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La sottile linea rossa

di Enrico Tomaselli

naziusaSiamo abituati a pensare alle leadership delle grandi potenze come a un’élite di persone consapevoli e lungimiranti, magari ‘buone’ o ‘cattive’ ma comunque capaci – appunto – di una visione di ampio respiro. Persino l’atteggiamento ‘complottista’ finisce col rafforzare questa convinzione. Ma è davvero così? La storia ci dice piuttosto che, quando una potenza è in declino, anche la sua leadership è sempre meno all’altezza del compito; e ciò è, al tempo stesso, concausa ed effetto del declino stesso. Ne abbiamo drammaticamente conferma sui campi di battaglia dell’Ucraina.

* * * *

Il suicidio dell’impero americano

È in effetti paradigmatico che il leader degli USA sia un vecchio con evidenti problemi cognitivi. E per quanto, com’è ovvio, sia circondato da consiglieri (più o meno ufficiali, più o meno occulti), ciò non toglie che sia altamente simbolico – e non meno concreto… – dello stato di decadenza in cui versa l’ex impero statunitense. Ed in questo caso la preposizione ex non è né casuale né involontaria; al contrario, indica convintamente uno stato di cose, che sarebbe bene cominciare ad accettare e considerare. Perché quell’impero ha fondato la sua tumultuosa ascesa (e la breve stagione del suo dominio incontrastato) sulle armi e sul dollaro, ma oggi le sue forze armate non sono più l’invincibile strumento di guerra che hanno creduto di essere, ed il dollaro non è molto lontano dal divenire l’ombra di se stesso.

In verità, il dominio americano è andato avanti, negli ultimi decenni, più per forza d’inerzia che non per una guida realmente imperiale. L’ascesa al potere dei neocon – passati disinvoltamente dai repubblicani ai democratici – non è stata soltanto la ragione di una svolta aggressiva e delirante, ma un fattore accelerante nel processo di decadimento della leadership statunitense.

Assai interessante, in merito, la disamina che ne ha fatto Andrei Raevsky (1), un’analista russo che vive e lavora da decenni negli USA.

Come si è detto, è proprio nella vicenda bellica in corso che si rivela tutta la miopia politica dei leader di Washington. Il problema principale, come nota sempre Raevsky in un altro ottimo articolo (2), è che – come diceva Sun Tzu – “la tattica senza strategia è il rumore prima della sconfitta”. E benché gli states abbiano lungamente preparato la guerra, per almeno una decina d’anni, la verità è che sono arrivati al momento del conflitto solo con una vaga idea degli obiettivi politici che avrebbero voluto conseguire, ma senza alcuna contezza reale del come conseguirli e – cosa ancora peggiore – senza nessuna vera strategia militare. È pur vero che questa non è affatto una novità, anzi; la storia bellica degli Stati Uniti, almeno quella successiva al secondo conflitto mondiale, è esattamente una sequela di guerre iniziate avendo in mente un qualche obiettivo politico più o meno vago, ma senza nessuna vera strategia di guerra. Non a caso, le sue vittorie sono sempre state conseguite contro avversari infinitamente più deboli (e quasi sempre avendo come lascito il caos, e non mai un nuovo ordine), mentre le sue clamorose sconfitte (Vietnam, Afghanistan) sembrano non aver insegnato nulla.

In effetti, a ben vedere la strategia militare americana, per quanto riguarda il conflitto ucraino, è sostanzialmente inesistente. Anche al netto di un immenso cinismo, per cui è perfettamente nel conto la sacrificabilità del popolo ucraino (e dell’Ucraina stessa, come si vedrà alla fine), è chiaro che tale strategia si risolve nel cercare di tirarla per le lunghe il più possibile. E, come si diceva precedentemente (3), nel tirare la corda sino al limite.

In un certo senso, quindi, si può affermare che l’avventura bellica in Ucraina proceda più che per obiettivi (e relative mosse per conseguirli), per condizioni. Talune condizioni si devono produrre o mantenere, altre devono essere evitate. Un approccio, quindi, assolutamente estemporaneo, che per certi versi può apparire estremamente pragmatico e flessibile, ma che in effetti è semplicemente un procedere letteralmente alla giornata. Peraltro, l’assenza di precisi obiettivi militari (o la loro ambigua definizione) consente in ogni caso di poter un domani negare che siano stati mancati.

