denaro si esaurisce semplicemente nella sua funzione di mediazione tra diversi beni nella sfera del mercato, soggetta alla legge della domanda e dell’offerta, sotto la garanzia dello Stato?
Nell’argomentazione di Kurz la mediazione di un denaro simbolico, privo di valore, può avere senso solo in una società fatta di produttori indipendenti che si limitano a scambiarsi vicendevolmente beni materiali in una nicchia di mercato. Ma con l’avvento della società capitalistica questa relazione si inverte: sono i beni materiali ad essere un termine medio in seno ad un movimento che mira ad incrementare una certa quantità di denaro iniziale. In questo senso il denaro diviene qui l’alfa e l’omega del processo produttivo (di valore). Di conseguenza esso non è più un semplice mediatore ma si converte nello scopo dell’intero processo sociale. Come afferma Kurz ne Il Capitale-mondo “l’economicizzazione del mondo equivale alla sostanzializzazione del denaro”.
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ChatGPT
di Pino Donghi
A stupire è lo stupore. Ma davvero c’era qualcuno che poteva dubitare che diventasse disponibile prima o poi – più prima che poi – un aggeggio come ChatGPT ? Davvero non ci eravamo accorti che Google translate, da un po’ – ormai da un bel po’ – aveva smesso di farci sbellicare, leggendo le improbabili traduzioni che ci proponeva agli esordi, per diventare un arnese assai utile, per molti di quotidiano utilizzo? È David Quammen, nel suo recentissimo Senza respiro, a raccontare di come la notte di Capodanno del 2020 Marjorie Pollock, vice-direttrice di un servizio di segnalazione epidemiologica, trovato un servizio giornalistico su un affidabile sito d’informazione in lingua cinese, lo copia in un sistema di traduzione automatica sul suo pc e capisce, per la prima volta, che un nuovo agente patogeno della famiglia dei Coronavirus sta per travolgere le nostre esistenze. Just simple as that: funziona!
La domanda è come. E la risposta, a far data più o meno dagli inizi degli anni ’90 del secolo scorso, è: senza teoria! Nel caso di Google translate senza una teoria scientifica del linguaggio, senza simboli e senza logica; senza una teoria anatomica del volto, se ti chiami Clearview e vendi servizi di face recognition alle forze di polizia, utilizzando invece 3 miliardi di immagini disponibili sui social media (e poi, via di forza bruta, via di potenza di calcolo). Se ti chiami Cambridge Analytica… beh, lo sapete già! Ma c’è anche un inquietante IBorder Ctrl che un annetto e mezzo fa verificava la possibilità di usare un software automatico per intervistare i rifugiati ai confini, così da leggere micro espressioni del volto e scoprire eventuali dichiarazioni menzognere: e se vi si è acceso il fotogramma… sì, proprio come in Blade Runner (il cui futuro remoto era il 2019).
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Tra limiti e possibile: un’antropologia per l’era complessa
di Paolo Bartolini
L’identità è un’opera, un farsi continuo, che non coincide mai con un “dato definitivo” e nemmeno può ambire a “essere tutto”. Ecco la complessità, che piaccia o meno
Chiunque viva con disagio la deriva antropologica e sociale a cui il tecno-capitalismo ci condanna, sa bene che le forze in campo per una democrazia insorgente sono frammentate, spesso in contrasto tra loro, vittime di un misto epocale di impotenza e agitazione frenetica. Una finta sinistra immemore dei suoi valori fondativi, e una destra neoliberale onnipervasiva, hanno stabilizzato, da almeno quarant’anni a questa parte, un gioco di specchi tossico che sfocia – come avrebbe detto Domenico Losurdo – in un sostanziale monopartitismo competitivo. “Privatizzare i profitti, socializzare le perdite” è il diktat che rimane al centro delle azioni delle élite contemporanee, quelle neocon e quelle che sul versante dei diritti civili e del costume si autodefiniscono progressiste.
