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ospite ingrato

Marco Gatto, Fredric Jameson

di Roberto Finelli

Marco Gatto, Fredric Jameson, Roma, Futura Editrice, 2022

2022.6.13. JAMESONI. Un modo originale di ripensare la dialettica

Non deve sorprendere il fatto che Marco Gatto, uno dei nostri migliori studiosi di critica letteraria e di teoria della letteratura, abbia sentito la necessità di ritornare con un testo completamente nuovo (Fredric Jameson, munito di una prefazione dello stesso Jameson) sulla figura dell’intellettuale americano, cui aveva già dedicato un volume nel 2008, Fredric Jameson. Neomarximo, dialettica e teoria della letteratura, edito da Rubbettino. Non deve stupire perché, benché già il testo precedente contenesse un’esposizione accurata ed esauriente di un autore assi poco presente nella cultura italiana, Gatto dopo quindici anni deve aver avvertito una maggiore capacità da parte sua di possedere e stringere la tematica assai varia e complessa di un autore che si diffonde nei più vari campi del sapere estetico-letterario e teorico-politico, qual è Jameson. Avvertendo nello stesso tempo la necessità di restituire al lettore con maggiore sistematicità e chiarezza teorica la lunga e multiforme attività di quello che, al di là della produzione ancora in atto, è stato senza dubbio il teorico marxista più influente del secondo Novecento.

Non che un intellettuale dello spessore di David Harvey non possa non essere considerato anch’egli come l’altro teorico di maggiore profondità speculativa e di maggiore sistematicità nell’ambito del marxismo dell’ultimo cinquantennio. Ma la peculiarità tutta propria di Jameson rispetto alla pari grandezza del sociologo e geografo britannico si connota per aver trattato, per tutta la sua vita, non la materialità della struttura e della produzione economica, quanto invece i termini in cui un modo sociale di produzione vive attraverso la produzione della cultura e dell’immaginario, attraverso cioè la diffusione e la generalizzazione del cosiddetto simbolico, con un’attenzione peculiare rivolta essenzialmente, ma non solo, ai manufatti estetici e letterari.

Tanto che i due autori, Jameson ed Harvey, vanno di necessità letti insieme, come testimonianza di un marxismo angloamericano che, rielaborando originalmente la tradizione dialettica europea e schivando le insidie decostruzionistiche della French Theory, non cessa di essere lettura, a mio avviso, adeguata e irrinunciabile del presente. Con la consapevolezza tuttavia, assai ben presente nella ricostruzione di Gatto, che tutta l’opera teorica di Jameson, considerata nell’intero arco della sua produzione, si connota già a partire dal testo del 1961, Sartre. The Origins of a Style, per una sua particolare e incomparabile singolarità. Che è quella di considerare il capitalismo della globalizzazione e della socializzazione universale attraverso merce non solo come processo sistemico e totalizzante (tratto teorico, questo, in comune con Harvey), ma come totalità sistemica che include dentro di sé la propria autonegazione e dissimulazione. Nel senso che qui, in un capitalismo che è diventato mondo, il simbolico, il culturale, è giunto a tradursi tutto nell’ideologico, svuotando la cultura di qualsiasi appropriata conoscenza critica.

Perché questa è la tesi di fondo di Marco Gatto, pronunciata qui con una nettezza concettuale ancora più risoluta di quanto già espresso nel libro precedente. E cioè che, attraverso l’analisi delle forme più diffuse della coscienza individuale e collettiva oltre che dell’estetica dei manufatti artistici e architettonici, della configurazione dello spazio urbano e della vettorialità del tempo del presente, Jameson abbia compreso che il capitalismo è una vera e propria “totalità concreta”, nel più pieno senso hegeliano. Ossia che contiene, oltre a tutto il resto, anche la negazione di sé, perché produce una superficie, quale forma generalizzata di coscienza e di percezione, che ha lo scopo, non di lasciare apprendere e conoscere attraverso l’esperienza, quanto invece di occultare, nascondere e contraddire il suo più profondo e reale contenuto.

