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Armi letali / 3: A cercar la bella morte
di Sandro Moiso
Dedicato a tutti i giovani che hanno meravigliosamente animato il festival Alta Felicità a Venaus dal 29 al 31 luglio
«La resa per noi è inaccettabile, non avremmo grandi possibilità di sopravvivere se venissimo catturati. I nemici vogliono distruggere gli ucraini, per noi è chiarissimo. Noi siamo consapevoli che potremmo morire in qualsiasi momento, stiamo provando a vivere con onore. I nostri contatti con il mondo esterno potrebbero essere sempre gli ultimi. Siamo accerchiati, non possiamo andare via, in nessuna direzione. Abbiamo rinunciato alle priorità della difesa personale. Non sprecate i nostri sforzi perché stiamo difendendo il mondo libero a un prezzo molto alto». (capitano Svyatoslav Kalina Palamar, vice comandante del battaglione Azov).
«Scappare è da codardi. Non possiamo fermarci e trattare, il nostro obiettivo è fermare la minaccia russa: stiamo lottando non solo per l’Ucraina ma per il mondo libero… La debole reazione del mondo è uno dei motivi per cui siamo ancora qui. L’Ucraina è lo scudo dell’Europa, lo è stata negli ultimi due secoli. Abbiamo lottato contro le invasioni nei tempi passati, adesso è un’altra storia. Lottiamo da soli da quasi due mesi e mezzo, abbiamo ancora acqua, munizioni e armi. I soldati mangiano una volta al giorno, ma continueremo a lottare». (Denis ‘Radis’ Prokopenko, comandante del battaglione Azov)
“I nostri militari in un certo senso stanno ripetendo quello che ha fatto Gesù Cristo, sacrificando la propria vita per il prossimo, per i figli, per la propria gente e difendendo la loro terra dall’aggressore. Per questo consacro le loro armi, perché le usino per riprendersi la nostra terra benedetta da Dio”. (Mykola Medynskyy, cappellano militare ucraino membro del partito Pravyj Sektor)
La saga di Azovstal è terminata ormai da tempo. Il sacrificio in stile Götterdämmerung (crepuscolo degli dei) auspicato in un primo tempo da Zelensky e dal suo governo non c’è stato (forse anche per le proteste dei famigliari dei combattenti là asserragliati) e i russi sono stati abbastanza saggi da non trucidarne i difensori sotto gli occhi di tutto il mondo.
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Che cosa preannuncia la ripresa dell’inflazione?
di Claudio Gnesutta
Da dove viene il ritorno dell’inflazione e che politiche sono possibili? Un confronto con gli anni Ottanta, sui prezzi delle materie prime, instabilità internazionale, conflitti, ristrutturazione produttiva. E sull’antica questione del contenimento dei salari
Da un po’ di tempo serpeggia sulla stampa quotidiana, non solo su quella economica, l’apprensione per la crescita dei prezzi, dell’inflazione. La possibilità che la pressione inflattiva possa acuirsi e, radicandosi in una spirale prezzi-salari, passare «da un regime di bassa inflazione a un regime di alta inflazione» è esplicitamente considerato nel recente Rapporto annuale della Banca dei Regolamenti internazionali (BIS, No Respite, Annual Economic Report, June 2022, https://www.bis.org/about/areport/areport2022.pdf). Sono considerazioni stimolate dallo shock subito dal prezzo del gas e da quello del grano in seguito alla guerra in Ucraina.
La tendenza all’aumento dei prezzi delle materie prime, soprattutto di quelle legate all’energia, non sembra però dipendere da motivi contingenti; essa è latente nel sistema globale da diversi anni e, oltre a interessare le granaglie (frumento, riso, soia ecc.) come ricordano le ricorrenti crisi alimentari dei paesi più poveri, riguardano molte materie prime (oltre a quelle energetiche, il rame, litio, cobalto, nickel…) la cui domanda, crescente con la crescita della produzione mondiale (e per le necessità della transizione energetica), tende a eccedere un’offerta insufficiente per i colli di bottiglia nella catena globale dell’approvvigionamento, per le sanzioni e correlate restrizioni, per l’accumulo di scorte strategiche da parte dei paesi manifatturieri. L’impatto di un costante aumento di tali prezzi sul costo dei manufatti, assieme al perdurare di una situazione di incertezza produttiva (a causa del Covid e della guerra in Ucraina), sembra consolidare una prospettiva – come ricorda il citato Rapporto – del formarsi di una situazione in cui la stagnazione produttiva convive con un’inflazione monetaria richiama alla mente quella sperimentata a livello globale negli anni Ottanta.
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Marco Gatto, Fredric Jameson
di Roberto Finelli
Marco Gatto, Fredric Jameson, Roma, Futura Editrice, 2022
I. Un modo originale di ripensare la dialettica
Non deve sorprendere il fatto che Marco Gatto, uno dei nostri migliori studiosi di critica letteraria e di teoria della letteratura, abbia sentito la necessità di ritornare con un testo completamente nuovo (Fredric Jameson, munito di una prefazione dello stesso Jameson) sulla figura dell’intellettuale americano, cui aveva già dedicato un volume nel 2008, Fredric Jameson. Neomarximo, dialettica e teoria della letteratura, edito da Rubbettino. Non deve stupire perché, benché già il testo precedente contenesse un’esposizione accurata ed esauriente di un autore assi poco presente nella cultura italiana, Gatto dopo quindici anni deve aver avvertito una maggiore capacità da parte sua di possedere e stringere la tematica assai varia e complessa di un autore che si diffonde nei più vari campi del sapere estetico-letterario e teorico-politico, qual è Jameson. Avvertendo nello stesso tempo la necessità di restituire al lettore con maggiore sistematicità e chiarezza teorica la lunga e multiforme attività di quello che, al di là della produzione ancora in atto, è stato senza dubbio il teorico marxista più influente del secondo Novecento.