Anche la gestione confusa e autoritaria della sindemia Covid-19 testimonia il fatto che il pilota automatico neoliberale, nella fantasia dei ceti dominanti, non può essere disinnescato per quanto riguarda le sue coordinate essenziali. Il mondo multipolare è già tra noi e il declino del blocco angloamericano impatta con questa transizione gigantesca, nella vana speranza di poter arrestare un riequilibrio tra le potenze mondiali. Da qui la violenza del nostro tempo, dove – voglio essere chiaro – non ci sono “buoni” e “cattivi”, ma diversi modi di esercitare il dominio, più o meno “liberal” eppure omogenei per quanto riguarda il loro scopo ultimo: conservare, a favore di pochi, gerarchie e asimmetrie funzionali al sequestro del valore prodotto dalla collettività. Le logiche di potenza della geopolitica sono il problema, insieme alle concentrazioni di denaro che riguardano multinazionali, mass media, centri finanziari e così via. La gestazione di un mondo nuovo è turbolenta, minacciata da numerosi interessi contrapposti.
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L’albero dello stato di diritto e la foresta diseguale
di Noi non abbiamo patria
Il 20 dicembre 2022 immediatamente dopo il pronunciamento della Corte Costituzionale sul caso Cospito questo blog ha pubblicato un articolo dal titolo Alfredo Cospito: innocente. Con questo titolo si voleva contrastare la retorica dello Stato che confermava la più dura delle condanne contro l’anarchico colpevole delle sue azioni di terrorismo. Le azioni di Alfredo Cospito, viceversa, condensano la necessità impersonale di un moto di ribellione degli indistinti individui nei confronti di un sistema generale di sfruttamento e che da questo sistema generale impersonale sono schiacciati. Dunque, al centro della questione era viceversa chi fosse il terrorista, se l’individuo anarchico oppure un modo di produzione fondato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e della natura, il cui fine è la l’accumulazione del valore in poche mani. E se è questo l’oggetto, allora Cospito è innocente con tutte le attenuanti del caso, ma viene punito duramente per mandare un segnale di paura a chi sta fuori dal carcere e vive nella più generale prigione sociale del XXI secolo.
Una attenzione ad un tema che si è rivelato essere una goccia nell’oceano, mentre l’oggetto affrontato dalla battaglia intrapresa a sostegno dall’anarchico Cospito in carcere e che attraversa trasversalmente il dibattito sui giornali, nelle dichiarazioni di giuristi, intellettuali e nelle piazze sta andando decisamente e concretamente in un verso contrario.
Alfredo Cospito, consapevole di essere duramente colpito dalla repressione dello Stato, giustamente lotta con i mezzi che può – anche a costo della propria vita – contro l’infame stato di detenzione punitivo che a lui è imposto, appunto per motivi essenzialmente politici.
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A proposito di Enzo Traverso, Rivoluzione. 1789-1989: un’altra storia
di Maurizio Ricciardi
Enzo Traverso, Rivoluzione. 1789-1989: un’altra storia, Milano, Feltrinelli, 2021
Il saggio di Enzo Traverso sulla storia delle rivoluzioni si colloca all’interno, e forse all’apice, del suo lungo lavoro di ricostruzione di alcuni elementi costitutivi della storia politica e intellettuale dell’ultimo secolo. L’indagine sul concetto di totalitarismo1, la ricerca sulla genesi e le strutture fondamentali della violenza nazionalsocialista2, gli studi sulla svolta conservatrice che ha mutato il segno politico dell’ebraismo nella cultura mondiale3 sono passaggi importanti per comprendere il percorso che porta a questo testo, nel quale l’intento dichiarato di Traverso è di riabilitare il concetto moderno di rivoluzione dopo e nonostante tutti i suoi fallimenti4. L’estetica del naufragio che apre il volume è da questo punto di vista assolutamente significativa. Le pagine dedicate a La zattera della Medusa di Théodore Géricault annunciano molti dei temi destinati a ritornare successivamente nel testo. L’analisi iconologica proposta da Traverso si sofferma sui molti soggetti che non hanno trovato posto sulle navi che si sono allontanate dalla tempesta, lasciando indietro «marinai, soldati, operai e falegnami, rappresentanti delle classi inferiori». Assenti le donne, il marinaio nero - ritratto solo di schiena - diviene il significante di chi è stato relegato ai margini dal concetto contemporaneo di rivoluzione, se non posto completamente al di fuori della sua scena principale. L’intera ricostruzione inizia così mostrando, letteralmente, l’ipoteca che grava sull’intero sviluppo dei processi rivoluzionari.