Gatto ripercorre tutta la smisurata produzione di Jameson, concentrandosi ovviamente sulle opere maggiori, da Marxismo e forma (1971) e L’inconscio politico (1981), a Postmodernismo (1991), fino ai più recenti Valences of the Dialectic (2009), Allegory and Ideology (2019), The Benjamin Files (2020). Ma quello che maggiormente gli preme in questa ricostruzione, pure analitica e particolareggiata, è di riuscire a ben definire quale sia per Jameson la movenza fondamentale della società moderna nel suo vivere e realizzarsi come totalità sistemica e, specificamente, quale sia il nesso tra produzione di beni economici e produzione di forme generalizzate della coscienza. Evitando ovviamente di ricadere nei vecchi e caduchi riduzionismi da sovrastruttura a struttura, tanto più se ancora legati a vieti automatismi del rispecchiamento o a teorie della funzione degli intellettuali come induttori di falsa coscienza.

Già la definizione di cosa sia «dialettica» depositata da Jameson nel testo di Marxismo e forma rivela infatti per Gatto l’originalità e la lontananza dell’intellettuale statunitense da una tradizione di dialettismo convenzionale e meccanico, basata sulla concezione della contraddizione come opposizione e conflitto tra polarità contrapposte e sulla sua pervasività, quale appunto relazione di opposti presente nell’intera realtà.

Laddove per Jameson si dà dialettica solo quando uno dei due opposti non ha una qualsivoglia consistenza di realtà, ma è costituito invece da un’assenza, da qualcosa intrinsecamente negativo, perché, pur essendo attivo e producendo effetti sul reale, non è mai percepibile, non è mai concretamente e positivamente esperibile. «Potremmo dire tutto ciò in altro modo – secondo il passo che Gatto cita di Jameson – osservando che entrambi i poli dell’opposizione binaria sono positivi, entrambi esistenti, ugualmente presenti a occhio nudo: mentre per costituire un’autentica opposizione dialettica bisogna che uno dei termini sia negativo, sia un’assenza» (pp. 48-49).

A chi ha buona memoria di discussioni famose, almeno in Italia, su questi temi, certamente non sfugge che era proprio il primo tipo di opposizione, tra forze parimenti reali ma di segno contrario (l’opposizione cosiddetta “kantiana”), che Lucio Colletti nella sua Intervista politico-filosofica riconosceva come l’unico possibile oggetto di una scienza, condannando il Marx del Capitale al disvalore della non-scienza e della ideologia perché assertore invece di una opposizione di secondo genere, in quanto dialettica strutturata sulla negazione (l’opposizione cioè di matrice “hegeliana”).

Ma appunto, anche per quello che è l’interesse filosofico e politico di chi scrive, il libro di Gatto è prezioso proprio perché, attraverso la figura e il pensiero di Jameson, torna a riproporre l’indispensabilità del sapere dialettico per i processi di socializzazione e di globalizzazione del nostro presente storico, a patto che la categoria di negazione sia affrancata dall’univocità e dall’ipostatizzazione logico-ontologica propria della filosofia di Hegel e sia invece aperta e sviluppata in una dimensione di “leggerezza” e di volatilità, propria appunto dell’assenza.

Perché, come si teorizza nell’Inconscio politico, tre sono gli orizzonti di senso e di studio che strutturano i testi letterali e culturali. Il primo è quello che li definisce come “atti simbolici”, cioè configurazioni narrative e rappresentative che hanno una loro coerenza e autonomia di forma e contenuto ma che contemporaneamente rimandano, nella loro immediatezza, al contesto più ampio di relazioni, mediazioni e contraddizioni storico-sociali di cui fanno parte. Il secondo è quello dei discorsi e delle culture che si contrappongono tra le diverse classi sociali e nei cui ideologemi, o valori e credenze di fondo, affonda necessariamente il primo livello, al di là della sua immediatezza narratologica. Il terzo, con un allargamento concentrico o profondità di senso ancora maggiore, è invece il contesto costituito dal modo di produzione, quale forma della produzione materiale, che appunto ben presente, ma in assenza, condiziona la produzione della cultura, in quanto contenuto e produzione di entrambi i livelli precedenti. Vale a dire che c’è sempre un extratesto (l’inconscio storico) che dialoga dialetticamente con il testo originario e che è compito del critico, culturale e politico insieme, farlo emergere alla luce attraverso la sua attività ermeneutica e ricostruttiva.

