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La necessità di un governo forte di fronte alla disarticolazione della società
di Militant
La controriforma costituzionale/istituzionale del sistema politico italiano si presenta, da un lato, come l’ennesimo tentativo di risolvere tramite ingegneria costituzionale un problema politico del nostro paese – e dell’Europa intera – di lungo corso, quello cioè della perdita di sostanza del concetto di “democrazia rappresentativa”; dall’altro, questa ennesima riforma sancisce la chiara volontà da parte dei governanti (non solo Renzi e il PD, ma tutto l’arco potenzialmente chiamato a poter governare) di bypassare la crisi di consenso e del concetto di rappresentanza che la costruzione europeista impone agli Stati aderenti. Questi due aspetti sono evidentemente legati fra loro: il primo costituisce il problema politico di lungo periodo che attraversa le società capitaliste neoliberiste; il secondo la risposta che la visione politica egemone al momento ha escogitato per tentare non di risolvere, ma di contenere e gestire quel tipo di problema.
E’ ormai cosa nota – ci arrivano pure Corriere e Repubblica – che è in atto nel consesso europeo una “crisi della democrazia”, intesa come estrema difficoltà, da parte delle istituzioni rappresentative preposte, nell’inglobare le differenti visioni del mondo e le differenti classi all’interno di un contesto formale di rappresentanza politica.
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La secular stagnation e il fallimento delle politiche di austerity
di Vladimiro Giacchè
In un suo recente contributo sulla stagnazione secolare nell’eurozona, Paul De Grauwe, dopo aver osservato che “dalla Crisi Globale del 2007/8 gran parte dei paesi sviluppati non sono stati in grado di tornare ai livelli di crescita pre-crisi”, ha rilevato però come “da nessuna parte nel mondo sviluppato l’ipotesi della ‘stagnazione secolare’ sia meglio confermata che nell’eurozona”. Lo stesso (ri)scopritore del concetto di “secular stagnation”, Laurence Summers, ha in effetti ricordato che nella zona dell’euro «il pil reale è circa del 15 per cento inferiore a quello stimato nel 2008», e anche il prodotto potenziale «è stato rivisto al ribasso di quasi il 10 per cento». Ma torniamo a De Grauwe: lo studioso belga osserva che, se già prima della crisi il pil reale dell’eurozona evidenziava dinamiche di crescita inferiori a quelle degli Stati Uniti e degli stessi paesi dell’Unione Europea che non fanno parte dell’area monetaria, dalla crisi del 2008 in poi questa divergenza si è accresciuta ulteriormente (v. grafico 1).
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Il PIN di Renzi e i numeri dell'economia reale
di Leonardo Mazzei
L'altro giorno la controriforma costituzionale voluta da Renzi ha avuto l'approvazione della Camera. Nel buffonesco linguaggio dell'inquilino di Palazzo Chigi «il secondo numero del Pin è stato digitato». Ecco, infatti, cosa ci è capitato di sentire dalla bocca del segretario del Pd:
«Fare le riforme costituzionali non crea di per se nuovi posti di lavoro, ma - se posso usare l'espressione - è prendere il telefonino. Le riforme sono il Pin. Se tu non digiti il Pin e sblocchi la tastiera non c'è verso di far funzionare niente. Le riforme costituzionali sono questa cosa qui». (Gr1, ore 8 del 10 marzo 2015).
Il tentativo è chiaro: occultare, dietro alla solita retorica efficientista, il progetto antidemocratico che punta al presidenzialismo partendo dallo svuotamento di ogni potere parlamentare. Un disegno ben rappresentato dalla farsa di un Senato di nominati. Almeno lo si fosse eliminato davvero! Invece no, quel che si è voluto eliminare è solo la sua elezione da parte dei cittadini. Una mostruosità che si commenta da sola.
Ma se la sostanza della controriforma costituzionale è questa, vale comunque la pena di seguire il filo del ragionamento di Renzi. Il quale vorrebbe farci credere (vedi il riferimento alla disoccupazione) che: 1) la crisi dipenda da un eccesso di parlamentarismo, 2) che solo un governo (ovviamente guidato da lui) senza opposizione saprà venirne fuori, 3) che dunque lo scasso della Costituzione serve in definitiva al bene comune.