Non che un intellettuale dello spessore di David Harvey non possa non essere considerato anch’egli come l’altro teorico di maggiore profondità speculativa e di maggiore sistematicità nell’ambito del marxismo dell’ultimo cinquantennio. Ma la peculiarità tutta propria di Jameson rispetto alla pari grandezza del sociologo e geografo britannico si connota per aver trattato, per tutta la sua vita, non la materialità della struttura e della produzione economica, quanto invece i termini in cui un modo sociale di produzione vive attraverso la produzione della cultura e dell’immaginario, attraverso cioè la diffusione e la generalizzazione del cosiddetto simbolico, con un’attenzione peculiare rivolta essenzialmente, ma non solo, ai manufatti estetici e letterari.
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Scuola, la vera emergenza italiana
di Gaetano Sinatti
In Italia si erogano mediamente in un anno scolastico 990 ore per alunno della scuola dell’obbligo. Il totale di ore lungo tutto il percorso è tra i più alti al mondo. Lo stesso vale per la durata dell’anno scolastico: l’Italia – con 200 giorni di lezioni per le scuole elementari, medie e superiori – è il Paese col maggior numero di giorni di scuola in tutta Europa, alla pari con la Danimarca.
Invece, l’abbandono scolastico in Italia è al 13,1% nel 2020 – vale a dire che in media più di 10 ragazzi su 100 lasciano la scuola. Situazione peggiore in Europa la troviamo solo a Malta (16,7%), in Spagna (16%) e in Romania (15,6%). In termini di business potremmo dire quindi che, a fronte di un servizio labour intensive, la “clientela” della scuola è sempre più disaffezionata.
Quanto agli insegnanti, essi hanno perso il loro residuo prestigio professionale e, invece di educatori e portatori di conoscenza da ascoltare con rispetto, sono sempre più considerati degli impiegati pubblici poco produttivi. Nonostante il fatto che il loro impegno contrattualmente prescritto non si esaurisca nelle 36 ore settimanali: la didattica, per gli insegnanti coscienziosi, non finisce né in classe né a scuola, ma si prolunga a casa e spesso anche nel fine settimana.
Il tutto in un quadro di soffocanti adempimenti burocratici, che mediamente portano sul tavolo di un docente almeno una circolare al giorno: da leggere, interpretare, applicare. Oltre ovviamente alle email con cui oramai si comunica in qualsiasi ambiente di lavoro.
In media ogni insegnante si trova 20,34 alunni per classe, nonostante in termini assoluti gli studenti di tutti gli ordini scolastici siano andati diminuendo dai 7.714.557 dell’anno scolastico 2005-2006 ai 7.507.484 del 2019-2020.
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Sulla determinazione del valore dei beni capitali in un’economia moderna
di Andrea Pannone
Il tema affrontato in questo scritto può sembrare astratto e di appannaggio riservato ai soli specialisti. In realtà, quello della valutazione dei beni capitali è un aspetto estremamente problematico sin dagli inizi della storia del pensiero economico e costituisce, più o meno esplicitamente, un fattore discriminante di tutte le teorie del valore.
Senza la minima pretesa di esaustività, nelle pagine seguenti procederemo come segue:
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forniremo brevissimi cenni su come le varie scuole economiche abbiano affrontato nel tempo il problema della valutazione dei beni capitali.
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forniremo gli elementi di un approccio alternativo alla determinazione del valore dei beni di capitale. Tale approccio, oltre a permettere di superare (almeno alcuni de)i principali limiti degli approcci esistenti in letteratura, risulta estremamente coerente con importanti aspetti dell’evoluzione tecnologica e finanziaria delle economie moderne.
La valutazione dei beni capitali lungo la storia del pensiero economico: alcuni cenni
Come ci ricorda Giorgio Gattei (2003), ad esempio, ai fini della validità della ‘legge’ del valore- lavoro – ossia del principio di origine Smithiana secondo cui le merci si scambiano sul mercato in base al rapporto tra le quantità di lavoro necessarie a produrle - è anche implicitamente richiesta l’ipotesi che nei processi produttivi delle due merci non venga impiegato alcun bene capitale. In caso contrario, anche la presenza di un solo bene capitale non consentirebbe più la semplificazione del valore di scambio al rapporto dei lavori contenuti.
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Come l’IPCC contraddice, per viltà, sé stesso
di Il Pungolo Rosso
La prima bozza metteva in guardia rispetto agli “interessi costituiti”. Questo passaggio, che appare nella relazione, è venuto meno nella sintesi finale, vittima di quegli stessi interessi costituiti – gli interessi del capitale
Ci sono due versioni dell’ultimo rapporto IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) sul cambiamento climatico: la prima, una bozza trapelata nell’estate 2021, più radicale, basata sulla realtà dei fatti – che abbiamo a suo tempo presentato; la seconda, quella ufficiale, più edulcorata. E non è tutto: anche nella versione formale, le 2.900 pagine del rapporto hanno un tono molto diverso dalla sintesi ad uso e consumo di Policymarkers e managers, una sintesi negoziata (proprio così) con gli stessi responsabili e dirigenti governativi e del grande capitale. Premettendo alcune considerazioni, riprendiamo da Climate&Capitalism (che ha a sua volta attinto a CTXT – Contexto y Acción) un’analisi accurata, compiuta da alcuni scienziati, del lavoro di censura operato dagli interessi dominanti sul rapporto sintetico IPCC; potete leggerla in traduzione.
Quando la “scienza” è costretta a fare i conti con il modello sociale esistente, qualcosa della realtà inevitabilmente trapela: nel rapporto, ad esempio, si denunciano gli “interessi costituiti” che si oppongono ferocemente alle misure che si dovrebbero adottare per salvare il pianeta o – meglio – la vita così come la conosciamo. Senonché questa denuncia scompare nella sintesi negoziata proprio con gli stessi interessi costituiti che andrebbero attaccati, e che al di fuori delle formule ingessate delle pubblicazioni scientifiche, sono individuabili senza margini di incertezza con le lobby dei fossili, e più in generale con le grandi forze del capitalismo che spingono sull’acceleratore per continuare indisturbate ad accrescere indefinitamente la produzione di merci e servizi, e con essa la produzione di emissioni climalteranti.
