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Res Publica e beni comuni
Riccardo Petrella
A pochi giorni dai referendum mi sembra utile socializzare la prefazione di Riccardo Petrella al suo libro RES PUBLICA E BENI COMUNI, pensare le rivoluzioni del XXI secolo. Credo che possa aiutare a chiarire il contesto e le ragioni della nostra battaglia per l’acqua bene comune. Buona lettura!
I beni comuni. Le due questioni di fondo.
Al centro del dibattito teorico e politico sui beni comuni nei paesi occidentali vi sono due questioni fondamentali.
La prima riguarda il principio/ruolo dello Stato (più precisamente, di governo e, quindi, di sovranità e di sicurezza). La seconda è relativa al principio di gratuità (della vita). I gruppi sociali dominanti hanno imposto il principio di “governance” ed hanno monetizzato la vita.
La “Governance” al posto del governo
L’uso del concetto di “governance” risale alla seconda metà degli anni ’70 allorché l’economia occidentale si trovava alle prese con la rincollatura dei cocci del sistema finanziario andato in frantumi nel periodo 1971-73 (fine della convertibilità del dollaro in oro e dei tassi di cambio fissi, fine dei controlli sui movimenti di capitale, esplosione del mercato delle divise, liberalizzazione dei mercati, deregolamentazione e privatizzazione del settore…).
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Il comunismo come verità e seduzione
L’idea di comunismo
Enrico Donaggio
Franco Fortini
Democratici sinceri o perplessi, guardiani della rivoluzione di destra e sinistra, grandi e piccoli inquisitori paiono avere tutti in tasca la medesima foto di famiglia della tribù occidentale: la perturbante stilizzazione del nostro gusto di vivere profetizzata da Tocqueville quasi due secoli orsono. L’homo democraticus come «ultimo uomo», la meschinità piccolo-borghese come tratto antropologico globale. Nulla di grande per cui lottare e morire, piaceri volgari da consumare ad libitum. Con i dannati della terra che, invece di far saltare il banco, cercano in ogni modo un’inclusione entro i confini blindati di un regime di apartheid planetario. Fine della storia sazia e felice, dove ogni anelito di riconoscimento, giustizia e uguaglianza si perverte in umiliante omologazione di massa.
Di fronte alla diagnosi del presente oggi più in voga, la nostra reazione non è molto diversa da quella su cui il dottor Bernard Mandeville esercitò l’arte del paradosso. Il quadro indigna l’amor proprio e la sensibilità morale, ma l’applicazione intransigente dei princìpi virtuosi che animano il nostro sdegno comporterebbe la fine di una condizione a cui, in fondo, non siamo disposti a rinunciare. È il circolo vizioso del benessere capitalistico: ne godiamo, lo accresciamo con i nostri comportamenti quotidiani, sognando al contempo quel mondo più giusto che ne decreterebbe il tracollo. «Vivere nell’agio senza grandi vizi, è un’inutile utopia nella nostra testa», sentenzia l’autore della Favola delle api, un trattato di schizofrenia sociale che ha fatto scuola tra critici e apologeti del modo oggi dominante di esistere e produrre.
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L’intenzione è quella
di Augusto Illuminati
Lo storico incontro di Arcore fra Berlusconi, Bossi e Tremonti si è chiuso, a quanto pare, con un nulla di fatto. Ne sono scaturite pensose dichiarazioni, tipo «E' programmata la riforma fiscale, poi vedremo cosa si potrà fare», meglio ancora «Noi vogliamo sempre farlo [il taglio delle aliquote], ma bisogna vedere se le condizioni ci consentiranno di farlo. L'intenzione è quella». L’intenzione. E chi ne dubita. Anche a me piacerebbe il taglio dell’aliquota marginale. Ma Tremonti sembra poco d’accordo. Anzi, qualcosa mi dice che la pressione fiscale in Italia sia destinata a salire. L’esito della riunione è sintetizzabile nelle confidenze del Premier al suo arrivo in serata al carosello dei Carabinieri a piazza di Siena: «È andato tutto bene, tranne che per Tremonti». Come dire: facciamoci un bloody Mary senza la vodka. L’intenzione, appunto.
Del resto, che la situazione economica non quadrasse con la disperata ricerca di regalìe elettorali lo si sapeva in partenza. Cos’altro intendeva il sottosegretario Gianni Letta alla vigilia del summit nella sede bunghesca di Villa San Martino, dopo aver parlato di giornate molto calde per i rapporti fra Pdl e Lega? Rivolgendosi a Mario Monti ha dichiarato: «Ti ringrazio per il richiamo alla responsabilità, quando hai detto che le prossime tre settimane saranno settimane chiave per l'Europa. Temo che lo saranno anche per l'Italia». Viene in mente una finanziaria da 46 miliardi, imposta da Europa, Fmi e agenzie di rating, altro che riforma fiscale, trasferimento del carico dalle imposte dirette a quelle indirette (con la Bce arcigna nemica dell’inflazione!) e allegre spese clientelari per rimpolpare l’elettorato “responsabile“ e acquietare i padani con «uffici di rappresentanza di ministeri altamente operativi» –cioè senza portafoglio, di seconda fila. In ogni caso, è confermato il pareggio del bilancio per il 2014. Stavolta la barzelletta l’ha raccontata il “libero servo” Alfano, non il Cav.