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Tre Riflessioni Sull'Orlo Dell'Abisso
Written by Franco Berardi Bifo
L’errore del 2005
Si avvicinano le elezioni dipartimentali in Francia, e i sondaggi dicono che il Front National sarà il grande vincitore. Il premier Manuel Valls ha rimproverato i cittadini francesi per la loro passività, e ha detto che gli intellettuali non fanno il loro dovere antifascista. Davvero Manuel Valls ha la faccia come il culo, che fuor di metafora vuol dire che proprio non tiene vergogna. I socialisti francesi come i democratici italiani hanno tradito le loro già pallide promesse di opporsi all’oltranzismo austeritario, hanno gestito in prima persona la mattanza sociale, e ora fanno le vittime, si lamentano perché il popolo non li segue e gli intellettuali non si impegnano.
Lasciamo perdere gli intellettuali francesi che non esistono più da almeno venti anni, a meno di considerare Bernard Henri Levy un intellettuale mentre a me pare che si tratti di un imbecille molto pericoloso, come dimostrano le sue campagne a favore dell’intervento in Siria e in Libia.
Non so come andranno a finire le elezioni francesi. Quel che so è che il Front National è la sola forza politica capace di interpretare i sentimenti prevalenti nel popolo francese: odio nazionalista riemergente contro l’arroganza tedesca, e ribellione sociale contro la violenza finanziaria. Un mix inquietante ma potente, che cancella la distinzione tra destra e sinistra.
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Il populismo continentale
Leonardo Clausi intervista Perry Anderson
Perry Anderson, docente della University of California di Los Angeles, nonché tra i teorici fondatori della «New Left» anglosassone e della rivista «New Left Review», è osservatore meticoloso della scena europea e di quella italiana in particolare, da lui studiate secondo un metodo comparativo delle strutture politiche e assetti culturali che tiene ben presente il magistero gramsciano. Fin dagli anni Settanta, lo storico inglese ha intrecciato dialoghi illuminanti con figure cardine del nostro panorama intellettuale: Lucio Colletti, Norberto Bobbio, Carlo Ginzburg, fino alle recenti, sentite commemorazioni di Sebastiano Timpanaro e Lucio Magri apparse sulla «London Review of Books». Gli articoli che da anni dedica all’Italia sulla «Lrb» sono stati ora pubblicati, accompagnati da una nuova conclusione, per la prima volta da Castelvecchi con il titolo L’Italia dopo l’Italia. Il libro è un’analisi spietata degli ultimi venticinque anni di politica nazionale, dal dominio berlusconiano all’offensiva neoliberista dell’attuale presidente del consiglio, dove il personalismo autoritario di Matteo Renzi, convinto com’è di poter riformare il paese sul duplice fronte economico e istituzionale, si tinge di gaullismo. Lo abbiamo raggiunto via email da Los Angeles.
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Syriza e dintorni
di Franco Senia
Il capitalismo senza nemmeno un capitalista
Ci sono due saggi fondamentali per poter capire perché Syriza, in Grecia, con ogni probabilità sta andando verso il fallimento: il primo testo è "Dominio senza soggetto", di Robert Kurz, il secondo è "Che cosa fa andare avanti il capitalismo" di Michael A. Lebowitz.
Kurz spiega perché quello che noi chiamiamo marxismo sia in fondo solo una critica riduttiva del concetto di dominio, critica di per sé incapace di spiegare quello che è il capitalismo "maturo":
«Uno dei termini più amati dalla critica sociale di sinistra - che viene utilizzato con la spensieratezza dell'ovvietà - è il concetto di "dominio". I "dominanti" sono stati e sono considerati, in numerosi trattati ed opuscoli, come dei grandi ed universali cattivi al fine di poter spiegare le sofferenze della socializzazione capitalista. Questa cornice viene applicata retrospettivamente a tutta la storia. Nel gergo specificamente marxista, questo concetto di dominio viene ampliato nel concetto di "classe dominante". In questo modo, la comprensione del dominio ottiene una "base economica": la classe dominante è la consumatrice del plusvalore, del quale essa si appropria con l'astuzia e con la perfidia e, chiaramente, con la violenza.