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Di caos in caos
di Michele Castaldo
La crisi del governo di “unità nazionale”, diretto dall’uomo della provvidenza, il banchiere Draghi, in piena estate, mostra non il fallimento della politica come vogliono sostenere la gran parte dei commentatori e degli intellettuali. No, è la crisi di un modo di produzione in crisi, ovvero di interessi di più classi in contrasto fra loro e in ognuna di esse, perché si vanno sempre più riducendo i margini del mercato.
All’orizzonte: il costo delle materie prime che determinano addirittura le alleanze storiche internazionali; la necessità di far fronte dando un impulso alle grandi aziende per renderle competitive e le ricadute di questo processo sui settori destinati perciò ad essere falcidiati: i taxisti per la Uber, le 50.000 imprese a rischio di chiusura, la revisione dei contratti dei beni demaniali. Si tratta di interessi economici che stridono fra loro e ne fanno le spese i partiti che si candidano a rappresentarli. Si provi solo a immaginare quale somma occorrerebbe per 50.000 mila imprese sull’orlo del fallimento, che Giuseppe Conte, per un verso, e Salvini per il versante del nord, vorrebbero salvare. E sotto accusa cosa è se non il reddito di cittadinanza?
All’interno dell’attuale caos dei partiti e dei vari raggruppamenti politici si segnala, in controtendenza, una crescita continua del partito di estrema destra della signora Giorgia Meloni, che viene visto come il fumo negli occhi dai democratici e dalla sinistra. E proprio coll’approssimarsi del centenario della Marcia su Roma del 28 ottobre del 1922, il partito Fratelli d’Italia, il partito dei patrioti, come lo definisce la Meloni, potrebbe festeggiare quel centenario con la nomina se non addirittura il giuramento di un nuovo governo della Repubblica Italiana nata dalla Resistenza. Insomma la Storia, quella vera, gioca sempre brutti scherzi agli uomini che pensano di dirigerla.
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Senza partito comunista non c’è rivoluzione
di Alessandro Testa
"Senza un’avanguardia che operi per sostenere la classe nel suo faticoso cammino verso l’acquisizione di una sua coscienza propria e quindi, verso la comprensione dei suoi reali interessi e finalmente verso una lotta senza quartiere contro l’inumano e alienante modo di produzione capitalistico e contro le sue sovrastrutture – Stato, modelli sociali, cultura (o meglio “dis-cultura”) – di quale rivoluzione si potrebbe mai sognare?"
Riprendiamo in queste brevi note alcune delle riflessioni, di grande profondità teorica e importanza pratica, poste dal compagno Valentini, proponendoci di chiosarle con qualche commento che possa, nello spirito di franchezza dialettica propria della discussione ideologica marxista leninista, esaminarne la portata ed eventualmente sottolinearne eventuali criticità o punti meritevoli di approfondimento.
Valentini pone sin dall’inizio una considerazione forte e piuttosto tranchant: a suo avviso più che di comunismo bisognerebbe – in questa fase storica – parlare piuttosto di rivoluzione. Il suo incipit, forte e deciso, è questo:
“Quando sostengo la necessità di un nuovo soggetto politico per l’Italia e per l’Europa non ripropongo la questione comunista, anzi uso raramente la parola comunista e solo in occasione di riferimenti storici. Sono fermamente convinto che non è tramite il rilancio di un movimento comunista che si possa uscire dalla situazione di subalternità al pensiero liberale”.
Come tutti gli intellettuali di vaglia, Valentini supporta la sua idea con dovizia di riflessioni e puntuali citazioni di Marx, Engels e altri giganti del pensiero comunista, citazioni che per non dilungarci non riportiamo qui, rimandandovi alla lettura del saggio integrale del compagno, pubblicato in un precedente numero di Cumpanis.
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Imperialismo e sottoconsumo in Sweezy e Baran
di Bollettino Culturale
Paul Sweezy, un marxista americano di grande importanza nel XX secolo, ha collaborato lungamente con Paul Baran, un marxista nato nell'ex impero russo, con l'obiettivo di evidenziare l'unicità dell'economia mondiale sotto la direzione del capitalismo monopolistico, nonché la centralità della categoria “surplus economico” come spiegazione delle crisi. Sweezy, ancor prima della sua collaborazione con Baran, stava già cercando di approfondire, con maggiore attenzione, il problema del mismatch tra produzione e realizzazione di merci nella sua opera più nota “Theory of Capitalist Development”, pubblicata negli anni ‘40. In questo opuscolo, Sweezy ha sottolineato che Marx non ha dedicato un'analisi del sottoconsumo nella produzione capitalistica, concentrando la sua attenzione sull'ambito della produzione in situ. Il cuore dell'analisi di Sweezy è il processo di circolazione del capitale, secondario ai cambiamenti nella composizione organica del capitale come principale fattore scatenante della crisi.
Sweezy ha evidenziato che il sottoconsumo esercita un'influenza preponderante sulle dinamiche dell'economia mondiale, essendo una dimensione inscindibile del funzionamento del capitalismo che contribuisce a due distinti sviluppi: crisi e stagnazione. La crisi deriverebbe dall'offerta aggiuntiva di beni di consumo al mercato, ovvero dallo squilibrio tra offerta potenziale e domanda di consumo potenziale, determinando una riduzione della capacità produttiva aggiuntiva. La stagnazione deriverebbe dall'incapacità del mercato di assorbire il volume potenziale dei beni di consumo. A proposito di quest'ultimo punto, Sweezy ha affermato che, poiché il capitalismo presenta sempre una capacità produttiva potenziale che viene utilizzata raramente, pena la sofferenza del sottoconsumo, il suo ritmo normale è quello della stagnazione.