La scelta di partire dal quadro di Géricault non è estemporanea, dal momento che l’intero testo è arricchito da un apparato iconografico, utilizzato costantemente come parte integrante della spiegazione storica.
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Russia in Africa: de-dollarizzazione e multipolarismo
di Fabrizio Verde
Il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha recentemente effettuato un importante e significativo tour in Africa, nell'ambito della strategia globale della Russia di spostamento strategico verso l'Oriente e il Sud del mondo. Si tratta della seconda visita per Lavrov nel Continente Nero dall'inizio dell'operazione militare speciale: durante la prima visita il più alto diplomatico della Russia ha visitato Egitto, Repubblica del Congo, Uganda ed Etiopia alla fine di luglio dello scorso anno. Quest’anno invece si è recato in Sudafrica, Eswatini, Angola ed Eritrea.
Mentre l'anno scorso Lavrov aveva discusso con gli africani soprattutto di sicurezza alimentare, quest'anno il ministro ha invitato i capi di Stato africani a visitare la capitale settentrionale della Russia in estate, dove le parti presumibilmente prenderanno in considerazione lo sviluppo di progetti economici comuni, nell’ambito dello sviluppo di quel multipolarismo senza aspirazioni coloniali portato avanti da Mosca insieme con la Cina.
Il ministro russo ha fatto la sua prima tappa a Pretoria, in Sudafrica, dove ha incontrato la collega Naledi Pandor e il presidente del Paese Cyril Ramaphosa. Aprendo l'incontro con Lavrov, il ministro Pandor ha evidenziato il grande interesse dei giornalisti locali per la sua persona. "Oggi abbiamo così tanti giornalisti, questo è ovviamente indice del fatto che lei è un uomo e un ministro molto popolare. Non abbiamo mai avuto così tante persone tra il pubblico”, un ulteriore prova di quanto sia fallace la narrazione occidentale che pretende di dipingere una Russia isolata sullo scacchiere internazionale e fortemente impopolare.
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Poche parole chiare sul caso Cospito
di Michele Castaldo
Sta facendo molto rumore il cosiddetto caso Cospito: i poteri dello Stato si rimbalzano le responsabilità, i partiti politici si azzuffano, il governo di centro-destra o destra si compatta, la cosiddetta sinistra va allo sbando e con essa anche il cosiddetto estremismo di sinistra, mentre gli anarchici tendono a coalizzarsi. La questione che sta facendo tanto discutere è la condizione del carcere duro del 41 bis. In un bailamme del genere riuscire a raccapezzarci qualcosa è abbastanza difficile per chi vorrebbe tenere la barra dritta di una visione anticapitalistica, che vuol dire antisistema, in una fase di per sé molto complicata. Ma, come dire, è la storia che impone delle divaricazioni.
Chiariamo perciò da subito che se la questione si ponesse nei termini di schierarsi, con lo Stato o con gli anarchici, non ci sarebbe dubbio alcuno a stare contro lo Stato che interpreta le leggi del capitale contro gli sfruttati, gli emarginati e gli immigrati per salvaguardare l’accumulazione. Questo in primis, in secundis da sempre l’oppressione e lo sfruttamento ha provocato schegge di ribellioni individuali che spesso sono state teorizzate come concezione anarchica. Dunque da una parte c’è il potere costituito e dall’altra le espressioni di riflesso agente a un dominio ritenuto a giusta ragione oppressivo. Pertanto chi non si rivede nell’ordine costituito è immediatamente attratto da chi in un modo o nell’altro lo combatte. Ovviamente – questo è un punto dirimente – si è sempre disposti a sostenere la causa di chi viene represso, come nel caso di Sacco e Vanzetti negli Usa o di Pinelli nel ’69, mentre si è titubanti di fronte ad atti e gesti cosiddetti terroristici, ovvero di piccoli attentati che però vengono ingigantiti e utilizzati dal potere costituito per scoraggiare ogni tipo di mobilitazione sociale sul problema che causa l’atto “terroristico” o anarchico.