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Dopo l'euro
di Jacques Sapir
Jacques Sapir discute lo stato attuale del dibattito sull’euro (citando anche Fassina) e considera imminente il punto di rottura. L’intransigenza tedesca combinata alla passività delle altre classi dirigenti europee rende probabile, purtroppo, uno smantellamento “conflittuale”, con la Germania che cercherà di negare la propria responsabilità nella distruzione dell’equilibrio europeo per la terza volta in un secolo. Sapir parla poi del “day after”: dei passi necessari da intraprendere subito dopo la rottura, del quadro giuridico e del sistema monetario che verrà, discutendo l’eventualità di un euro mantenuto come moneta comune —ma non unica— negli scambi internazionali: un’ipotesi comunque difficile da implementare, e utile più che altro come salvagente ideologico per chi non vorrà ammettere il fallimento totale dell’euro.
Le più recenti dichiarazioni e gli articoli scritti negli ultimi giorni da diversi economisti e politici europei dimostrano che siamo entrati in una fase acuta della crisi dell’euro. In Grecia, la questione di un possibile ritorno alla dracma viene discussa apertamente. In Italia c’è Stefano Fassina, un economista del Partito Democratico (il partito di centro-sinistra da cui viene anche Renzi), ed ex Viceministro dell’Economia e delle Finanze, che per quanto riguarda la questione euro ha deciso di attraversare il Rubicone (1.1; 1.2). La “conversione” di Fassina a posizioni critiche sull’euro dimostra bene come il dibattito si stia espandendo in Italia. Più recentemente abbiamo visto Wolfgang Streeck, sociologo ed economista, pubblicare su Le Monde un lungo articolo per spiegare che l’Europa deve abbandonare la moneta unica (2) [Trovate l’articolo di Streeck da noi recentemente tradotto su questo link, NdT]. Queste diverse posizioni, senza dimenticare quelle di Podemos in Spagna, sono un buon indicatore del fatto che siamo effettivamente ad un punto di rottura. Streeck dice senza mezzi termini che il mantenimento dell’euro sta uccidendo l’Europa e sta provocando un aumento di antagonismo anti-tedesco.
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Il grande freddo
di Lapo Berti
Il termine forse più usato e abusato negli anni o decenni passati è quasi certamente “crisi”. Lo si è declinato in un’infinità di modi. Si è parlato di crisi politica, di crisi economica, di crisi finanziaria, di crisi ambientale, di crisi sociale, di crisi morale, di crisi religiosa. Di un’ulteriore e possibile declinazione non si è parlato o si è parlato molto poco, quasi incidentalmente, o, addirittura non si è voluto parlare: di crisi di civiltà
Una crisi di civiltà?
Il termine forse più usato e abusato negli anni o decenni passati è quasi certamente “crisi”. Lo si è declinato in un’infinità di modi. Si è parlato di crisi politica, di crisi economica, di crisi finanziaria, di crisi ambientale, di crisi sociale, di crisi morale, di crisi religiosa; di crisi di nervi, verrebbe da aggiungere. Di un’ulteriore e possibile declinazione non si è parlato o si è parlato molto poco, quasi incidentalmente, o, addirittura non si è voluto parlare: di crisi di civiltà. Eppure, è forse questa la prospettiva che ci consentirebbe di considerare e di comprendere più in profondità le tante crisi che ci angosciano e, più in generale, le dinamiche sociali, economiche, politiche lungo le quali sta scivolando la nostra civiltà. Il grande antropologo Ernesto De Martino vi avrebbe forse trovato la materia per delineare un’ennesima “apocalisse culturale”.
Forse, come l’ambiente fisico in cui viviamo, anche l’ambiente sociale è soggetto all’alternanza di ere calde o temperate in cui la vita fiorisce e si espande e di ere glaciali in cui la vita si ritira e combatte duramente per conservarsi. La sensazione cui vorrei offrire il supporto di qualche riflessione più accurata è che ci stiamo avviando verso una sorta di glaciazione sociale, perché stanno venendo meno alcune delle spinte vitali, espansive, che hanno sospinto la precedente fioritura.
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L’austerità “flessibile” che non genera crescita e accentua le diseguaglianze
di Guglielmo Forges Davanzati
Con uno slittamento semantico che ben poco toglie alla sostanza della questione, le politiche economiche suggerite dalla commissione europea vengono ora definite di austerità “flessibile”1, dove è l’aggettivo a contare maggiormente sul piano comunicativo. Ciò a indicare che la stagione delle misure radicali di riduzione della spesa pubblica e di aumento della pressione fiscale sarebbe ormai terminata.