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Che cosa significa destra politica?
di Giacomo Croci*
Una riflessione a partire da Cultura di destra e società di massa. Europa 1870-1939 di Mimmo Cangiano
È un dato registrato da ormai qualche anno la reviviscenza in Europa, o almeno in Europa, della cosiddetta cultura di destra, su ampia scala, partitica e non. Piuttosto, ancora meglio che cosiddetta: di una cultura che si comprende, si identifica, si vuole e si proclama di destra. La rivendicazione è spesso netta, totemica quasi. La nettezza delle identificazioni, che sembra caratterizzare questi anni, pare però allo stesso tempo contraddire un altro elemento, che si è fatto sempre più preponderante nel dibattito pubblico, su quotidiani e social media: l’impazzimento della bussola ideologica. Da Alessandra Mussolini che si candida madrina del pride a testate del sedicente centro-sinistra che si lanciano nella più sperticata propaganda contro le più minime iniziative di welfare. È come se avessimo a che fare con due fenomeni: per un verso auto-identificazioni pietrificate, come se fossero certe di ciò che sono (una tendenza a oggi troppo spesso purtroppo condivisa da tutto il discorso politico); per l’altro lo smarrimento, tradito anche da questa pietrificazione, che di fronte a fenomeni storici, sociali, economici, anche naturali come una pandemia, non sa che pesci pigliare e dà luogo a risultati ideologicamente curiosi. La questione è ormai particolarmente spigolosa. Che cosa significa orientarsi nello spazio politico? E che cosa significa adoperare le due categorie di destra e di sinistra per farlo?
È un modo di ragionare diffuso quello che consiste nello spiegarsi gli eventi e le cose considerandone innanzitutto la provenienza e le cause. Si spiegano i comportamenti delle persone considerandone il vissuto; si spiegano gli eventi naturali identificandone le condizioni e le leggi che sembrano di prevedere con maggior affidabilità quali condizioni risultano in quali risultati e come.
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Questione comunista o questione della rivoluzione in Occidente?
di Sandro Valentini
A partire da questo intervento inviatoci dal compagno Alessandro Valentini, apriamo un dibattito sulla fase attuale del movimento comunista in Italia e il ruolo del Partito Comunista
Comunista o rivoluzionario?
Quando sostengo la necessità di un nuovo soggetto politico per l’Italia e per l’Europa non ripropongo la questione comunista, anzi uso raramente la parola comunista e solo in occasione di riferimenti storici. Sono fermamente convinto che non è tramite il rilancio di un movimento comunista che si possa uscire dalla situazione di subalternità al pensiero liberale. Non è che non consideri le esperienze in cui i comunisti svolgono un ruolo importante, decisivo, strategico. Per esempio in Cina, in Russia, in Vietnam, a Cuba e in altri paesi, ma non è un caso che queste esperienze, tolte delle eccezioni, siano vive, influenti, contino in paesi non occidentali e siano espressione di complessi processi storici, che piaccia o no, si riflettono e pesano nello scenario internazionale.
D’altronde occorre avere in mente la storia. Lenin trasforma la fazione bolscevica del Partito socialdemocratico russo in Partito comunista e fonda sulla spinta dell’Ottobre l’Internazionale perché è certo del trionfo anche in Occidente, nel breve periodo, della rivoluzione. I partiti comunisti non nascono dunque per condurre una battaglia di lunga lena, non era questa la prospettiva indicata dai comunisti russi, ma per fare da subito la rivoluzione in quanto imminente. I partiti comunisti, solo alcuni anni dopo la loro nascita, che tra l’altro coinciderà con la loro sconfitta in Europa, cercheranno – e solo pochi ci riusciranno – di riorganizzarsi per darsi una politica di lungo respiro, che avrebbe dovuto tenere conto del ripiegamento del Pcus, con Stalin, sul socialismo in un solo paese.
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La difesa della natura: Resistere alla finanziarizzazione della Terra
di John Bellamy Foster
Questo lungo post è la traduzione di un breve saggio (qui l’originale in inglese) del sociologo americano John Bellamy Foster pubblicato sulla rivista Montly Review. Nei giorno in cui la maggioranza Draghi senza Draghi approva in Commissione il disegno di legge sulla concorrenza e apre alla concorrenza privata internazionale spiagge, acqua e quant’altro, è bene contestualizzare ciò che accade in questa nostra provincia dell’impero con quello che si progetta nel cuore del potere dell’impero basato sull’alleanza tra grande finanza anglosassone e Stato profondo americano
Il 28 ottobre 2021, i leader politici dello Stato malese di Sabah, sull’isola del Borneo, hanno firmato un accordo con la società di comodo di Singapore Hoch Standard, all’insaputa delle comunità indigene, che conferisce alla società il titolo per la gestione e la commercializzazione di “capitale naturale/servizi ecosistemici” su due milioni di ettari di un ecosistema forestale per cento o duecento anni. Sebbene la natura completa dell’accordo non sia stata divulgata, le indagini giornalistiche e la causa intentata da Adrian Lasimbang, un leader indigeno del Borneo malese, hanno rivelato che l’accordo di conservazione della natura ha permesso a Hoch Standard (una holding con due funzionari e un capitale versato dagli azionisti di soli 1.000 dollari americani, ma sostenuta da investitori privati multimiliardari non rivelati) di acquisire diritti commerciali sul capitale naturale dell’ecosistema forestale del Sabah. Le entrate derivanti dai diritti sui servizi ecosistemici, come l’approvvigionamento idrico, il sequestro del carbonio, la silvicoltura sostenibile e la conservazione della biodiversità, nel corso del prossimo secolo sono state stimate in circa 80 miliardi di dollari, di cui il 30%, ovvero 24 miliardi di dollari, andranno alla Hoch Standard. È stato stabilito che il governo del Sabah non può recedere dall’accordo, mentre Hoch Standard può vendere i suoi diritti sul capitale naturale della foresta del Sabah ad altri investitori senza il consenso del governo.
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La Bce detta le condizioni anti-spread per garantire il debito italiano: la Troika si avvicina
di Enrico Grazzini
Iniziano a essere chiari gli effetti delle decisioni della Bce di acquistare titoli pubblici (e alzare i tassi di interesse) e della Commissione di imporre ai governi il rientro dai debiti e dai deficit fiscali
L’inflazione alza la testa in tutto il mondo e la Banca Centrale Europea e la Commissione Europea rispondono inaugurando politiche monetarie e fiscali restrittive: la Bce da questo luglio cessa di acquistare titoli pubblici e alza i tassi di interesse; e la Commissione impone ai governi di rientrare ancora più rapidamente di prima dai debiti e dai deficit pubblici. Anche perché la Bce smette di finanziarli e quindi il loro costo aumenta. Per contrastare il caro-prezzi i due principali organismi dell’Unione Europea di fatto aggraveranno la crisi, freneranno la ripresa economica post-Covid del vecchio continente provocando più disoccupazione, migliaia di fallimenti e povertà.