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Di fronte alla quarta guerra mondiale1
di Claudia Pozzana e Alessandro Russo
Una guerra globalizzata prolifera nell’attuale “disorientamento del mondo”, come lo chiama Alain Badiou,2 e al tempo stesso lo riduce all’impotenza, perfino alla complicità. Assistiamo ai prodromi di una guerra, di cui cominciamo appena a valutare la peculiare novità in termini di distruttività e di estensione, destinata a perdurare e aggravarsi per molti anni, perfino decenni. Per ritrovare il filo di un orientamento, cioè per pensare politicamente questa guerra, occorre ampliare l’orizzonte a nuovi riferimenti intellettuali, e riconsiderare le precedenti idee sulla guerra e sui suoi inestricabili rapporti con la politica.
La guerra nel mondo umano ha una specifica storicità. Sorge in una fase cruciale dello sviluppo dell’umanità, il neolitico, e ha come condizioni fondamentali l’appropriazione privata, inclusa quella delle donne nella famiglia, e la formazione di apparati statali separati che detengono il monopolio della violenza. Gli argomenti di Engels su questo punto restano preziosi.
Le guerre hanno sempre avuto come obbiettivo l’assoggettamento di un nemico al quale sottrarre una proprietà, o impedire di estendere la sua. Che nella mitologia omerica la guerra per antonomasia abbia come posta in gioco la proprietà di una moglie mostra quanto intricate, e al tempo stesso brutalmente semplici, siano le radici della guerra.
Cionondimeno la guerra non deriva da una presunta natura umana, tanto meno da una sua “animalità”. Essa ha una portata infinitamente più distruttiva e sproporzionata di tutte le forme di aggressività che strutturano, da sempre, il mondo degli esseri viventi. La guerra, invece, ha avuto un inizio e può avere una fine, a condizione che l’umanità riesca a inaugurare un’era completamente nuova.
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Sulla relazione tra classe ed egemonia1
di Javier Balsa*
«La fede nei concetti solidi, da un lato, e nella certezza delle cose reali, dall’altro, sono all’origine delle posizioni antidialettiche più inveterate»2.
Nell’ambito dell’analisi politica, c’è una domanda che mi preoccupa da molto tempo: perché negli ultimi decenni c’è stato un abbandono degli approcci classisti, anche da parte degli analisti e delle analiste di “sinistra”? Pochi sembrano ricordare la formulazione di Karl Marx secondo cui, nonostante «a prima vista» le controversie politiche nella Francia di metà Ottocento sembrassero una lotta tra monarchici e repubblicani, tra la reazione ed «i “diritti eterni dell’uomo”», «se si considerano la situazione e i partiti più da vicino, questa apparenza superficiale, che nasconde la lotta di classe e la peculiare fisionomia di questo periodo, scompare.. .»3.
Due sono le cause relativamente riconosciute di questa dimenticanza'. la progressiva riduzione dell’incidenza diretta dell’appartenenza di classe sul comportamento politico, e la crisi dello stesso progetto socialista, che ha fatto perdere la fiducia che la classe operaia fosse la classe dirigente di un processo anticapitalista4. Tuttavia, credo che ci sia una terza causa: la stessa complessità della disputa per l’egemonia è ciò che rende difficile leggere la lotta politica in termini di lotta di classe; difficoltà che è stata aggravata dall’abbandono di una prospettiva dialettica.