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Il paese della realtà virtuale
di Francesco Piccioni
Cesare Battisti è definitivamente libero. Non più arrestabile. Al massimo potrà essere ucciso o rapito da qualche sicario inviato dai tanti fascisti di un paese fascista nella struttura culturale, prima ancora che nelle tessere di partiti in qualche modo riconducibili a quella fogna.
Ora possiamo dunque dirlo con chiarezza: Battisti è un piccolo uomo, forse uno scrittore - comunque mediocre. Il suo gruppo armato, negli anni '70, è stato uno dei più indifendibili; autore di azioni che, sparate ideologiche a parte, non trovavano senso politico neppure in quegli anni. Figuriamoci a 40 anni di distanza. Da esule, ha sempre anteposto se stesso alla "comunità" degli esuli, comportandosi al contrario di Oreste Scalzone e tanti altri.
Detto semplicemente: è un essere umano che per fortuna non abbiamo mai avuto la sventura di frequentare.
In ogni caso: ora è un uomo libero ed è giusto che lo sia.
Per chi non lo sa (e in Italia non lo sa nessuno, visto che la stampa si guarda bene dall'entrare nei dettagli, preferendo i "titoli forti” e i pugni al cervello): in qualsiasi paese si rifiuta l'estradizione se la pena prevista dal richiedente è superiore a quella in vigore in casa. Esempio: l'Italia, giustamente, non estrada (o non dovrebbe farlo) verso paesi in cui per quel reato è prevista la pena di morte.
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Note a margine dell’E-G8
InfoFreeFlow
È difficile capire per quale motivo tante aspettative fossero state riposte nel G8 di Internet svoltosi a Parigi lo scorso 24/25 maggio. Fortemente voluto dalla presidenza francese di Nicholas Sarkozy si è certo trattato di un evento senza precedenti ed a suo modo storico, visto che mai fino ad oggi i summit dei potenti della terra avevano posto all’ordine del giorno il nodo della govenance globale della rete.
Il fatto che siano effettivamente riusciti ad affrontarlo è però tutt’altro paio di maniche.
Le dichiarazioni ufficiali susseguitesi fin dall’apertura dei lavori hanno infatti messo in risalto come, dietro alla formalità conciliante del linguaggio diplomatico e d’impresa, esistesse un malcelato arroccamento dei diversi partecipanti su posizioni pregresse e consolidate da tempo.
Gli opposti schieramenti hanno sfoderato per la “grande occasione” il meglio del loro armamentario ideologico.
Sarkozy ha optato per un richiamo civilizzatore nella lotta contro la categoria metafisica del “male” che, a suo dire, galoppa inarrestabile lungo le sconfinate e selvagge praterie della rete.
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Una politica economica per la decrescita
di Marino Badiale, Massimo Bontempelli
La principale questione che si pone a chi voglia dare spessore concreto al pensiero della decrescita è quella della transizione dalla attuale società della crescita ad una società, appunto, della decrescita. Per prima cosa occorre precisare che ragionando su società della crescita e società della decrescita, si stabilisce una comparazione (che certo è necessaria) tra termini eterogenei. Società della decrescita significa società svincolata dall'obbligo della crescita del prodotto interno lordo, cioè della produzione rivolta al mercato, che è tipico del capitalismo.
Ma poiché tutte le società precapitalistiche sono state immuni da questo obbligo alla crescita (il che non significa, ovviamente, che non siano cresciute, in un senso o nell'altro, per periodi più o meno lunghi, come, ad esempio, nei secoli XI, XII e XIII dell'Occidente feudale), l'espressione “società della decrescita” non indica una configurazione definita di rapporti sociali di produzione, cioè (usando il linguaggio marxiano molto appropriato in questo contesto) non indica una formazione sociale specifica.
I fautori della decrescita non possono, allora, avere un modello determinato di società, nel senso di cui si è detto, al quale fare riferimento. La tipica domanda che viene posta a chiunque si opponga all'attuale capitalismo assoluto (dal punto di vista della decrescita, o da altri punti di vista) è sempre: ma voi cosa proponete?
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Appello per la democrazia e il rispetto della legalità in Val di Susa
Premessa
In questi giorni la Val di Susa sta vivendo momenti di tensione che ricordano quelli dell’autunno 2005 quando fu usata la forza per imporre l’apertura di un cantiere in vista della realizzazione del TAV Torino-Lione. Da allora nessun cantiere è stato aperto ma le promesse di governi di diverso colore di aprire un dialogo e un confronto con le istituzioni locali si sono dimostrate un inganno e le amministrazioni democraticamente elette, critiche sulla realizzazione della grande opera, non sono state riconosciute dal governo quali interlocutori affidabili e sono state estromesse dai tavoli di confronto.
Decine di migliaia di persone chiedono semplicemente di essere ascoltate, chiedono un confronto vero, pretendono che alle loro ragioni - scientificamente documentate - si risponda entrando nel merito. In cambio ricevono insulti e l’accusa di voler difendere il loro piccolo cortile, di volersi opporre al progresso, di non rispettare le regole: slogan e accuse infondate in risposta ad argomenti seri, a pratiche di protesta pacifica, all’utilizzo rigoroso di ogni spazio previsto da leggi e procedure.
L’opposizione al TAV Torino-Lione è diventata in questi anni un esempio di partecipazione democratica dal basso, di democrazia vera, di resistenza all’illegalità ed al sopruso in difesa dei beni comuni: un’opposizione popolare che può contare sul sostegno della comunità montana e di ben 24 consigli comunali.