L’aumento del tasso centrale di interesse deciso dalla BCE comporta che il credito diventerà più caro: le famiglie pagheranno di più per i mutui e le aziende pagheranno di più per i prestiti necessari per gli investimenti. L’economia verrà rallentata e quindi diventerà ancora più difficile pagare i debiti pregressi. Ci risiamo con l’austerità, questa volta nel nome della lotta all’inflazione. Però il fortissimo aumento del costo del petrolio, del gas e dei cereali, certamente non si cura strozzando il credito e la spesa pubblica perché è provocato dall’invasione russa dell’Ucraina e dai lockdown decisi in Cina dal governo contro la risorgenza del Coronavirus. I problemi del caro-prezzi dipendono quindi esclusivamente dalla carente disponibilità di materie energetiche causata dalla guerra in Ucraina e dai problemi produttivi della Cina, la fabbrica del mondo: anche un bambino comprende che in questo contesto frenare la spesa pubblica e il credito non solo non risolve nulla ma è controproducente.
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Fed e BCE nel vicolo cieco della politica monetaria
di Tomasz Konicz
Breve storia delle aporie della politica di crisi borghese nella transizione dell'economia mondiale dalla crisi pandemica alla crisi bellica
Dalla pandemie alla guerra, l'economia mondiale non ha più pace. Sul suo sito web, "Tagesschau" vede addirittura l'economia mondiale minacciata da «crisi multiple».[*1] Ma è proprio nel momento in cui si parla delle conseguenze economiche di quella che appare come una rapida erosione del sistema mondiale capitalistico, che va ora posta la questione se abbia davvero ancora senso parlare di una crisi economica pandemica o di una crisi economica relativa alla guerra, o se invece non sia più appropriato comprendere gli shock economici susseguenti come le fasi di un unico e stesso processo di crisi sistemica.
In ogni caso, nella sua ultima valutazione dell'economia globale la Banca Mondiale ha dovuto rivedere significativamente al ribasso le sue precedenti previsioni di crescita. [*2] Secondo tali previsioni, quest’anno l'economia globale dovrebbe crescere solo del 2,9%, mentre a gennaio la Banca Mondiale si aspettava ancora il 4,1%. Questo dimezzerebbe o quasi lo slancio economico globale, che nel 2021 grazie alle gigantesche misure di stimolo economico finanziate dal debito di molti Stati, aveva raggiunto un enorme aumento del 5,7%. Per molti Paesi emergenti e in via di sviluppo, i quali possono raggiungere la stabilità sociale solo con alti tassi di crescita, questo rallentamento economico è già di per sé pericoloso, soprattutto in un contesto di impennata dei prezzi dei generi alimentari. Inoltre, la Banca Mondiale ha messo in guardia dal rischio crescente di un periodo prolungato di stagflazione, simile alla fase di crisi degli anni '70, quando la stagnazione economica era accompagnata da un'inflazione a due cifre (per questo si veda anche: "Back to stagflation?" [*3]).
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Popolo ed esperti
di Cornelius Castoriadis
A cura di Raffaele Alberto Ventura è uscito quest’anno, per la Luiss University Press, una raccolta d’interventi e saggi di Cornelius Castoriadis, Contro l’economia: scritti (1949-1997). Il curatore – che possiamo considerare un vecchio amico di Nazione Indiana – ben conosciuto grazie a un fortunato saggio del 2017 (Teoria della classe disagiata, minimum fax) e di altri usciti successivamente, ha realizzato un prezioso lavoro di selezione, raccolta, traduzione e introduzione di undici testi del filosofo (ed economista) greco e francofono Castoriadis. La casa editrice della Luiss si è già distinta per scelte editoriali importanti. Nel suo catalogo troviamo, ad esempio, saggi di Barbara Ehrenreich e Timothy Morton. In questo caso, la proposta va a colmare un grande vuoto. Castoriadis è senza dubbio una delle figure intellettuali più importanti del secondo Novecento in Europa, figura di militante-intellettuale, attivo prima in partiti di orientamento trotzkista e poi nel gruppo autonomo Socialismo o barbarie, ma anche di economista stipendiato dall’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), di psicanalista e di filosofo, docente dal 1980 all’EHESS (Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales) di Parigi. (Su NI, ad esempio, lo pubblicammo qui e ne abbiamo già parlato qui). Più dei titoli e dell’ampiezza di interessi e competenze, è però decisivo il percorso intellettuale dell’autore, che lo porta ad attraversare e ad abbandonare il marxismo, senza rinunciare a sostenere un’idea radicale e rivoluzionaria di democrazia, ispirata in modo particolare – ma non esclusivamente – all’esperienza di Atene e dell’antica Grecia. I saggi raccolti da Ventura ritagliano la zona privilegiata della critica all’economia, che questo economista di professione non ha cessato di realizzare fuori e dentro le istituzioni internazionali. Ma in Castoriadis l’universo dell’economia è inseparabile da quello della società e delle “significazioni immaginarie” che quest’ultima – e qui parliamo soprattutto della società occidentale e capitalistica – attribuisce all’attività umana.
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Il solito ricatto contro gli elettori
di Matteo Bortolon
Un po’ inaspettatamente il governo Draghi è caduto e sono state fissate le nuove elezioni per il 25 settembre. Nemmeno l’inchiostro del decreto del 21 luglio che le stabilisce ha fatto in tempo ad asciugarsi che sono partiti appelli e richiami a sbarrare la strada alle destre mettendo assieme tutte le forze che vi si oppongono.
Nel suo articolo sul Manifesto di domenica 24 luglio il politologo Antonio Floridia suggerisce un “accordo tecnico” volto ad impedire che la coalizione Lega – Fd’I – FI possa conseguire una maggioranza così ampia da modificare la Costituzione senza passare per un referendum popolare.