In questa nuova prospettiva, fatta propria dal Governo Renzi, si inserisce la proposta formulata da due dei più accreditati economisti italiani – Alberto Alesina e Francesco Giavazzi – di far ripartire la domanda interna riducendo la pressione fiscale e sforando temporaneamente il vincolo del 3% del rapporto deficit/Pil2. E’ una proposta che merita di essere discussa proprio perché essa è alla base di quello che viene propagandato come un nuovo corso della politica economica italiana.
Si tratta di una proposta apparentemente di buon senso, definita keynesiana e, in quanto tale, “di sinistra”. In realtà, essa non è affatto keynesiana, non è affatto “di sinistra” (se la si legge considerando gli effetti redistributivi che la sua attuazione produrrebbe), e non è neppure di buon senso. Per queste ragioni.
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Tra Leopolda e seduzione: appunti su un profilo di Matteo Renzi
di Adriano Voltolin
Molto volentieri pubblico questo interessante ed anche divertente articolo di Adriano Voltolin, Presidente della Società di Psicoanalisi critica. Buona lettura!
Una lettura psicoanalitica di un fenomeno oppure di un personaggio non ha la pretesa di dare una lettura vera di quanto preso in esame, ma solo l’ambizione di poter contribuire, assieme ad altri vertici osservativi, ad una interpretazione più completa di quanto viene preso in osservazione. Nello studio di un analista una persona porta se stessa in molti modi, tra i quali, l’opinione che esprime di se stessa, ha una notevole importanza sintomatica: vale di più ciò che non sa di sé e che emerge, per dirla con un famoso analista francese, come qualcosa che zoppica, che fa ostacolo e che marca un tratto della sua personalità.
Prendendo in esame la figura dell’attuale Presidente del Consiglio dei ministri, alcuni tratti del suo carattere emergono prepotentemente nelle sue interviste sulla stampa o in televisione.
Certamente appare disinvolto, a suo agio col pubblico, pronto alla battuta salace che è sempre ben congegnata, sufficientemente risoluto, pronto ad ascoltare e prontissimo nel controbattere le opinioni altrui. Il suo abbigliamento appare quello di un uomo che rispetta le convenzioni, ma che anche le evade con noncuranza sia elegante che volutamente involontaria.
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Grecia: il vero e il crudele
di Francesca Coin
È stato proprio Varoufakis lo scorso novembre in un seminario sull’estetica della moneta tenuto a Berkeley a ricordare come la signora Thatcher fosse contrarissima all’euro. Proprio io, diceva, che sono stato a duecento manifestazioni contro di lei. Proprio io, mi trovo ora a citare la Thatcher. Era stata accolta con scetticismo, l’opposizione intransigente della Thatcher. Allora, solo lei si era opposta all’integrazione monetaria, ma la sua opposizione le era costata cara: prima le dimissioni del Ministro degli Esteri Geoffrey Howe, e poi le proprie nel novembre del 1990. Venticinque anni dopo le sue posizioni tornano ad essere oggetto di discussione, ironicamente da parte di quegli stessi critici della scuola neo-liberale a cui lei si ispirava per difendere la necessità di mantenere disperso il potere e decentralizzate le decisioni senza cedere la sovranità a “un super-stato […] che esercita un nuovo dominio da Bruxelles”.
Varoufakis riprende la Thatcher e poi torna al presente, a quell’unione europea divisa in modo quasi tragicomico proprio dall’unione monetaria in quello che sembra, per citare il suo libro, “uno squilibrio fondamentale”. È Christian Marazzi che riporta l’attenzione su questo concetto laddove descrive la situazione contemporanea come una situazione di squilibrio fondamentale, “quella situazione in cui alcuni paesi importano eccessivamente e altri esportano anch’essi eccessivamente, utilizzando i ricavi di queste esportazioni non per investire al loro interno, bensì per finanziare i deficit e i debiti dei paesi importatori” (Marazzi, 2015).