La condizione primaria da mantenere è, ovviamente, quella del prolungamento del conflitto; teoricamente ad libitum, di fatto sino al massimo possibile. A questo punto, il mantenimento di tale condizione non è neanche più finalizzato ad un ipotetico logoramento dell’apparato militare russo, stante che questo è manifestamente insignificante, ed ampiamente soverchiato dallo speculare logoramento dell’apparato militare della NATO – USA compresi. La funzione, quindi, è quella di incatenare Russia ed Europa ad un conflitto che assorbe risorse, brucia relazioni ed agevola (per i paesi europei) il passaggio dallo status di provincia semiautonoma a quello di colonia militarizzata.

Altra condizione, connessa alla prima, è portare gradualmente lo scontro ad un livello sempre più alto, senza che raggiunga mai un punto di rottura. Tale condizione risponde all’esigenza di rendere lo scontro sempre più impegnativo, e quindi più lacerante, ed al tempo stesso di saggiare la reattività del nemico.

La terza condizione fondamentale è il contenimento. La guerra non deve sfociare in un conflitto nucleare, dal quale gli Stati Uniti non potrebbero chiamarsi fuori, e non deve uscire dai confini dell’Ucraina, perché se dilagasse in altri paesi europei sarebbe disastroso per l’equilibrio delle summenzionate colonie e costringerebbe in breve tempo ad un intervento massiccio delle forze armate americane.

 

Step by step

In buona sostanza, quindi, la condotta strategica occidentale non è definita da obiettivi da conseguire sul campo, ed è pertanto priva anche delle tattiche per conseguirli. Essa è invece definita da limiti (minimi e massimi), in pratica un frame all’interno del quale tutto è indefinito e suscettibile di qualsiasi evoluzione, purché appunto non vengano superati i limiti che lo definiscono.

Appare chiaro che, di conseguenza, da parte della NATO non c’è alcun iniziativa, ed opera semplicemente di rimessa, regolando il proprio agire (quello delle proprie milizie mercenarie ucraine) in base agli eventi ed alle variazioni del quadro determinate dall’iniziativa russa.

Questo procedere passo dopo passo, senza sapere mai quale sarà il prossimo né dove porterà, ha delle implicazioni di enorme rilevanza.

In una interessante analisi, apparsa su Limes (4) e su La Stampa, Lucio Caracciolo ha scritto che, continuando ad andare avanti così, “resterà la scelta fra una catastrofe e una vergogna”. Laddove la catastrofe sarebbe uno scontro diretto tra gli USA/NATO e la Russia, e la vergogna la vittoria di quest’ultima.

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Nella sua analisi, Caracciolo delinea tre scenari, il terzo dei quali sarebbe “congelare lo scontro per il tempo necessario a inventare una convivenza pacifica fra russi e ucraini”. Di là dal fatto – agghiacciante – che i media italiani abbiano enfatizzato al massimo quella che è una mera ipotesi (catastrofica, appunto), ovvero “l’invio di nostre truppe in Ucraina”, quasi vogliano sdoganarne l’idea, l’analisi presenta almeno due grandi punti deboli: non spiega come si possa congelare lo scontro, e resta convinto che “solo gli Stati Uniti sono in grado di imporre la fine del conflitto”.

È abbastanza evidente che non esiste alcuna possibilità di congelare il conflitto, se con ciò si intende appunto bloccare la situazione sul campo per come si è determinata, poiché questo può realizzarsi solo a condizione che a) le forze raggiungano un equilibrio strategico, ovvero che b) ci sia un accordo da ambo le parti in tal senso. Per tacere del fatto che ciò dovrebbe servire a determinare una “convivenza pacifica” tra i contendenti… E non è possibile perché (lo riconosce lo stesso Caracciolo) la NATO non sarà mai in grado di raggiungere quell’equilibrio di forze – almeno non prima di qualche anno; e perché la Russia non ha alcun interesse ad una tale soluzione, visto che sta conseguendo i suoi obiettivi sul terreno, e che l’esperienza degli accordi di Minsk impone di non fidarsi dell’occidente (essendosi i leader NATO persino vantati della propria doppiezza).