Nel suo articolo si dà quasi per scontato che tale coalizione raggiunga la maggioranza, così da far assumere alla proposta una sorta di “riduzione del danno” minima: non fargli prendere i due terzi.
Nonostante il carattere abbastanza pragmatico e rassegnato, il pezzo non si sottrae ad una aggettivazione sopra le righe per designare l’esito che intende scongiurare: corriamo verso “il baratro”, tanto da bacchettare l’eccessivo purismo di chi si farebbe troppi problemi a fare accordi anti-destra: “ma ci si rende conto di dove si va a parare? […] non è tempo di fare gli schizzinosi”.
Insomma, al di là dell’obiettivo di garantire un referendum per non modificare la Costituzione, serpeggia non troppo velatamente il proposito, ricorsivo con una regolarità degna di un metronomo ad ogni tornata elettorale, di invitare alla “unità delle sinistre”, che si è velocemente trasformata nell’unità di tutto ciò che sta a “sinistra” di Forza Italia, per non “consegnare il paese alle destre”, eventualità vissuta come un cataclisma irreparabile con accenti apocalittici.
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Pilotare il clima planetario: un disegno autoritario
di Franco Piperno
Con questo testo Franco Piperno contesta, con argomentazioni che rimandano a fondamenta scientifiche, le tesi a sostegno dell’allarmismo per un incombente e irreparabile catastrofismo climatico causato principalmente dalle attività umane.
* * * *
Per rendersi conto del cambiamento climatico occorre preliminarmente capire cosa significa «clima».
Il clima è un sistema complesso che ha come componenti l’atmosfera, gli oceani, le terre emerse e le regioni coperte dal ghiaccio e dalla neve, regioni chiamate nel loro insieme criosfera.
Ogni componente è caratterizzato da «variabili di stato», e.g. la temperatura atmosferica, la salinità dei mari, l’umidità della terra, lo spessore del mantello di neve e così via.
Il cambiamento climatico interviene quando una perturbazione – detta «forcing» nel gergo tecnico –genera un flusso che altera le variabili di stato.
Più precisamente si definisce mutamento climatico ogni alterazione, che si sviluppi lungo una durata almeno decennale, dei flussi o delle variabili fisiche, chimiche, biologiche caratteristiche del sistema. La scala temporale delle decadi è usata per distinguere i cambiamenti climatici dalle vicende metereologiche che si svolgono a corto termine.
Va da sé che il clima muta continuamente da miliardi di anni; sicché il termine «cambiamento climatico» è in una certa misura ridondante.
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Il dollaro divora l’euro
di Michael Hudson
È ormai chiaro che l’escalation odierna della Nuova Guerra Fredda è stata pianificata più di un anno fa. Il piano americano di bloccare il Nord Stream 2 era davvero parte della sua strategia per impedire all’Europa occidentale (“NATO”) di cercare prosperità attraverso scambi e investimenti reciproci con Cina e Russia.
Come annunciato dal presidente Biden e dai rapporti sulla sicurezza nazionale degli Stati Uniti, la Cina era vista come il principale nemico. Ciò nonostante il ruolo utile della Cina nel consentire alle aziende americane di ridurre i salari del lavoro deindustrializzando l’economia statunitense a favore dell’industrializzazione cinese, la crescita della Cina è stata riconosciuta come l’ultimo terrore: la prosperità attraverso il socialismo. L’industrializzazione socialista è sempre stata percepita come il grande nemico dell’economia rentier che ha conquistato la maggior parte delle nazioni nel secolo successivo alla fine della prima guerra mondiale, e soprattutto dagli anni ’80. Il risultato oggi è uno scontro di sistemi economici: industrializzazione socialista contro capitalismo finanziario neoliberista.
Ciò rende la Nuova Guerra Fredda contro la Cina un atto di apertura implicito di quella che minaccia di essere una lunga terza guerra mondiale. La strategia degli Stati Uniti è quella di allontanare i più probabili alleati economici della Cina, in particolare Russia, Asia centrale, Asia meridionale e Asia orientale. La domanda era: da dove iniziare la spartizione e l’isolamento.
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Schmitt e la guerra
di Maurizio Lazzarato
Pubblichiamo l’intervento di Maurizio Lazzarato al convegno «Teologia politica 2022?», svoltosi all’Università Sapienza di Roma alla fine di giugno. Come negli altri articoli su Machina, l’autore approfondisce questioni decisive per analizzare il rapporto tra guerra e capitalismo, soffermandosi in particolare sul pensiero di Carl Schmitt. I temi qui affrontati sono ulteriormente sviluppati e articolati nel libro Guerra o rivoluzione. Perché la pace non è un’alternativa, di imminente pubblicazione nella collana Input di DeriveApprodi.
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Non c’era bisogno di essere Lenin per capire che la globalizzazione, i monopoli, gli oligopoli e l’egemonia del capitale finanziario ci avrebbero portato, ancora una volta, all’alternativa tra guerra o rivoluzione, socialismo o barbarie (la guerra è certa, mentre la rivoluzione, date le condizioni dei movimenti politici contemporanei, è altamente improbabile). La stessa situazione si era verificata un secolo fa. Sebbene in modo diverso, il collasso del capitale finanziario contemporaneo, salvato dall’intervento degli Stati, la frammentazione e la balcanizzazione della sua globalizzazione, l’ulteriore concentrazione del potere economico e politico per affrontare le difficoltà della finanza e del mercato globale, hanno prodotto dei risultati analoghi. La guerra rappresenta una «catastrofe» in termini tecnici, ossia un «cambiamento di stato». Non possiamo prevedere cosa accadrà, ma sicuramente il vecchio mondo, quello che abbiamo conosciuto negli ultimi cinquant’anni, sta crollando. In realtà, stava crollando già da diverso tempo.
La guerra in Ucraina affonda le sue radici e le sue ragioni in questi processi e non nell’autocrazia o nella follia di qualche individuo.