Due fattori influenzano questa difficoltà a collegare egemonia e classi. Da un lato, la stessa lotta per l’egemonia contiene una componente universalistica e una discorsività retorica che, intenzionalmente, tendono a non spiegare le sue basi di classe. E, d’altra parte, lo scarso sviluppo di una teoria sistematica dell’egemonia ha generato un deficit concettuale per affrontare il rapporto tra classe e lotta per l’egemonia.
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La resistenza deve unirsi
Pas Liguori intervista Jamal Zakout
Di fronte all’escalation dell’avanzata politica dell’estrema destra, di quella territoriale delle colonie e della violenza del regime israeliano di Apartheid, noi Palestinesi non possiamo più permetterci di restare divisi. Unità non vuol dire essere gli uni copia dell’altro, abbiamo bisogno delle nostre diversità per tradurle in potenza e non in debolezza. In questa ampia intervista di Pasquale Liguori, illustrata dalle sue splendide foto, Jamal Zakout – uno dei leader della prima Intifada, scrittore e presidente di un importante centro di studi e ricerche politiche a Ramallah – analizza in profondità le ragioni e le complicità che segnano la continuità e la ferocia dell’aggressione israeliana sul suo popolo. Il punto di vista che esprime, tuttavia, non è affatto reticente sulle debolezze politiche e i gravi errori storici che la classe politica palestinese ha compiuto per decenni, e continua a compiere, convinta, nella migliore delle ipotesi, che la perenne subalternità alla potenza occupante e ai suoi alleati e protettori avrebbe portato a una riduzione delle violenze e a un allargamento dei diritti. D’altra parte, l’alternativa politica prospettata da Hamas, con l’accusa di tradimento e la resistenza fino al martirio, non ha mai prodotto risultati migliori. Entrambe le strategie, dice Zakout, hanno marginalizzato la profondità della prima Intifada, il movimento e il potere popolare palestinese, cioè la base collettiva per la costruzione di un futuro. Oggi più che mai, il primo passo è quello di una vera ricostruzione dell’unità di popolo, finalmente libera da interessi di fazione, logiche politiciste di potere e corruzione, ma serve un radicale e profondo cambiamento di rotta e cultura politica
Ho conosciuto Jamal Zakout nel corso di un recente viaggio politico in Cisgiordania organizzato da Assopace Palestina presieduta da Luisa Morgantini, già vicepresidente del Parlamento Europeo.
Jamal è stato uno dei leader della prima Intifada. Uomo politico e scrittore, è presidente del Centro Studi e Ricerche politologiche ARD in Ramallah. Zakout ha ricoperto il ruolo di consigliere senior dell’ex primo ministro palestinese Fayyad ed è stato protagonista in vari organismi del panorama politico palestinese.
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Humanities in distress
di Andrea Sartori
L’appello di Serenella Iovino rivolto alla sinistra a fare “qualcosa di darwiniano” (“la Repubblica”, 31 ottobre, 2022), può valere tanto per l’Italia quanto per il Paese che l’8 novembre s’appresta a delle elezioni di midterm, le quali si preannunciano problematiche per i dem e in generale per la cultura liberal d’oltreoceano.
Iovino, è ovvio, non ha in mente l’immagine di Charles Darwin pressoché caricaturale, che del naturalista britannico è spesso propagandata da chi lo elegge a teorico della brutale legge del più forte. Chi s’assesta su tale posizione, infatti, omette di considerare che il realismo darwiniano è reso umano da un impianto teorico anti-dogmatico e dalla fortuità delle variazioni dei caratteri, da un radicale scetticismo nei confronti dell’assolutismo filosofico e della mitologia dell’origine, e dalla propensione ad accogliere nel metodo dell’indagine scientifica l’imprevedibilità dell’accostamento metaforico e la creatività (anche letteraria) dell’analogia. Si pensi ad esempio, a quel che nel primo decennio del ventesimo secolo scriveva di Darwin un campione della pedagogia democratica americana come John Dewey (The Influence of Darwinism on Philosophy and Other Essays, New York, H. Holt and Co., 1910).