Ancor meno veritiera è la tesi secondo cui sarebbero gli USA – e soltanto loro – ad avere in mano le carte per chiudere la partita. In realtà, e proprio secondo lo schema di Caracciolo, per Washington sono disponibili solo due opzioni: l’intervento diretto della NATO (e quindi la catastrofe), o l’interruzione degli aiuti a Kyev per forzarla alla resa (e quindi la vergogna).

Ed è proprio questa, quell’implicazione di enorme rilevanza di cui si diceva. In mancanza di una qualsiasi strategia per la vittoria militare, e nella impossibilità di operare la scelta della catastrofe (nucleare), agli Stati Uniti non rimane altra scelta che perseverare nella proxy war sino all’ultimo ucraino – ed oltre. Il pallino è in mano alla Russia. Solo Mosca può decidere se, quando e come porre fine al conflitto.

 

Le linee rosse

Dal punto di vista russo, è ormai indiscutibilmente accettato da tutti che questa è vissuta come una guerra per la sopravvivenza stessa della nazione. Per Mosca è fin troppo evidente che questa guerra sia tra la Russia e la NATO (5), e che il coinvolgimento di questa (anche se sinora non è arrivato al punto di schierare ufficialmente truppe sul campo) è totale e determinante. Ciò nonostante, è chiaro che – per una serie di ovvi motivi – non ha alcun interesse a che la NATO intervenga direttamente. Ragion per cui, seppure la partecipazione attiva dell’Alleanza Atlantica viene denunciata, non se ne traggono appieno le conseguenze. Al tempo stesso, la Russia deve porsi – e deve porre ai suoi avversari – dei limiti all’escalation accettabile, per non perdere il vantaggio strategico conquistato sul campo di battaglia. È quindi ha posto a sua volta una serie di limiti, di linee rosse, che segnalavano un passaggio di livello, ed a cui avrebbe corrisposto un mutamento nella condotta di guerra russa.

Come ha dichiarato Dmitry Polyansky (primo vice rappresentante della Federazione Russa presso le Nazioni Unite), “alcune linee rosse sono state superate, ma forse le più rosse non sono ancora state superate” (6), lasciando chiaramente intendere che la NATO si sta pericolosamente avvicinando a quella oltre la quale si apre la strada al conflitto nucleare. Una strada che Washington non vuole neanche intravedere da lontano, per la duplice ragione che è perfettamente consapevole del vantaggio strategico della Russia in questo settore, ed è in lotta per mantenere il predominio mondiale, non per la propria esistenza.

Più va avanti la guerra, quindi, più si restringono le opzioni possibili per la NATO. Che, da un lato deve restare nei limiti del proprio frame tattico, e dall’altro sta consumando i limiti superabili posti da Mosca.

 

Quali le mosse possibili?

La questione, a questo punto, è quali siano le opzioni praticabili per gli Stati Uniti.

Al di là delle implicazioni politiche interne all’impero (il processo di militarizzazione e totale asservimento delle colonie europee), è abbastanza evidente che l’attuale mossa tattica su cui si stanno concentrando i planner del Pentagono è una ipotetica controffensiva ucraina in primavera/estate, che possa – se non ribaltare il quadro strategico – quantomeno imporre uno stop alla lenta ma inesorabile avanzata russa; insomma, di guadagnare altro tempo.

Lo schema è però quello da cui gli strateghi NATO non riescono ad uscire, cioè quello della manovra secondo gli standard dell’Alleanza, del tutto impraticabili per un esercito nelle condizioni di quello ucraino, e soprattutto per il contesto in cui dovrebbe essere realizzata. Il massiccio trasferimento di mezzi corazzati in atto, dai veicoli per i trasporto truppe ai carri leggeri per la fanteria (Bradley), sino ai main battle tank (Challenger e soprattutto Leopard), è infatti finalizzato a realizzare una offensiva improntata alla velocità ed alla mobilità delle truppe impiegate, sicuramente in direzione sud-est, cercando di accorciare le distanze tra la linea di fuoco e la Crimea, e possibilmente di tagliarne le linee di approvvigionamento.

Ai fini di questa manovra, è necessario che tutti i mezzi siano trasferiti in Ucraina, che vengano schierati sulla linea del fronte, e che il personale sia in grado di utilizzarli operativamente. Ciò richiederà comunque dei mesi, almeno tre o quattro, il che significa non prima di aprile-maggio.