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L'acqua inonda la Politica
Guido Viale
Che cosa lega i risultati dei referendum - se riusciranno a scavalcare i cavalli di frisia della Corte Costituzionale e del quorum - al "vento che cambia" delle ultime elezioni amministrative (un vento sempre più simile a quello che riempie le piazze di Atene e della Spagna contro l'azzeramento di ogni aspettativa per le nuove - e le vecchie - generazioni, ma che ha un preciso riscontro nelle rivolte che stanno cambiando il panorama politico del Mediterraneo e del Medio Oriente)? Per rimanere in Italia, con un occhio però ai paesi vicini, e al di là del ripudio di un modo di governare e di uno stile di vita che si è imposto per due decenni e più a tutto il paese, uno dei punti su cui tenere gli occhi puntati sono le opportunità che si aprirebbero con l'abrogazione dell'art. 23 bis della finanziaria 2008 (la norma che impone privatizzazione e svendita dei servizi pubblici locali), restituendo a sindaci e amministrazioni comunali le leve di una politica economica e industriale: quella che governo e opposizione, prigionieri del pensiero unico secondo cui non ci sono alternative al dominio dei mercati e della finanza, hanno da tempo rinunciato anche solo a formulare. Il quesito referendario restituisce ai sindaci - se lo vogliono - la possibilità di disporre di un insieme di "bracci operativi" per realizzare il loro mandato: che non è svendere il territorio per incassare oneri urbanistici al posto dell'Ici, o "salvare l'ordine pubblico" minacciato dai migranti musulmani; ma mettere in grado di governarsi tutti coloro che abitano su un territorio.
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La crociata per l’unipolarismo politico
di Walter G. Pozzi
È probabile che nel ’94 Berlusconi sia veramente apparso al potere economico come il gattopardiano elemento di continuità tra la prima e la seconda Repubblica. Così come è probabile che tale soluzione, in lui velocemente incarnatasi, fosse vista come un momento di passaggio, una reazione necessaria di fronte agli sconquassi creati da quella che, allora e fino a oggi, era vissuta dallo stesso potere come una ‘rivoluzione’ giudiziaria: una non programmata pulizia del Capitale. L’unica soluzione, in ogni caso, in grado di canalizzare e gestire senza sorprese una massa consistente di elettorato rimasto orfano delle vecchie sigle politiche, smembrate dalle inchieste della magistratura. Era un modo di ricomporre il pentapartito, con l’aggiunta della Lega nord e di Alleanza nazionale, all’interno di un unico blocco politico, e affrontare con successo la nuova stagione elettorale che si apriva sotto il segno del maggioritario.
Molti analisti politici, dopo una significativa esaltazione emotiva in favore dell’operato dei giudici, hanno creduto che Berlusconi potesse diventare il promotore di una nuova stagione liberale; il traghettatore dell’Italia verso la sponda della modernità.
Gli stessi capitani d’industria sopravvissuti a Tangentopoli, grazie a patteggiamenti e mille scuse, e i numerosi politici riciclatisi equamente nella boscaglia della nuova polarità politica, contavano di liquidare in tempi brevi la seconda Repubblica ed entrare in una terza stagione repubblicana; e di poterlo fare fortificati da una nuova Costituzione, dal ripristino di un effettivo (dal loro punto di vista) equilibrio tra i poteri dello stato, e dal reinserimento dell’immunità parlamentare.
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Le traiettorie della democrazia
di Sandro Chignola
L’angolo d’attacco potrebbe essere vario. Governi le cui politiche, per quanto evidentemente neocoloniali o segregazioniste, vengono certificati come democratici solo in base alle procedure elettorali che li hanno nominati (e poco importa, perciò, che sradichino ulivi, impediscano l’accesso all’acqua, confinino popolazioni); politici che alle stesse procedure si riferiscono per rinvenirvi quel sacré du peuple che li autorizza a fare quello che vogliono in spregio alla costituzione, quando non, più semplicenente, alla pura evidenza della loro inettitudine; alleanze che, recitando il mantra dell’esportazione, o della difesa, della democrazia, fanno rombare i motori dei caccia, accendono i puntatori laser e sganciano bombe. E tuttavia: piazze arabe che straboccano di passione, processi di soggettivazione che rovesciano equilibri secolari, mobilitazioni «indignate» che cingono d’assedio fortini della rappresentanza e trincee del ceto politico, cittadini che si attivano contro la desertificazione e il saccheggio del territorio, per i beni comuni, in difesa di un’idea di partecipazione che tendenzialmente rifiuta il monopolio statuale sulla formazione della volontà generale.
In un caso come nell’altro, il riferimento va alla parola «democrazia», di volta in volta evocata come forma di governo, ideologia, procedura, ma anche come rivendicazione, apertura, eccedenza, pratica costituente diretta. Se ne potrebbe dedurre – e talvolta indulgo a farlo – che quella parola tenda ad essere concettualmente evanescente, un puro riferimento retorico, un significante vuoto pronto ad essere occupato da materialissimi processi di potere o da altrettanto concreti processi di soggettivazione.