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"Liberare l'insegnamento dall'apprendimento"
Rifessioni politiche e pedagogiche intorno a un libro importante
di Daniele Lo Vetere
Gert J. J. Biesta è un importante filosofo dell’educazione, prima d’oggi mai tradotto nel nostro paese.[i] La pubblicazione di Riscoprire l’insegnamento (Raffaello Cortina Editore, 2022, pp. 153), per la cura di Francesco Cappa e Paolo Landri, mette a disposizione dei lettori italiani un pensiero pedagogico di grande interesse e sicura attualità, che merita ben più di una semplice recensione: direi l’avvio di una riflessione collettiva. È Biesta stesso che ci invita a una ricezione operosa: «Quelle esposte in questo libro non sono solo idee su cui riflettere […] ma forse, prima di tutto, idee con cui pensare» (pp. 4-5, corsivi originali). L’obiettivo del filosofo è rivalutare l’insegnamento e gli insegnanti, per una decisa correzione di quella che chiama «learnification dell’istruzione».
La «learnification dell’istruzione»
La critica di Biesta alla learnification è condotta ad un livello di rigorosa pertinenza pedagogica e didattica, ma è ricca di implicazioni politiche.
Nella letteratura scientifica «la diade teaching and learning è così onnipresente che spesso sembra essere condensata in un’unica parola – teachingandlearning». Biesta suggerisce che si possa sviluppare un discorso sull’educazione nel quale quella diade venga spezzata. Come nella vita si danno moltissimi casi di apprendimento senza bisogno di insegnamento, così l’insegnamento potrebbe essere un’attività (relativamente) indipendente dall’apprendimento: «l’insegnamento non deve necessariamente mirare all’apprendimento» (p. 33). Se quest’idea appare paradossale, ciò dipende proprio dal fatto che la «svolta verso l’apprendimento a scapito dell’educazione» è ormai diventata senso comune.[ii]
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La politica del debito estremo e l'adattamento ai cambiamenti climatici nel Sud globale
di Tomasz Konicz
Il debito estremo sta cominciando a sfuggire di mano, soprattutto in Africa e nel Sud globale, dove le crisi economiche e climatiche in generale si intrecciano, alimentandosi a vicenda e rendendo evidente che i limiti interni ed esterni del capitale sono stati raggiunti, come sostiene Tomasz Konicz nel suo contributo alla serie di testi sulla "Berliner Gazette" (BG), "After Extractivism"
Il tardo capitalismo non può più permettersi politiche climatiche costose. Soprattutto non può proprio laddove è più urgente: nel Sud globale. All'inizio del mese di giugno, la Banca Mondiale ha annunciato una grave crisi del debito nei Paesi a «basso e medio reddito», come conseguenza dell'elevato debito pubblico globale, salito alle stelle durante la risposta alla pandemia e del tutto simile all'ondata di fallimenti sovrani e crolli economici che negli anni Ottanta hanno devastato molti Paesi in via di sviluppo. Nel rapporto viene detto che, rispetto al 2019, ci saranno altri 75 milioni di persone alla periferia del sistema globale che - a causa del forte indebitamento, dell'inflazione e del rapido aumento dei tassi di interesse che porteranno a una situazione economica «simile a quella degli anni '70» - rischiano di cadere in «estrema povertà». Dei 305mila miliardi di dollari a cui ammonta oggi la montagna di debito globale, le economie emergenti, compresa la Cina, totalizzano circa 100mila miliardi di dollari. Nel 2019, alla vigilia della pandemia, il debito globale totale era pari a circa il 320% della produzione economica mondiale. Oggi si attesta al 350%, dopo aver raggiunto, nel 2020, un picco del 360%. Tuttavia, gran parte della crescita del debito - resa possibile principalmente dalle banche centrali che stampano denaro - è avvenuta proprio nella semiperiferia. Più dell'80% del debito che si è accumulato lo scorso anno, è stato generato di recente nei mercati emergenti.
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Il rebus di uno Stato criminale
di Giorgio Salerno
Come chiamereste un soggetto che pratica da oltre settant’anni violazioni dei diritti umani e del corpus di norme scritte nei trattati internazionali? Le opzioni, come gli aggettivi, possono essere varie ma nessuna di esse potrebbe discostarsi molto dal concetto di criminalità seriale o, meglio, sistematica. L’applicazione delle regole giuridiche è un principio cardine degli ordinamenti liberali. Eppure, tutti gli Stati – e le coalizioni politiche ed economiche di Stati – che a quegli ordinamenti si ispirano senza alcuna esitazione, fanno eccezione nel caso dell’apartheid israeliano nei confronti di un intero popolo. Per chi non crede alla volubilità del destino, ci sono rilevanti cause storiche, geopolitiche e commerciali a spiegare le ragioni di tanta impunità. Quel che, per molti versi e alla luce dei decenni trascorsi, risulta davvero difficile da spiegare è dove abbia trovato la forza per non arrendersi quel popolo perseguitato, umiliato e ucciso ogni giorno.
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Nei primi giorni di luglio l’Alta Corte di Israele ha emesso una sentenza di ampia immunità per lo stato riguardo ai crimini di guerra compiuti a Gaza. Adalah e Al Mezan, associazioni palestinesi per i diritti umani – a sostegno della richiesta di risarcimento di Attiya Nabaheen, che aveva 15 anni quando fu colpito dal fuoco dei soldati israeliani, nel cortile davanti a casa sua mentre rientrava da scuola a Gaza nel novembre 2014, rimanendo paralizzato – avevano contestato una legge del 2012, secondo la quale gli abitanti della Striscia di Gaza non possano ricevere risarcimenti da parte di Israele, in quanto dal 2007 è stata dichiarata “territorio nemico”.[1] Colpire i civili è un crimine di guerra, secondo il diritto internazionale: ma per Israele e i suoi alti magistrati, non conta niente.