Anche al netto della questione che nessuno sa come reagirà la Russia al passaggio di questa ulteriore linea rossa (la fornitura di carri pesanti), e quindi se e come cercherà eventualmente di impedirne l’arrivo sulla linea di combattimento, colpendo i luoghi di primo stockaggio e/o le linee di comunicazione, restano alcuni significativi ostacoli.

Innanzi tutto, l’evoluzione sul fronte. In questo momento, le forze russe stanno esercitando una forte pressione sia nell’oblast di Donetsk che in quello di Zaporizhya. Nel primo, dopo la caduta di Soledar, e quella ormai imminente di Bakhmut, sono all’offensiva anche verso le città di Ugledar e Marynka; ovviamente, se queste roccaforti dovessero cadere, le linee ucraine sarebbe respinte più indietro, verso Slovyansk e Kramatorsk, mentre l’avanzata su tutto il fronte sud punta direttamente alla città di Zaporizhya (e da lì, a riattraversare il Dniepr).

Un altro fattore che può giocare un ruolo decisivo è il clima. Al momento, il terreno è ghiacciato in profondità, e questo consente di muovere e manovrare con i cingolati (carri ed artiglieria semovente), ma in primavera arriverà il disgelo, e tutto tornerà ad essere un enorme pantano, in cui la prevista offensiva mobile si impaluderebbe. In tal caso, si dovrebbe attendere l’estate, ma il tempo gioca a favore dei russi.

Infine, cosa forse determinante, c’è da considerare che i russi hanno fortificato a loro volta le linee che conducono verso la Crimea, rendendo assai complicato uno sfondamento di forze corazzate, e soprattutto la crescente supremazia nel fuoco d’artiglieria. Un’offensiva del genere immaginato dai generali NATO richiede non solo un importante fuoco di copertura, prima dell’attacco, ma soprattutto una sufficiente certezza di superare il fuoco di sbarramento degli attaccati. Secondo la stampa americana, l’esercito ucraino ora spara solo 40.000 proiettili al mese, contro i 150.000 di poco tempo fa, mentre il volume di fuoco russo è rimasto costante a circa 20.000 proiettili al giorno; Ciò significa che il vantaggio della potenza di fuoco russa è aumentato da circa 3:1 a quasi 19:1.

Tutto ciò significa che la prevista offensiva, ammesso che riesca effettivamente a partire, ha buone probabilità di risolversi in un disastro, ma nella migliore delle ipotesi non riuscirà comunque a sviluppare una penetrazione significativa. E tutto sempre che non siano i russi, ha lanciare un’offensiva estiva (7). Il che ci riporta al punto iniziale: in estate, i comandi NATO dovranno decidere quale altra mossa mettere in campo, per restare all’interno del frame prefissato. Considerando i margini di rischio delle varie opzioni, quella più probabile resta sempre il via libera ai polacchi, che non vedono l’ora di varcare il confine. Un ingresso fraterno dell’esercito polacco in Galizia, magari sino a Kyev, al di fuori di una iniziativa ufficiale della NATO (eludendo quindi i rischi connessi all’art.5 del trattato), consentirebbe all’Ucraina di concentrare tutte le proprie truppe sulla linea di combattimento, di avere un considerevole supporto di artiglieria, ed una retrovia protetta, con la possibilità di supporto logistico ravvicinato per la manutenzione dei mezzi NATO.

Questo ovviamente comporterebbe – come contropartita – la creazione di un protettorato polacco sulla Galizia, preludio ad una spartizione del paese (che renderebbe più accettabile anche la perdita del Donbass e della Crimea), oltre ovviamente a prolungare ulteriormente il conflitto.

Altre opzioni non sembra realisticamente che siano sul terreno. È la sola mossa che consentirebbe di mantenere il punto centrale del frame NATO (il prolungamento della guerra), oltrepassando sì un ulteriore linea rossa, ma non quella fatidica del coinvolgimento in quanto Alleanza Atlantica. E darebbe probabilmente modo agli ucraini di tirare avanti un altro paio d’anni (quelli necessari alla NATO per rimettere in pari la propria industria bellica, e ripristinare le capacità operative minime degli eserciti europei). In ogni caso, di sicuro tra Washington e Bruxelles si comincia a sentire “il rumore prima della sconfitta”. E non è esattamente una buona notizia, stante i fanatici che comandano alla Casa Bianca ed a Downing Street.