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Come resistere al golpe
Carlo Formenti
Nessuna regola costituzionale può impedire che una democrazia si converta in regime autoritario. Nessun soggetto istituzionale super partes (Corti costituzionali, Presidenti, sovrani) ha mai impedito l’ascesa del duce di turno: non ne furono capaci né lo vollero – fra gli altri – Vittorio Emanuele III e Hinderburg. Ecco perché ritengo impraticabile la soluzione ventilata da Asor Rosa, il quale, su un numero del «manifesto» di qualche settimana fa, ha auspicato la possibilità di porre fine al regime berlusconiano attraverso un imprecisato intervento dall’alto, cui spetterebbe il compito di proclamare una sorta di schmittiano «Stato di eccezione». Impraticabile ma non, come si è sproloquiato da destra e da sinistra, «sovversiva»: in primo luogo perché un processo sovversivo è già in atto da tempo, poi perché il discorso di Asor Rosa pecca, semmai, di moderazione.
Premetto che, a mio parere, la democrazia – non solo in Italia – è finita da un pezzo, ma non credo che ciò significhi che assisteremo di nuovo ad arresti di massa, campi di concentramento e altri orrori di novecentesca memoria. È vero che la logica del regime richiede da un lato l’emarginazione di giornalisti, giudici e professori «comunisti» (qualifica attribuita a chiunque manifesti il proprio dissenso), dall’altro lato la manipolazione delle regole del gioco e la corruzione sistematica per rendere impossibile ogni forma di alternanza; tuttavia, in un’era caratterizzata dalla governance e dal soft power, è improbabile che si arrivi all’eliminazione fisica dei nemici: basta neutralizzarli. Gli unici a vedersi negare anche i più elementari diritti civili saranno – già sono – i migranti, eletti a capro espiatorio della frustrazione e della rabbia delle popolazioni autoctone immiserite dalla crisi.
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Sovranità monetaria e democrazia
Sergio Cesaratto
Un grande primo ministro canadese, William Mackenzie King,[1] ebbe a dichiarare prima delle elezioni del 1935: “Una volta che a una nazione rinuncia al controllo della propria valuta e del credito, non importa chi fa le leggi della nazione. … Fino a quando il controllo dell’emissione della moneta e del credito non sia restituito al governo e riconosciuto come la responsabilità più rilevante e sacra, ogni discorso circa la sovranità del Parlamento e della democrazia sarebbe ozioso e futile”.
La rinunzia alla sovranità monetaria è precisamente quello che il nostro paese ha fatto con l’adesione alla moneta unica. In verità, a ben guardare, l’aveva fatto già prima con il famoso “divorzio” fra il Tesoro e la Banca d’Italia nel 1981. Con quell’atto, compiuto attraverso un fait accompli – uno scambio di lettere fra Andreatta e Ciampi – in barba a qualsiasi decisione parlamentare, i governi della Repubblica rinunciavano alla prerogativa di determinare la politica monetaria, dunque moderare i tassi di interesse, con successive conseguenze disastrose per conti pubblici e distribuzione del reddito.[2] Con la moneta unica il nostro paese ha persino rinunciato alla possibilità di tornare indietro in quella decisione. Le ulteriori conseguenze sulla nostra economia dovute all’abbandono della flessibilità del cambio estero sono davanti agli occhi di tutti con un crescente disavanzo delle partite correnti, dal pareggio del 1999 sino al -3,5% del 2010, con conseguente crescente indebitamento netto con l’estero.
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Amministrative, Il Pdl è già preistoria
Uno sguardo sul futuro mediale e politico
nique la police
Torniamo indietro di diversi mesi, anzi a più di un anno fa. Dalle pagine di questo sito sostenevamo che l’aggressione di Massimo Tartaglia al presidente del consiglio avrebbero segnato una crepa reale nell’immaginario diffuso che produceva il consenso verso Silvio Berlusconi. Non era difficile capirlo: in un periodo già conclamato di crisi veniva rotto il mito dell’infrangibilità del capo. Mentre il complottismo si ingegnava a voler dimostrare che Berlusconi l’attentato se l’era fatto da solo, e mentre la subcultura cattolica della sinistra e del centrosinistra sapeva solo pensare che la vittima avrebbe raccolto la solidarietà dovuta meccanicamente all’aggredito, le immagini del volto sanguinante del capo ci mostravano una figura incerta e deforme nella notte che, si sa, è simbolico di tutte le crisi. E’ facile oggi fare questi ragionamenti quando escono le notizie che riportano che Lettieri, il candidato del centrodestra a Napoli, ha fatto di tutto per non far chiudere a Berlusconi l’ultimo comizio nel capoluogo partenopeo. A lungo si è sostenuto, in una mitologia alimentata dal centrosinistra per legittimare ogni comportamento di compromesso, che attaccare Berlusconi era la migliore garanzia per farlo vincere. Non era così ma si è dovuto aspettare che Berlusconi giocasse un referendum contro se stesso per capire che può essere frontalmente battuto. Parliamo di Berlusconi non del Pdl che, al momento dei risultati elettorali delle amministrative, è già preistoria, residuo archeologico di una stagione politica.
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L’esigenza comunista. Nota sul concetto di «classe»
Andrea Cavalletti
Il 6 maggio 1934 Walter Benjamin rispondeva al suo amico Scholem:
«Di tutte le forme e le espressioni possibili il mio comunismo evita soprattutto quella di un credo, di una professione di fede [...] a costo di rinunciare alla sua ortodossia – esso non è altro, non è proprio nient’altro che l’espressione di certe esperienze che ho fatto nel mio pensiero e nella mia esistenza, è un’espressione drastica e non infruttuosa dell’impossibilità che la routine scientifica attuale offra uno spazio per il mio pensiero, che l’economia attuale conceda uno spazio alla mia esistenza [...] il comunismo rappresenta, per colui che è stato derubato dei suoi mezzi di produzione interamente, o quasi, il tentativo naturale, razionale di proclamare il diritto a questi mezzi, nel suo pensiero come nella sua vita».