Dunque qui dialettica, con una profonda innovazione teorica, significa ora nesso di inconscio e conscio, per cui un contenuto latente, non manifesto, ma pure realissimo, produce effetti di realtà nella scena di una superficie che invece pretende di consistere e valere in una sua autonoma conclusività. Motivo per cui è «l’atto estetico a essere in sé ideologico», sottolinea Gatto citando Jameson, dato che presume di risolvere nella coerenza della sua forma (che non può non attingere data la sua natura di atto che genera qualcosa di nuovo) un contenuto alla fin fine storico-sociale: che invece, per i suoi antagonismi strutturali, non può essere mai ricondotto a unità e a coerenza. Il testo cioè dialoga contraddittoriamente con l’extra-testo, dove, di nuovo, contraddizione non rimanda a polarità contrapposte ma ad una rottura di continuità tra forma e contenuto, in quanto contrariamente alla lezione di Benedetto Croce la forma estetica non è l’espressione più adeguata e congrua di un determinato contenuto ma ne è il tratto deformante e mistificante che vieta di esprimere e di narrare quello stesso contenuto.

Solo che, come s’è detto, il dualismo testo/contesto si struttura secondo un’articolazione, che, a ben vedere, è triplice, giacché di sottotesti se ne danno due. Quello più profondo, il cui senso sta nel modo sociale di organizzare, produrre e distribuire la ricchezza, e che come tale, viene definito da Jameson lacanianamente il “Reale”, in quanto per definizione non ha accesso al simbolico, cioè non è oggetto di discorso e di cultura, tanto che le sue asimmetrie e opposizioni potrebbero essere risolte solo con una trasformazione di quel tipo materiale di prassi. E quello più propriamente “ideologico”, cioè quel complesso di parole, di immagini, di consuetudini teoriche, di configurazioni di valori, con cui la cultura prova a dare senso all’esperienza umana, e da cui non può non trarre alimento il testo esplicito. Ma che, per la sua rimozione del Reale, non può che essere, a sua volta, il luogo dell’aporia e della contraddizione logica, in quanto cerca di comporre nell’organicità del concetto ciò che nel Reale è scisso e disorganico.

È questa verticalità dei tre livelli interpretativi che Jameson ha concepito riguardo all’ermeneutica di qualsiasi testo (il testuale-simbolico, l’ideologico-politico, lo storico-economico), con la definizione dell’ultimo come ambito strutturato “a scomparsa”, che fa ben intendere l’originalità del critico americano e quanto e come egli si discosti da qualsiasi versione meccanicistica, e da marxismo volgare, del nesso di struttura e sovrastruttura. Giacché qui non si dà luogo a nessuna teoria del riflesso o del rispecchiamento quanto invece ad una esplicita mutuazione da una teoria freudiana della stratificazione tra coscienza e inconscio, dislocata dal campo d’origine propriamente psicoanalitico a un orizzonte sistemico storico-socio-culturale. Con l’ulteriore notazione, da aggiungersi, che qui il Reale di Jacques Lacan assume, a ben vedere, solo la denominazione, visto che il terreno più profondo dell’essere sociale non è l’abisso heideggeriano in cui si versa l’inconscio inesperibile e radicalmente altro lacaniano, ma è il ben identificabile e, alla fin fine, scientificamente conoscibile, modo capitalistico di produzione.

 

II. Il post/moderno come dialettica culturale dell’iper/moderno

È appunto attraverso l’adesione a un materialismo storico ripensato secondo categorie e stratificazioni psicoanalitiche che Jameson è giunto alla sua opera più celebre che lo ha reso famoso in tutto il mondo. Cioè a quel Postmodernismo in cui l’intellettuale americano ha avuto modo di descrivere il nostro tempo più contemporaneo come il momento storico in cui cadono, secondo le parole di Gatto, «la globalizzazione delle abitudini mentali e degli stili di vita, l’accentuata divisione del lavoro, la mondializzazione dei mercati, la sempre più agguerrita ideologia del privato, l’egemonia della superficie, la trasformazione del corpo in cultura, la frammentazione dell’esperienza, l’impossibilità di accertare una verità, e via dicendo» (pp. 87-88).

In coerenza con quanto s’è detto fin qui per Jameson comprendere cosa sia stato (e per qualche verso cosa sia ancora) il postmodernismo, come nuovo stile generalizzato di cultura e di pensiero, implica non considerarlo nella sua pretesa autonomia bensì come l’altra faccia – ossia come la configurazione più propria sul piano delle idee – della ipermodernità, o come il critico americano preferisce dire, del “tardo capitalismo”. Di contro agli esaltatori del postmoderno, quale pensiero postideologico e celebrativo della differenza e di un’ermeneutica mai conclusa del senso, Jameson ha infatti sempre connesso post- e ipermoderno in una relazione a suo avviso inscindibile, pena il cadere nell’incomprensione radicale della nostra contemporaneità. Dove ipermodernità designa, come dice chiaramente il termine, radicalizzazione della modernità quale società fondata sul capitalismo nel verso della sua estensione e generalizzazione.