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La stretta monetaria
Manfredi De Leo*
Altro che effetti espansivi sulla crescita. Come sostenuto più volte su Economia e Politica, in assenza di una ripresa degli investimenti pubblici il quantitative easing della BCE non servirà a rimettere in moto l’economia. Sarà piuttosto uno strumento con il quale le autorità monetarie potranno imporre nuovi tagli e riforme strutturali.
La Banca Centrale Europea ha dato avvio al massiccio programma di acquisti di titoli sui mercati finanziari detto Quantitative Easing (QE). Si tratta di una misura di portata storica, per le dimensioni del programma – circa mille miliardi di euro – ma anche e soprattutto per il fatto che esso coinvolge i titoli del debito pubblico europei: la banca centrale ne acquisterà quote consistenti, in controtendenza con un’impostazione della politica monetaria incentrata sull’indipendenza dell’autorità monetaria da quella fiscale. Una mossa che ha diviso gli analisti. Da un lato chi, con Scalfari, descrive il governatore della BCE come il “motore della crescita europea”, un eroe moderno che “mette l’economia al servizio del bene comune” – spesso rappresentato in contrapposizione al governatore della Bundesbank, arcigno sostenitore del rigore. In effetti, lo stesso termine “quantitative easing” allude ad una misura che accompagna una politica fiscale espansiva, allentando quei vincoli di natura monetaria che, in assenza di un aumento della liquidità, ne ostacolerebbero l’operato. Entro questa lettura, l’eurozona appare animata da un conflitto tra due opposti indirizzi di politica economica: crescita vs rigore, ovvero Draghi vs Weidmann, con il primo che incarnerebbe lo spazio politico per condurre l’Europa fuori dal paradigma dell’austerità.
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Con Marx, contro il lavoro
di Anselm Jappe
A proposito di Moishe Postone, "Tempo, lavoro e dominio sociale. Una reinterpretazione della teoria critica di Marx"; e di Isaak Rubin, "Saggi sulla teoria del valore di Marx". -
Nell'assumere come parola d'ordine la liberazione del lavoro, l'uscita dallo sfruttamento, i marxisti tradizionali hanno trascurato il fatto che Marx ha svolto una critica, non solo dello sfruttamento capitalistico, ma del lavoro stesso, così come esiste nella società capitalista. Pertanto, si tratta non di rimettere al centro ma, al contrario, di criticare il posto centrale occupato dal lavoro in questo sistema, dove esso regola tutti i rapporti sociali. E' questo l'oggetto della rilettura di Marx svolta in "Tempo, lavoro e dominio sociale" di Moishe Postone.
Nell'editoria, a volte ci sono delle felici coincidenze. Così, questa primavera, "Mille et une nuits" (Fayard) ha pubblicato la traduzione francese del libro di Postone, pubblicato negli Stati Uniti nel 1993, mentre le edizioni Syllepse hanno ripubblicato i "Saggi sulla teoria del valore di Marx" di Isaak Rubin, la cui edizione russa risale al 1924 e la precedente edizione francese (di Maspero, ed esaurita da tempo) al 1978. In questo modo, il pubblico francofono ha in un sol colpo, a disposizione, due delle pietre miliari - si potrebbe perfino dire, il punto di partenza ed il punto di arrivo provvisorio - di una rilettura di Marx basata sulla critica del lavoro astratto e del feticismo della merce.
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Non servono "moniti" se manca una bussola
L'euro: un destino segnato?
Giovanni Mazzetti
Prosegue il dibattito sul “destino dell’euro”. Il “monito degli economisti” è inadeguato perché nega il bisogno di un radicale cambiamento della struttura delle relazioni sociali. Non è possibile una riedizione del Welfare. Perché abbiamo bisogno di una bussola per affrontare la crisi.
Poco più di un anno fa un folto gruppo di economisti di diversi paesi ha lanciato un “monito”, pubblicato sul Financial Times del 23 settembre 2013, che ora viene riproposto da Emiliano Brancaccio sull’ultimo numero di Critica marxista1.