Non potrebbe darsi espressione più lucida, insieme più sobria e più potente, di quella che, volendo attenerci al vocabolario benjaminiano, potremmo chiamare l’esigenza comunista. Il comunismo antidogmatico, estraneo all’ortodossia, non proviene per Benjamin da una qualche lontana educazione ideologica, non risale a una tradizione, non dipende dalla saldezza di un ideale e meno ancora della realizzazione storica, in forma aberrante di stato, di queste tendenze: nasce dalla pura e semplice constatazione di un’impossibilità. Ma la constatazione non è affatto la cosa più facile.
Se il comunismo è l’esigenza di chi è stato derubato dei suoi mezzi di produzione, se l’attualità di queste parole risiede nella loro esattezza antipsicologica, esse esigono da noi la stessa precisione: occorre constatare questa situazione per poter davvero essere comunisti, e se saremo capaci di lasciare paure e speranze, raggiungendo questa drastica chiarezza, non potremo che essere comunisti.
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Wojtyla l'uomo bianco, Bin Laden l'uomo nero*
di Luca Baiada
Il 1° maggio 2011 si consuma una tappa storica e spettacolare. A migliaia di chilometri, la città dell’antico impero e la terra incognita della nuova incontrollabilità sono scenari della sistemazione immaginaria del passato, e forse luoghi di progettazione del futuro. Praticamente nelle stesse ore, Wojtyla viene beatificato, Bin Laden muore: se i dati diffusi sono esatti, l’uccisione avviene dopo la cerimonia di beatificazione e poche ore prima della messa di ringraziamento. Che in Italia una parlamentare della destra abbia spiegato la morte dell’uno come miracolo compiuto dall’altro, non c’è da stupirsi: in molti, hanno farfugliato sciocchezze del genere. Qui, tenendo fermo che un vero e proprio paragone fra i due sarebbe esagerato, proviamo ad accostarli come spunto di riflessione. E accettiamo la versione ufficiale sulla fine del capo di Al Qaeda, ma tenendo presente che molti la considerano falsa, convinti che l’uomo fosse già morto anni fa.
Wojtyla e Bin Laden assumono i loro importanti ruoli nello stesso periodo: la fine degli anni Settanta. Il sorpasso tecnologico è in pieno svolgimento, e gli Usa hanno già vinto la corsa allo spazio. In Vietnam, hanno da poco subìto una sconfitta militare, ma la guerra ha reso profitti, e la teoria del domino si è rivelata falsa: l’Asia non è diventata tutta comunista. In Europa, il blocco socialista galleggia fra stagnazione e crisi; in Spagna e in Portogallo sono cadute le dittature. Di quelle nell’America del Sud, invece, si fa sentire la stretta, mentre il successo delle rivoluzioni in Nicaragua e in Iran segna in modo esemplare, per il blocco capitalista, l’esigenza di contrastare qualsiasi cambiamento politico sgradito, anche approfittando di manovre religiose (su un fronte si mobiliterà la chiesa cattolica, con l’appoggio alla destra e con la repressione della Teologia della liberazione; sull’altro si offrirà sostegno all’islam radicale).
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Atene, l'euro e il consenso di Berlino
Vincenzo Comito
Le agenzie di rating imperversano. Hanno di nuovo bocciato la Grecia, spingendola alla ristrutturazione del debito. Dopo, però, chi comprerà le merci tedesche?

Analizziamo quindi brevemente i punti che ci sembrano rilevanti.
1) Come risposta alle grandi difficoltà in atto, la strategia portata avanti nell’eurozona tende a spingere tutti i paesi a tagliare pesantemente i deficit pubblici, mentre peraltro la crisi di alcuni paesi non è, o è dovuta solo in parte, a deficit di bilancio elevati. In certi casi, ad esempio per quanto riguarda la Spagna e l’Irlanda, e anche in parte il Portogallo, il problema è quello invece della crisi delle banche e del settore immobiliare. Così, si sta combattendo, almeno in parte, una battaglia sbagliata, come hanno sottolineato da tempo diversi commentatori;
2) per altro verso, le autorità di Bruxelles stanno trattando il caso greco come se esso si riducesse a una crisi di liquidità, di mancanza cioè solo temporanea di risorse finanziarie. Nella sostanza, invece, si tratta di una crisi di solvibilità, nonostante il diverso parere di qualche isolato esperto finanziario, come il nostro Bini Smaghi; in altri termini, il paese non possiede apparentemente attività sufficienti per ripagare tutti i debiti o, almeno, si trova in una situazione in cui sarebbe difficilissimo alienare in un tempo relativamente breve, come sarebbe necessario, tutte le attività.