Iovino, d’altra parte, non cessa di ricordare che per l’autore de On the Origin of Species (1859) l’evoluzione è un problema di competizione e, insieme, di cooperazione (o di “alberi”, per stare sempre a Darwin, ma anche di reti e networks di spessore, per rifarsi invece alle riflessioni di Joseph A. Buttigieg concernenti la scrittura dei Quaderni di Antonio Gramsci; si veda Gramsci’s Method, “boundary”, 17, 2, 1990, 65).
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Lezioni di guerra
di Enrico Tomaselli
Ogni guerra non è soltanto il tentativo di risolvere ‘manu militari’ un conflitto, ma anche molto altro. È un test di verifica, che dice di come una nazione affronta e risolve le controversie internazionali, è un banco di prova per sistemi d’arma, dalla cui prova sul campo deriverà o meno il successo ‘di mercato’. Ma è soprattutto il terreno su cui le dottrine militari, le tattiche di combattimento degli eserciti, subiscono il vaglio implacabile della prova del fuoco, e da cui scaturiscono poi le ‘evoluzioni’ successive dell’antica arte della guerra. E come sempre, c’è chi impara la lezione e chi no.
I Leopardi di Abramo
Alla fine, i contorni della triste sceneggiata si sono delineati con sufficiente chiarezza. Benché gli USA ne dispongano a migliaia, i 31 MBT (main battle tank) M1A2 Abrams promessi all’Ucraina, verranno forniti nell’ambito di un progetto di costruzione apposita (privi della protezione in uranio impoverito), e quindi la consegna avverrà non prima della fine dell’anno in corso, se non nel 2024. La messa in scena – persino ridicola nel suo velocissimo sviluppo – si era resa necessaria perché Scholz, già sottoposto a fortissime pressioni da parte sia di membri del suo governo che di alleati europei, chiedeva che l’invio degli MBT Leopard 2 tedeschi avvenisse contestualmente a quello di MBT americani. Ovviamente, alla fine i carri tedeschi andranno subito, quelli made in USA forse tra un anno…
Ma la questione vera, qui, è duplice; a prescindere dalla sfacciata manovra americana, che punta a svuotare gli eserciti europei per poi rimpinguarli nuovamente con commesse all’industria militare USA, qual è l’impatto che questi carri potranno avere sul conflitto, e perché gli USA non hanno alcuna voglia di inviare i propri Abrams?
Cominciamo col dire che il Leopard è un carro concepito negli anni 80, che a suo tempo ha avuto un grande successo commerciale (l’hanno acquistato molti paesi NATO), ma che non solo risulta oggi assai datato, rispetto agli ultimi MBT russi come il T-90 Proriv ed il T-14 Armata, ma ha anche dato scarsa prova di sé sul campo di battaglia.
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Marx, la tendenza tendenziosa e l'antimperialismo dei lupi/agnelli (prima parte)
A proposito de La guerra capitalista (Mimesis, 2022)
di Carmelo Buscema
Carmelo Buscema è ricercatore di sociologia dei fenomeni politici presso l’Università della Calabria, dove insegna Geopolitica e Rapporti internazionali e si occupa di neoliberismo e processi di finanziarizzazione. Il testo che segue è una critica al lavoro di Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti e Stefano Lucarelli, La guerra capitalista (Mimesis, 2022), volume che abbiamo discusso in questa sezione (vedi: https://www.machina-deriveapprodi.com/post/la-guerra-capitalista) e del quale seguiamo il vivace dibattito che le tesi lì espresse stanno suscitando.
Life on Marx?
Dal parapetto affacciato sullo spettacolo della fine della storia, nel 1990 David Bowie cantava la famosa canzone sulla ragazza dai capelli color topo, che per sfogare la tristezza del suo sogno manifestamente infranto – come il nostro –, camminava verso la consolazione di uno schermo cinematografico argentato. Ma il film dato era di una noia mortale, e a lei risultava esasperante lo stupido entusiasmo per quel freakest best selling show, dei ciechi spettatori vocianti al suo fianco. Is there life on Mars? – allora si chiedeva, desolata, la ragazza, alla ricerca di una speranza più lontana da sperare.