Il succo dell’appello era ben riassunto dalle conclusioni:
Occorre essere consapevoli che proseguendo con le politiche di “austerità” e affidando il riequilibrio alle cosiddette “riforme strutturali” il destino dell’euro sarà segnato: l’esperienza della moneta unica si esaurirà, con ripercussioni sulla tenuta del mercato unico europeo. In assenza di condizioni per una riforma del sistema finanziario e della politica monetaria e fiscale che dia vita a un piano di rilancio degli investimenti pubblici e privati, contrasti le sperequazioni tra i redditi e tra i territori e risollevi l’occupazione nelle periferie dell’Unione, ai decisori politici non resterà altro che una scelta cruciale tra modalità alternative di uscita dall’euro.
Ma che cosa succede se la caduta degli investimenti pubblici e privati, l’accentuato squilibrio tra i redditi, l’esplodere della disoccupazione di massa e perfino l’eventuale futura fuga dell’euro, sono sintomi della crisi, non le sue cause? Succede – com’è successo – che il monito lascia il tempo che trova, e cioè non sortisce gli effetti sperati. Né basta insistere sulla sua attualità, come fanno ora Brancaccio e Zezza sul citato numero di questa rivista, per ottenere qualcosa di diverso.
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La connessione meridionale. Podemos, Syriza e i movimenti
Intervista con Mario Espinoza Pino e Julio Martínez-Cava Aguilar
Pubblichiamo una lunga intervista con Mario Espinoza Pino e Julio Martínez-Cava Aguilar, entrambi militanti di Podemos, ma anche ricercatori sociali. Il nostro intento era quello di guardare alla Grecia a partire dalla Spagna, cercando di mettere a tema similitudini e differenze tra i due modi di affrontare il nodo del rapporto tra movimenti e istituzioni. Questo rapporto d’altra parte non è riducibile alla scelta di partecipare o non partecipare alle elezioni. Solo lo sconcertante dibattito italiano può ridurre il problema all’accettazione o – specularmente ‒ al rifiuto di stabilire una qualche alleanza con un ceto politico residuale o con qualche piccolo partito più o meno esistente. La tensione tra movimenti e istituzioni è in realtà un campo politico in cui si tratterebbe di mettere alla prova realisticamente la propria capacità di ottenere risultati, dimostrando l’efficacia del moto dei movimenti invece di fissarli in traiettorie definite e determinate una volta per tutte, lungo le quali ci si muove con la sicurezza di chi affronta percorsi conosciuti e cerca di evitare ogni novità.
L’intervista è stata fatta prima dell’ultimo round delle trattative tra il governo greco e le istituzioni europee, quindi non tiene ancora conto del tentativo di governare l’aporia che esse hanno evidenziato.
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La Controriforma e la Rivolta
di Rino Genovese
In un tempo ormai lontano, per tutti gli anni sessanta del Novecento e buona parte dei settanta, si sono contrapposte due idee, se si vuole due ipotesi, cariche entrambe di ambizioni innovative, ambedue non prive di una loro mitologia retrodatabile (nel senso che non nascevano di punto in bianco ma affondavano le radici nel passato). Erano la Rivoluzione e la Riforma. La prima aveva alle spalle la rottura francese del 1789 e poi – come in una grande epopea – le successive ondate ottocentesche fino alla Comune di Parigi e oltre, fino all’Ottobre sovietico e al moto spartachista in Germania. La concezione di fondo era quella, progressista radicale, della violenza come levatrice della storia: Hegel e Marx insieme, realismo politico e utopia. Dall’altro lato splendeva di una luce non meno intensa un’idea riformistica, gradualistica, a lungo prevalente nel movimento operaio organizzato, diciamo fino alla prima guerra mondiale, e ritornata in auge dopo la seconda. Stando a questa concezione, il modo capitalistico di produzione e di consumo va corretto, in prospettiva anche superato, senza il ricorso alla violenza rivoluzionaria: piuttosto con la pressione dei movimenti sociali combinata con una strategia elettorale e un’azione di governo.
Esisteva certo una serie di opzioni, variamente modulate, per cui la Rivoluzione poteva andare dalla semplice esaltazione rituale della Russia sovietica, o in seguito della Cina rossa, al progetto – non si sa quanto realistico – di una lotta che vedesse la fine dello stesso Occidente capitalistico, con il contributo più o meno decisivo delle spinte rivoluzionarie provenienti dal Terzo mondo; mentre, nel segno della Riforma, si poteva intendere un mero accomodamento in funzione di quello che all’epoca era detto il neocapitalismo, come pure una progressiva fuoriuscita dal sistema mediante le “riforme di struttura”.