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Dove tutto è cominciato
di Augusto Illuminati
Una tramvata bestiale, una di quelle che dopo chi l’ha presa barcolla e ride stupidamente senza neppure rendersi conto, una di quella che fanno sghignazzare gli astanti come se avessero avuto parte nel fatto. Così il centro-destra sconfitto rovinosamente ai ballottaggi ciancia ancora di riflessione e di maggioranze coese, invita gli elettori ingrati a pregare e pentirsi, minimizza gli effetti del voto locale sulla scena nazionale. Così si affollano presunti vincitori (i fans di Morcone e Boeri, gli astuti tessitori delle provinciali di Macerata, i segretari con le maniche rimboccate, i veltroniani autosufficienti) a rivendicare un successo che mai si sarebbe ottenuto a seguire le loro ideuzze tattiche. Miserie di un protagonismo politico che assomiglia al librarsi degli avvoltoi sul campo dopo la battaglia. Più interessante studiare il comportamento dei veri attori, di quanti già si preoccupavano dell’incombente crisi italiana (nell’ultimo mese la produzione industriale è cresciuta dello 0,1% a occupazione ovviamente declinante) ma si consolavano con la cinica constatazione che tanto non si registravano dissensi politici o rivolte di piazza. Certo, Berlusconi faceva loro schifo e il fatto di avere una coppia di leader impresentabili e palesemente stroncati dal sesso fuori stagione (chissà perché nessuno ricorda mai l’ictus bossiano) risultava persino imbarazzante, ma il vantaggio di un’opinione pubblica passiva era impagabile. Adesso la pacchia è finita e Pigi Battista –banderuola infallibile per cogliere lo spirare del vento– lo scrive senza ambagi: il guaio non è il ridimensionamento di Berlusconi, perfino auspicabile per la borghesia milanese e il gruppo Rcs, ma il fatto che la Lega non ha recuperato i voti persi. Insomma, che la caduta del Sultano si trascini dietro il crollo del centro-destra nel suo complesso (comprendendovi anche il flop del centrismo di Fini e Casini).
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Il circolo dei controrivoluzionari
di Pepe Escobar
Esistono una sfilza, come fossero un kebab, di monarchie ereditarie, emirati e teocrazie assolute. La maggior parte di queste è seduta su un oceano di petrolio (il 45% delle riserve mondiali). Sono viziati dal glamour e dallo splendore dell’Occidente, da Londra a da Montecarlo, dalla raffinatezza di Parigi e dalla delicatezza della NATO. Aborriscono la democrazia tanto quanto la povertà. Alcuni sarebbero contenti di veder arrancare le proprie popolazioni, come in effetti accade. E considerano l’Iran sciita peggio di un Anticristo.
Benvenuti nel Consiglio di Cooperazione del Golfo (GGC), formato nel 1981 dai capo branco dell’Arabia Saudita più quelli degli Emirati Arabi Uniti, del Qatar, del Kuwait, del Bahrein e dell’Oman. Una qualifica più appropriata sarebbe quella di "Consiglio per la Controrivoluzione nel Golfo", o meglio un club; un club del Golfo per spazzar via quelli del golf. Per quanto riguarda il GGC, la grande rivolta araba del 2011 è sicura di trionfare sui loro (danarosi) cadaveri.
Come possono esserne così sicuri? Le dinastie repubblicane, come quelle in Tunisia o in Egitto, potrebbero essere abbattute; la Libia potrebbe tornare all’età della pietra; la Siria viene continuamente minacciata. Ma al GCC non accadrà niente, perché l’illuminato Occidente – non certo Allah – è il suo guardiano supremo.
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Alcune ipotesi contro-fattuali sulla presente crisi[1]
Luigi Pasinetti
Investimenti, profitti, crescita e distribuzione dei redditi
In un ormai famoso articolo nella «Review of Economic Studies» del 1956, Nicholas Kaldor aveva presentato una rassegna delle teorie della distribuzione del reddito.
Cominciava dai classici (Adam Smith e soprattutto David Ricardo), per poi proseguire con Marx, e quindi arrivare ai marginalisti neoclassici (con una lunga sintesi che includeva Walras/Wicksell/Mar-shall/Wicksteed). Ci si sarebbe aspettato che terminasse qui. Ma Kaldor aggiunse a questo punto anche una teoria kaleckiana basata sul grado di monopolio e soprattutto, a se stante e con inaspettata evidenza, una teoria «keynesiana» della distribuzione del reddito. Ciò destò sorpresa, perché nella Teoria Generale di Keynes (1936) non si trova alcuna esplicita formulazione di una teoria della distribuzione del reddito. In effetti, Kaldor aveva concepito una teoria di stampo keynesiano sì, ma nuova ed originale, che combinava e legava il concetto classico della «domanda effettiva», dovuta per la verità a Malthus più che a Ricardo, con le esigenze delle condizioni per il conseguimento della piena occupazione, cioè coi temi di cui si era essenzialmente occupato Keynes.
Il ragionamento di Kaldor era molto semplice, ma ricolmo di radicali conseguenze. Metteva in relazione la distribuzione del reddito tra profitti e salari con le esigenze della effettuazione di quegli investimenti che – incorporando il progresso tecnico e la disponibilità dell’aumento della popolazione lavoratrice – sono necessari per mantenere la piena occupazione in un processo di crescita economica: con questo, introduceva la distribuzione del reddito all’interno di un contesto teorico «keynesiano».
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Le radici sociali della crisi economica
V. Parlato intervista Giorgio Lunghini
Negli ultimi decenni c'è stato un cospicuo spostamento, nella distribuzione del reddito dai salari ai profitti e alle rendite, che ha prodotto insufficienza di domanda effettiva e disoccupazione crescente

Sono d'accordo su tutto quanto ha scritto Pierluigi Ciocca, ma circa le cause della crisi attuale del capitalismo occidentale, versione italiana compresa, io insisto soprattutto sulla stretta e inscindibile interconnessione, in un sistema capitalistico, tra gli elementi reali e gli elementi monetari. Un sistema economico capitalistico potrebbe riprodursi senza crisi; ma se e soltanto se la distribuzione del prodotto sociale tra lavoratori, capitalisti e rentier fosse tale da non generare crisi di realizzazione, di «sovrapproduzione» rispetto alla capacità d'acquisto; e se e soltanto se moneta, banca e finanza fossero al servizio del processo di produzione e riproduzione del sistema, e non dessero invece luogo a sovraspeculazione e a crisi di tesaurizzazione.