Se l’autore della monumentale opera di cui «Il Capitale» è la summa, fosse un pianeta – e Karl Marx è un intero pianeta, conosciuto e da esplorare– formuleremmo alla stessa maniera, oggi, la nostra inquietudine al cospetto dello spaventoso «destino da carne industriale e da cannone» che ci aspetta: c’è (ancora) vita su Marx?
Arrivano i vostri! (Rimpiazzano i nostri)
Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti e Stefano Lucarelli arricchiscono di molti rilevanti contributi il loro recente libro «La guerra capitalista.
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Da Christopher Lasch al suicidio della sinistra positivista
di Lelio Demichelis
Christopher Lasch (1932-1994) è stato certamente un intellettuale scomodo, poco amato dalle sinistre liberal americane, dalle femministe, dagli intellettuali europei. Eppure, è stato autore di opere fondamentali come La cultura del narcisismo, La rivolta delle élite, Il paradiso in terra (tutte pubblicate o ripubblicate da Neri Pozza).
Scomodo, ma quindi necessario. Come Heidegger (facendo le debite proporzioni), che è essenziale per capire cos’è la tecnica, ma che la sinistra si rifiuta di leggere e di capire restando anzi preda di una visione idilliaca – come scriveva, criticandola, Raniero Panzieri settant’anni fa – della tecnologia. O meglio, aggiungiamo, della razionalità strumentale/calcolante-industriale che ci domina dalla rivoluzione industriale e che è essenza (andando oltre Heidegger) anche del capitale/capitalismo, poiché basati – tecnologia e capitalismo – sulla stessa logica di accrescimento illimitato e infinito di sé come mercato e profitto, oltre che come sistema tecnico, producendosi appunto quello che chiamiamo tecno-capitalismo e che trova oggi nel totalitarismo del digitale, e nella digitalizzazione delle masse, la sua ultima (per ora) fase storica. E quindi, così come un grande intellettuale di sinistra, Claudio Napoleoni, aveva letto lo scomodo Heidegger per capire cosa sia la tecnica (che non è neutra come ingenuamente credono i marxismi, ma possiede un determinismo proprio – ontologico, teleologico e teologico), così oggi le sinistre dovrebbero rileggere anche lo scomodo Lasch per capire come è cambiato il mondo e recuperare un legame con la realtà da cui si sono dissociate per inseguire lo storytelling tecno-capitalista, cioè confondendo il progresso con la tecnica (con la razionalità strumentale/calcolante-industriale) e infine con il mercato neoliberale.
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Il messaggio del governo Meloni, nei suoi primi 100 giorni
di Tendenza internazionalista rivoluzionaria
“Spread, borsa, economia, l’Italia è più solida e in salute di quanto si voglia far credere”: così la Meloni ha voluto salutare i primi cento giorni del suo governo. Se per Italia si intende il mondo del capitale, gli interessi dei capitalisti, chi può darle torto? C’è però un’altra faccia di questo galleggiamento della borghesia italiana: è lo sprofondamento dell’altra Italia, del mondo del lavoro salariato dove in questi mesi si sono toccati record di morti sul lavoro, c’è stato un pesante taglio dei salari per l’inflazione più alta da 40 anni in qua, sono ulteriormente cresciute precarietà e povertà. E sui luoghi di lavoro il dispotismo padronale si è fatto ancora più aggressivo, incoraggiato ad andar giù duro dal nuovo esecutivo che si è impegnato a “non disturbare chi produce”, cioè chi sfrutta i produttori reali.