Note
1 – Cfr. la traduzione italiana del suo articolo “Ha ragione Andrei Martyanov nelle sue critiche alle ‘élite’ al potere negli Stati Uniti?” (qui), o la versione originale inglese “Is Andrei Martyanov right in his criticism of US ruling ‘elites’?” (qui).
2 – Cfr. “Tactics without Strategy is the Noise Before Defeat”, su thesaker.is
3 – Cfr. “Tug of war”, Giubbe Rosse News
4 – Cfr. “La guerra in Ucraina avrà una soluzione militare o non ne avrà”, Limes
5 – Da ultima, subito dopo la capitolazione della Germania che ha deciso di inviare carri Leopard all’Ucraina, cedendo alle pressioni statunitensi, è arrivata la dichiarazione della ministra degli esteri tedesca Annalena Baerbock, nota guerrafondaia, secondo cui “stiamo combattendo una guerra contro la Russia”.
6 – La dichiarazione è stata rilasciata nel corso di un’intervista al giornalista statunitense Kim Iversen, disponibile su Rumble.
7 – Va tenuto presente che, sino a questo momento, le avanzate russe nel sud-est stanno impegnando soprattutto le formazioni delle ex-repubbliche separatiste, la PMC Wagner, ed alcuni reparti delle forze armate russe. Il grosso dei mobilitati e dei volontari (per un totale di circa 350/400.000 uomini) non è stato ancora effettivamente impiegato.

Comments

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Mario M
Monday, 30 January 2023 00:10
Abbiamo visto che Zelensky è un dottor Stranamore: bombarda ospedali e civili, orchestra omicidi di personaggi importanti in territorio russo. E voi pensate che se avesse l'atomica non l'avrebbe usata? Fortunatamente nessuno ha l'atomica perché non è mai stata costruita.
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Noi non abbiamo patria
Sunday, 29 January 2023 13:26
Bhe, che dire? C’è del vero nella constatazione che la lunga “strategia” USA di “accerchiamento” della Russia per subordinarla sul mercato mondiale e nella catena generale del valore, come mero produttore di materie prima, nel momento decisivo vi arrivi priva di “concretezza”. Non bisogna dimenticare che il nodo Ucraina si apre dopo la ritirata disordinata dall’Afghanistan, ben peggiore di quella dal Vietnam, a cui seguì la collaborazione con la Cina a risovere l’iniziale crisi della accumulazione degli anni ‘70, attraverso una maggiore interconnessione del mercato mondiale ed attraverso la crescita della domanda di merci e lo sviluppo di ceti medi in Asia e Africa come risultato evidente della globalizzazione.
Todd in un articolo sul tema annota come gli USA hanno nel breve e medio periodo una evidente difficoltà a mettere in atto una produzione di massa degli armamenti che l’Ucraina invoca per la sua contro-offensiva. Il balletto ai vertici NATO (dove raschiare il fondo del barile per inviare i Tank) è lo specchio di questo stallo. Chi fabbrica gli Abrams ha una capacità produttiva annuale di 800 tank. Le componenti tecnologiche dipendenti dalla produzione di microchip che sta mettendo alla frustra (per penuria degli approvvigionamenti) l’industria occidentale di tutti i settori produttivi.

Quindi il “dilemma” in cui l’Occidente si trova è: “devo privarmi degli armamenti del mio esercito, con tutte le conseguenze del caso, o andare lì col mio esercito in prima persona?”.

Che gli Stati Uniti si trovano in una complicatissima posizione è ricavabile dal balbettio di Sleepy Joe, da una società recalcitrante scossa da linee di frattura per linee centrifughe (le Big Tech corporation non gradiscono la guerra commerciale sui microchip con l’Asia, come non lo gradisce l’agrobusiness statunitense che produce essenzialmente per l’export), così come l’isolamento internazionale e il non allineamento di quei paesi che rappresentano la gran parte della domanda e del consumo di merci mondiale.

In sostanza, un “piano” seppure immaginato, diventa irrealizzabile quando la produzione di macchinari da parte degli USA non è più come nel passato il 65% della produzione mondiale. Anche la leva della finanza ne esce spuntata e The Economist inizia a ragionare sull’impensabile DEFAULT finanziario degli Stati Uniti d’America e le possibili soluzioni al momento non pervenute.
https://www.economist.com/united-states/2023/01/23/there-is-no-easy-escape-from-americas-debt-ceiling-mess
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