Negli ultimi anni (decenni) si è invece avuto un cospicuo spostamento, nella distribuzione del reddito, dai salari ai profitti e alle rendite, e dunque si è determinata una insufficienza di domanda effettiva e una disoccupazione crescente. D'altra parte la finanza è diventata un gioco fine a se stesso. In condizioni normali la finanza è un gioco a somma zero: c'è chi guadagna e chi perde; ma quando essa assume le forme patologiche di una ingegneria finanziaria alla Frankestein, ci perdono tutti: anche e soprattutto quelli che non hanno partecipato al gioco.
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Il debito estero come strumento di dipendenza: l'Italia prima e dopo l'euro*
Rivista Indipendenza
Il processo di unificazione europea (con significativo sbocco nell’introduzione dell’euro), è tra i responsabili primari dell’impennata del debito/credito pubblico e sta favorendo la preoccupante crescita del debito estero. Veri beneficiari, le oligarchie finanziarie statunitensi ed il sistema capitalistico statunitense nel suo insieme.
Si proverà a spiegare cosa realmente sia il debito pubblico e le origini delle sue ingenti dimensioni, per comprendere anche come la questione debito pubblico sia la spia di una subordinazione nazionale sempre più pervasiva.
Nonostante gli effetti incidano profondamente sulle condizioni materiali della maggioranza della popolazione, manca una corretta individuazione delle sue cause.
1. Dall'integrazione monetaria all'indebitamento estero
Fin dai primi anni Novanta, il debito pubblico è il principale pretesto addotto per giustificare i tagli alla spesa sociale ed agli investimenti pubblici, l’aumento della pressione fiscale nonché lo smantellamento - attraverso le privatizzazioni– del sistema delle partecipazioni statali. Le cause addotte: corruzione e ingordigia del ceto politico democristiano e socialista spazzato via da "Mani Pulite" [scenari a tinte fosche se non si fosse proceduto in tal senso, con accento puntato in particolare per le generazioni future].
Da qui l’enfasi all’intervento salvifico del Trattato di Maastricht: i suoi disciplinanti vincoli per il risanamento dei conti pubblici indispensabili per evitare la “bancarotta” del paese. Le privatizzazioni, peraltro imposte da accordi europei come quello Andreatta-Van Miert del 1993, avrebbero consentito di incamerare risorse vitali.
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Benvenuti nel mondo violento del signor Belle Speranze
John Pilger
Quando la Gran Bretagna perse il controllo dell'Egitto nel 1956, il primo ministro Anthony Eden disse che voleva il presidente nazionalista Gamal Abdel Nasser "distrutto [...] ammazzato [...] non m’importa niente se c'è anarchia e caos in Egitto". Quegli arabi insolenti dovevano essere ricacciati "nei bassifondi da cui non sarebbero mai dovuti uscire", aveva invece già sostenuto Winston Churchill nel 1951.
Il linguaggio del colonialismo avrà subito modifiche, ma lo spirito e l’ipocrisia sono identici. Come risposta mirata alle sommosse arabe iniziate a gennaio che hanno sbigottito Washington e l’Europa - causando un panico come se fossero stati cacciati dall'Eden -, sta emergendo una nuova fase imperialista. Perdere il tiranno egiziano Mubarak è stato doloroso, ma non fatale. Una contro-rivoluzione, sostenuta dagli americani, è tuttora in corso, dato che il regime militare del Cairo è sedotto da una nuova corruzione e dallo spostamento di potere dal basso ai gruppi politici che non hanno partecipato alla rivoluzione. L’obiettivo dell’Occidente, come sempre, è quello di bloccare la democrazia autentica e di riprendere il controllo.
La Libia è arrivata al momento propizio. L’attacco della Nato alla Libia con il pretestuoso mandato della “no-fly zone” assegnato dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU per “proteggere i civili” è singolarmente simile alla definitiva distruzione della Jugoslavia nel 1999. Non c’era un avallo vero e proprio delle Nazioni Unite per bombardare la Serbia e per “salvare” il Kossovo, eppure quella propaganda echeggia ancora. Al pari di Slobodan Milosevic, Muammar Gheddafi è dipinto come “un nuovo Hitler” che ordisce il “genocidio” della sua stessa gente. Di questo non c’è alcuna prova, come non c’era alcuna prova del genocidio in Kossovo. In Libia c’è una guerra tribale civile, e la rivolta armata contro Gheddafi è stata da tempo pianificata da americani, francesi e inglesi con i loro aerei che attaccano la zona residenziale di Tripoli usando missili all’uranio e col sommergibile HMS Triumph che spara missili Tomahawk, ripetendo la tattica “shock and awe”, “sconvolgi e terrorizza”, usata in Iraq, che ha causato migliaia di morti e mutilati tra la popolazione civile.