Il “post” deve dunque essere costantemente letto alla luce dello “iper” e viceversa. Ma questo può avvenire solo in quanto si sia capaci di accedere a una teoria della produzione materiale di capitale che sia intesa contemporaneamente come un processo complessivo di esteriorizzazione e di estetizzazione di realtà. Giacché una generalizzata e onnipervasiva produzione e circolazione di merci non può che produrre un effetto altrettanto generalizzato di feticismo, cioè di esperienze di cose e di merci che, nella loro figura immediata di mercato, occultano tutto il percorso e le relazioni sociali che li hanno generati. È il capitalismo stesso cioè che, in quanto civiltà della merce, produce una singolare superficializzazione della realtà sociale, giacché, rimuovendo un contenuto costituito di relazioni sociali, promuove uno sguardo collettivo che educa solo alla superficie e alla seduzione che ne deriva, tanto più se la sua esteriorità brilla di colori e di abbellimenti eccitanti e sovratono. A ben vedere, è il trionfo della spazialità sulla temporalità, di un’immagine senza spessore sulle mediazioni che in effetti la istituiscono e le danno forma, delle scarpe sfavillanti di Andy Warhol rispetto all’intensità di senso e di storia delle scarpe contadine (Les Souliers) ritratte da Van Gogh. Tanto che a proposito del postmodernismo Gatto può rimarcare che «L’abolizione della profondità è allora uno dei suoi portati ideologici più evidenti» (p. 98). Si tratta cioè di una modificazione del percepire e del pensare di conseguenze gigantesche, perché con la perdita della profondità delle mediazioni e con la celebrazione dell’immediatezza, ciò che declina è la forza del sentire, di quel sapere emozionale in cui solo può consistere la ricerca di un’autenticità d’esperienza e di verità: declino dell’affetto che viene sostituito e compensato con sentimenti d’euforia e di eccitazione promossi dalla coloritura, come si diceva, fittizia e non durevole dell’accadere. Tanto che è l’idea stessa di soggetto, di continuità dell’Io, che viene meno, con la tendenza a vedere nell’essere umano la provvisorietà di un aggregato che costantemente si decostruisce in ogni sua possibile identità per essere ancor più adeguato alla fluidità e alla frammentarietà della sua esperienza. Con la conseguente trasformazione radicale ed epocale di ciò che è cultura e teoria, perché ciò che vale ora è un atteggiamento decostruttivo di ogni continuità e sistematicità della realtà che vede in una possibile, anche pur minima, invarianza strutturale dell’oggetto e del soggetto solo la testimonianza di un’attitudine teorica classicamente moderna, e dunque proprie di un mondo che oggi non è più. Ma è sostanzialmente l’intera cultura, pressoché nella sua totalità, che si risolve in una lettura delle pratiche, dei discorsi e dei giochi testuali, che è fondata, scrive Gatto «su strategie epidermiche e superficializzanti, spesso tese a una qualche forma di liberazione concettuale senza freni e capaci di un permanente rinnovamento per il fatto stesso d’essere fenomeni esclusivamente testuali» (p. 98).

Qui ci si deve fermare in questa che è null’altro che una recensione. Ma senza dimenticare di considerare, data la ricchezza della ricostruzione di Gatto, i riferimenti ai testi dell’autore americano, scritti dopo il 2000, che tornano a dimostrare nella loro varietà l’ampiezza dei suoi interessi e nello stesso tempo la fondamentale continuità, quanto a riproposizione di un pensiero dialettico modificato e a tensione verso la totalità, dell’opera dell’intellettuale della Duke University. Basti pensare al volume The Hegel Variations del 2010 che tratta della Fenomenologia dello spirito e Representing «Capital», rilettura del primo libro del Capitale. Ma anche e soprattutto a testi, come Archaelogies of the Future. The Desire Called Utopia and Other Science Fictions (2005), Valences of Dialectic (2009), Allegory and Ideology (2019), in cui Jameson, dialogando con autori come Adorno, Brecht, Benjamin, Marcuse e molti altri, cerca vie d’uscita da una totalizzazione culturale negatrice della totalità e prova, attraverso considerazioni peculiari, quali ad esempio quelle su “allegoria” e “desiderio utopico”, a riaprire discorsi minoritari ma anticipatrici di senso nel dramma della omologazione generale in atto ad un’unica forma capitalistica di società e di vita.

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