Questo effetto si vede anche nella logistica, l’unico ambito della produzione in cui negli ultimi anni le forti lotte dei facchini immigrati organizzati nel SI Cobas hanno fatto arretrare il fronte padronale. Perfino gli scandali e le inchieste sui giri di evasione fiscale e contributiva che hanno coinvolto importanti filiere (Dhl e Brt su tutte), vengono usati strumentalmente dai padroni a proprio uso e consumo. Invece di porre fine una volta e per tutte al sistema degli appalti e dei subappalti, la strategia padronale è quella di andare verso il loro superamento formale, ma con l’obiettivo di imporre un balzo all’indietro della condizione operaia, con il ritorno a livelli salariali, di orario, normativi indecorosi, e l’azzeramento delle libertà sindacali – cancellando così un intero ciclo di lotte. Questa manovra troverà pane per i suoi denti, com’è accaduto alla FedEx. Ma intanto anche quella parte del padronato della logistica che aveva accettato di firmare accordi migliorativi di secondo livello affila le armi, contando sull’aiuto solerte di Cgil-Cisl-Uil, della magistratura e delle forze della repressione.
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Pašukanis ieri e oggi. Una introduzione
di Carlo Di Mascio
Da Pašukanis e la critica marxista del diritto borghese, Phasar Edizioni, Firenze, 2013, pp. 268.
I.
Norberto Bobbio, in un saggio pubblicato nel 1954 dal titolo Democrazia e dittatura, osservava che gli enormi progressi, che l’Unione Sovietica stava in quel tempo compiendo in direzione di uno Stato fondato sul diritto, dovevano in gran parte essere ascritti alla cosiddetta «riscoperta del diritto», e ciò in particolare per merito della scuola facente capo a Vyšinskij, la quale, concependolo «come complesso di norme coattive imposte dalla classe dominante al fine di salvaguardare le relazioni sociali ad essa vantaggiose», si poneva in netta sintonia con quanto tracciato dalla più avanzata dottrina borghese di matrice kelseniana, tendente a considerare il diritto «come una tecnica speciale per la organizzazione di un gruppo sociale (qualunque esso sia)». Ma per Bobbio questi progressi dovevano ritenersi attribuibili anche ad un altro motivo, e cioè alla piena «sconfessione delle dottrine giuridiche estremistiche di Pašukanis e compagni, secondo cui il diritto era una sovrastruttura della società borghese e come tale destinato a scomparire con l’avvento della società socialista»1.
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I dieci anni che sconvolgeranno il mondo? Seconda parte
L’ascesa cinese e i conti aperti con il Capitale
di Raffaele Sciortino
Pubblichiamo la seconda parte dell’intervento di Raffaele Sciortino alla presentazione del suo ultimo, prezioso lavoro – Stati Uniti e Cina allo scontro globale. Strutture, strategie, contingenza (Asterios 2022) – di sabato 3 dicembre a Modena.
Se nella prima parte ci si è occupati del versante statunitense dello scontro “in processo”, tra piano inclinato della crisi globale e nuova dinamica dell’imperialismo, passiamo ora a scandagliare il lato cinese, tra retaggio della rivoluzione sulla composizione di classe e contraddizioni in seno al “capitalismo politico” socialista. Si apre uno scenario non scontato, attraversato dal rapporto lotte-sviluppo e dai limiti dell’ascesa cinese, che lascia aperti certi conti con il Capitale.
A queste longitudini la conoscenza del Dragone – o meglio, quello che interessa a noi, della situazione della classe operaia e dello sviluppo del capitalismo in Cina, per dircela come una volta – è spesso offuscata da una coltre di propaganda dozzinale, nel migliore dei casi oggetto di assenza di studio e di fonti, nel peggiore di distorsione ideologica, divisa tra ingenui e volenterosi crociati della narrazione liberal e campisti «fedeli alla linea anche quando la linea non c’è».
La ricchezza e la densità del libro di Raf emergono in particolar modo in questi capitoli, sicuramente i più “faticosi”: riflettono un accurato e difficile “lavorone” a monte dell’autore, che ha saputo sintetizzare e chiarificare nell’intervento che segue, legando la “questione cinese” al più complessivo piano globale. Pensiamo che meriti attento ragionamento e discussione.
In attesa della terza parte… Buona lettura.
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