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La soluzione capitalista per “salvare” il pianeta: trasformalo in una classe di asset e vendilo
Lynn Fries intervista John Bellamy Foster
John Bellamy Foster spiega la “soluzione” ideata dalla finanza globale per risolvere l’imminente crisi ambientale: creare un patrimonio del valore di un multi-quadrilion di dollari sul retro di tutto ciò che la natura fa ed espropriarlo dai beni comuni globali per realizzare un profitto. Peggio ancora: sta già accadendo
L’ospite di oggi è John Bellamy Foster. Parlerà della finanziarizzazione della terra come nuovo regime ecologico. Un regime in cui la rapida finanziarizzazione della natura sta promuovendo una Grande Espropriazione dei beni comuni globali e l’espropriazione dell’umanità su una scala che supera tutta la storia umana precedente. E che sta accelerando la distruzione degli ecosistemi planetari e della terra come casa sicura per l’umanità. Il tutto in nome di salvare la natura trasformandola in mercato.
Gli articoli delle recensioni mensili dei nostri ospiti: La difesa della natura: resistere alla finanziarizzazione della terra e alla natura come modalità di accumulazione: il capitalismo e la finanziarizzazione della terra descrivono in dettaglio questo argomento.
Insieme a noi dall’Oregon, John Bellamy Foster è professore di sociologia all’Università dell’Oregon ed editore di Monthly Review. Ha scritto ampiamente sull’economia politica ed è un importante studioso di questioni ambientali. È autore di numerosi libri tra cui Ecology: Materialism and Nature di Marx , The Great Financial Crisis: Causes and Consequences , The Ecological Rift: Capitalism’s War on the Earth . Un prossimo libro, Capitalism in the Anthropocene: Ecological Ruin or Ecological Revolution, uscirà presto da Monthly Review Press. Benvenuto, John.
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LYNN FRIES: Ciao e benvenuto. Sono Lynn Fries produttore di Global Political Economy o GPEnewsdocs. L’ospite di oggi è John Bellamy Foster. Parlerà della finanziarizzazione della terra come nuovo regime ecologico. Un regime in cui la rapida finanziarizzazione della natura sta promuovendo una Grande Espropriazione dei beni comuni globali e l’espropriazione dell’umanità su una scala che supera tutta la storia umana precedente. E che sta accelerando la distruzione degli ecosistemi planetari e della terra come casa sicura per l’umanità. Il tutto in nome di salvare la natura trasformandola in mercato.
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L’economia politica fra scienza e ideologia
di Ascanio Bernardeschi
Parte prima
Premessa
In una lettera a un operaio inglese, Karl Marx scriveva a buona ragione che l’opera alla quale stava lavorando avrebbe costituito il più terribile proiettile scagliato contro la borghesia. Non si tratta solo del fatto che Il capitale individua l’unica fonte del valore nel lavoro, mostrando come all’origine dei profitti e della rendita ci sia il lavoro non pagato. A questo risultato, sia pure in termini meno rigorosi, erano giunti anche i socialisti ricardiani e limitarsi a considerare questo solo aspetto sarebbe fortemente riduttivo della ricchezza della critica marxiana dell’economia politica. Per non dilungarmi troppo, indico qui solo alcuni spunti.
1. Occorre distinguere fra oggetti comuni ai diversi modi di produzione (beni, mezzi di produzione, lavoro utile ecc.) e forme sociali storicamente determinate in cui tali oggetti si presentano nel modo di produzione capitalistico (merci, capitale, lavoro astratto ecc.). A differenza di quanto sostengono gli economisti classici, il capitale è visto da Marx come un rapporto sociale storicamente determinato e non solo come un insieme di beni impiegati nella produzione, cosa necessaria e comune a ogni modo di produzione. Ciò comporta che il capitalismo non sia un orizzonte naturale, necessario ed eterno, ma corrisponda a una determinata fase della storia: non è esistito prima, non ci sarà una volta che l’uomo avrà superato questa fase della storia umana.
2. Il capitale costituisce la condensazione, l’accumulo di lavoro sfruttato in passato. Inoltre, i presupposti del capitale – la concentrazione della proprietà dei mezzi di produzione nelle mani del capitalista, l’esistenza di lavoratori spossessati di tali mezzi e l’esistenza di un vasto mercato delle merci – vengono continuamente posti dal capitale stesso, che riproduce su scala allargata le condizioni della propria esistenza.
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In cammino
di Il Lato Cattivo
Prefazione ad un’antologia di testi de Il Lato Cattivo di prossima pubblicazione in Grecia
Riesaminare il contenuto di questi scritti «d’occasione», elaborati generalmente «a caldo» e in tempi brevi, è per chi scrive un esercizio necessario ma non sempre appagante. Il tempo è un giudice implacabile. Nel distacco che esso consente, le analisi deboli risaltano più di quelle solide, le ipotesi fallaci più di quelle pertinenti. Ciò è vero a maggior ragione dopo lo scoppio della «crisi da Covid-19», che pone la teoria comunista di fronte a una forma di crisi del tutto atipica, e ancora lungi dall'aver dispiegato tutti i suoi effetti in termini economici, politici e sociali. Nell'elaborazione di questa prefazione, il nostro riflesso spontaneo è stato, di primo acchito, quello di voler completare, precisare e correggere gli assi di riflessione, le articolazioni, le proiezioni contenute in questi testi. Dopo ulteriore ponderazione, e nella consapevolezza della ridotta risonanza delle nostre posizioni e attività, in particolare a livello internazionale, ci è sembrato invece più opportuno fornire ai lettori e alle lettrici di Grecia, qualche elemento sul percorso in cui questi testi si inscrivono, ovvero cercare di rispondere a domande in apparenza semplici: «da dove veniamo?», «dove andiamo?».
Chiariamo fin da subito che quella de Il Lato Cattivo, cominciata una decina d'anni fa, è una storia che riguarda pochi individui: una cerchia ristretta che nei momenti migliori si è potuta contare sulle dita di una mano, e una platea di interlocutori assidui che al massimo riempirebbe l'altra mano. Dal punto di vista aggregativo, per non dire «organizzativo», è dunque una storia di solitudini e di insuccessi, di tentativi non necessariamente infruttuosi, ma sempre estemporanei, di allargare la cerchia oltre gli iniziatori, i quali restano ad oggi i soli superstiti.
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