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Noi – come sempre – ricordiamo tutto
Militant
«Noi siamo l’impero e quando agiamo creiamo la nostra realtà. E mentre voi state studiando questa realtà, giudiziosamente, noi agiremo ancora, creando altre nuove realtà, che voi potrete soltanto studiare, e nient’altro».
Karl Rove, consigliere di G.W.Bush (2004)
L’arresto del generale serbo Ratko Mladic ha rigenerato, sui media italiani, quello stucchevole e scontato clima di concordia e visione unica del mondo e della storia che intossica la nostra percezione della realtà. Sono ormai decenni che la sinistra europea ha abbandonato l’idea che la storia e le vicende umane possano leggersi sotto un’altra lente, con altri occhi, interpretando diversamente ciò che l’informazione unificata ci propina ogni giorno come unica verità possibile.
Il giochetto andato di moda in questi anni è stato quello del male assoluto, del nemico dell’umanità: Saddam Hussein, Gheddafi, Ahmadinejad, Milosevic, e via dicendo. Oggi, Ratko Mladic. E, ogni volta, una sinistra succube culturalmente e politicamente segue il carrozzone mediatico senza proporre alternative interpretative, cedendo di continuo sul piano culturale e sociale in nome di qualche vago insieme di valori condivisi. Male assoluto contro cui tutti dovremmo unirci abbattendo le divisioni politiche che dividono la società.
Oggi è il caso di Ratko Mladic, che in pochi giorni ha oscurato Hitler&co come persona più orrida sulla terra, l’antiuomo contro il quale non esistono differenze politiche ma un’unica battaglia da combattere in nome dei diritti umani. Questo è il gioco portato avanti da sempre dalla storia “ufficiale”: de-contestualizzare e de-storicizzare ogni avvenimento storico, ogni fatto accaduto, per reinterpretare gli avvenimenti secondo i fini politici del momento.
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Essere se stessi con un po’ meno di fatica
di Christian Raimo
Ci sono degli eventi che hanno delle somiglianze. L’arresto per stupro di Strauss-Kahn, la vicenda di Don Seppia, la tragedia del padre di Teramo che lascia la figlia sotto il sole. Tre persone – tre maschi, diciamolo subito – che pensavamo affidabili, molto affidabili, si rivelano un disastro. Addirittura dei mostri per alcuni, indifendibili per la maggior parte (tranne le mogli – notiamo subito anche questo – nei casi di DSK e del padre). Eppure, evidentemente non sono tre episodi isolati. Voglio dire: 1) il Time della settimana scorsa ci ha addirittura fatto la copertina sugli uomini di potere che si comportano come maiali; Strauss-Kahn, Schwarzenegger, Tiger Woods, John Edwards, Charlie Sheen… sono soltanto l’ultima avanguardia di un esercito ben in forze; 2) la questione della pedofilia nella chiesa è diventata di rilevanza sociologica (tanto che l’associazione prete-pedofilo è purtroppo una di quelle che facciamo sempre più spesso, quasi un luogo comune); 3) queste tragedie dei bambini dimenticati in macchina sotto il sole si ripetono ogni tanto (due negli ultimi dieci giorni, Teramo, Perugia), e sono probabilmente l’emersione più tragica di una “distrazione di massa” – è una cosa che poteva capitare a chiunque, come ha detto non senza verità la moglie difendendo in lacrime il padre della piccola Elena.
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La retorica del potere. Critica dell’universalismo europeo
Immanuel Wallerstein
Sociologo statunitense con cattedra a Yale ma appartenente alla sinistra radicale, Immanuel Wallerstein è stato tra i primi in America a recepire e poi attualizzare la lezione di Braudel (come fondatore e direttore del Ferdinand Braudel Center alla State University di New York): i suoi lavori di sociologia economica e di storia delle idee applicano il concetto di lunga-durata ai processi del capitalismo, ed introducono definitivamente nelle scienze sociali la categoria di sistema-mondo1.
Quello di Wallerstein è dunque un sano storicismo metodologico: non consiste nell’immettere e così sciogliere tutti gli eventi nel flusso del tempo, ma nel fornire una visione sistemica e di lungo periodo dei processi culturali, economici, sociali e politici, in una parola della struttura storica della civiltà occidentale (cfr. p. 108: “tutti i sistemi sono storici e tutta la storia è sistemica”); ciò gli consente di avere uno sguardo critico analogo a quello di un altro grande sociologo di sinistra, Pierre Bourdieu, uno sguardo capace di decostruire riflessivamente i valori della nostra civiltà, di cogliere l’insufficienza o meglio l’obsolescenza delle vecchie categorie della politica europea e americana2 , e di comprendere che ci troviamo in una fase di transizione, di passaggio da un sistema-mondo ad un altro, i cui tratti non sono ancora definiti ma dipenderanno sicuramente dalle nostre scelte culturali, economiche e politiche.
Tale storicizzazione radicale permette inoltre a Wallerstein di affermare che ogni universalismo, ed in particolare quello elaborato dalla moderna civiltà occidentale, nasconde un particolarismo. In Chi ha il diritto a intervenire? Valori universali contro barbarie, prima delle tre conferenze tenute alla British Columbia University nel 2004 e qui raccolte in volume con l’aggiunta di un saggio conclusivo, egli va alla radice del problema per eccellenza, generato dalla costituzione concettualmente e concretamente ‘universalistica’ del sistema-mondo moderno a partire dalle scoperte geografiche del XVI secolo: lo statuto giuridico (quindi etico, politico, ontologico, problematicamente umano) dell’‘altro’3 .
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