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Le lezioni della Grecia e le prospettive
di Michele Nobile
1. Per la prima volta dalla formazione dell'area dell'euro, nel negoziato tra il governo Tsipras e la troika (Banca centrale europea, Commissione europea, Fondo monetario internazionale) si sono opposte in modo chiaro due linee realmente alternative, sul piano istituzionale e del confronto fra governi. Da una parte alcuni dei governi e delle istituzioni più potenti del mondo, che da anni scaricano i costi della crisi capitalistica interamente sui lavoratori e sui comuni cittadini; dall'altro lato del tavolo, il governo di un paese devastato dall'austerità e in depressione si è fatto portavoce della necessità di provvedere urgentemente alla gravissima condizione in cui versano i lavoratori e i comuni cittadini greci. Non c'è alcun dubbio che in questa contrattazione si siano confrontate e scontrate la democrazia e la postdemocrazia, gli interessi immediati del popolo greco e gli interessi immediati del capitale europeo. Per la sua logica e per ciò che potrebbe implicare per gli orientamenti della politica economica e sociale del continente, il programma di Syriza è suonato alle orecchie delle caste politiche della postdemocrazia europea come un delitto di lesa maestà. Inoltre, la visione implicita nella proposta di Syriza è quella di un'Europa autenticamente federale; la troika, invece, intende l'unione monetaria alla stregua di un accordo di cambi fissi, con ciò minando la coesione europea.
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Perchè l'avanzata del fascismo è nuovamente il problema
di John Pilger
Il recente 70° anniversario della liberazione di Auschwitz ci ha ricordato quale grande crimine sia il fascismo, la cui iconografia nazista è radicata nelle nostre coscienze. Il fascismo è conservato come storia, come tremolanti riprese di camicie nere che marciano al passo dell'oca, la loro criminalità terribile e chiara. Eppure, nelle stesse società liberali le cui belligeranti élite ci impongono di non dimenticare mai, del crescente pericolo di un moderno tipo di fascismo non si parla, perché è il loro fascismo.
"Iniziare una guerra di aggressione...", dissero nel 1946 i giudici del tribunale di Norimberga, "non è soltanto un crimine internazionale, ma è il crimine internazionale supremo, che differisce dagli altri crimini di guerra solo in quanto contiene in sé l'accumulo di tutti i mali".
Se i nazisti non avessero invaso l'Europa, Auschwitz e l'Olocausto non sarebbero accaduti. Se gli Stati Uniti ed i loro vassalli non avessero iniziato la loro guerra di aggressione in Iraq nel 2003, quasi un milione di persone oggi sarebbero vive, e lo Stato islamico, o ISIS, non ci avrebbe in balìa delle sue atrocità. Essi sono la progenie del fascismo moderno, svezzato dalle bombe, dai bagni di sangue e dalle menzogne, che sono il teatro surreale conosciuto col nome di informazione.
Come durante il fascismo degli anni '30 e '40, le grandi menzogne vengono trasmesse con la precisione di un metronomo grazie agli onnipresenti, ripetitivi media e la loro velenosa censura per omissione. Prendiamo ad esempio la catastrofe in Libia.
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La politica monetaria di Draghi è efficace, anzi no
Gerardo Marletto, Domenico Moro
Con un suo recente intervento su economiaepolitica.it, Domenico Moro sottolineava l’inefficacia del quantitative easing alla Draghi ai fini della crescita economica. Queste tesi, che più volte abbiamo proposto ai nostri lettori, sono state oggetto di critiche da parte di Gerardo Marletto. Qui pubblichiamo un botta e risposta tra Marletto e Moro sulla inefficacia delle politiche monetarie espansive in presenza di austerità.
La critica di Gerardo Marletto
L’articolo di Domenico Moro (“Un quantitative easing per i mercati azionari e non per l’occupazione”) si inserisce in una linea di pensiero che da qualche tempo caratterizza non solo la rivista economiaepolitica.it ma buona parte del pensiero economico della sinistra nostrana. Una linea di pensiero allo stesso tempo presuntuosa e sbagliata.
A mio modo di vedere tutto comincia con l’arrivo di Draghi alla BCE.
Fino a quel momento non si poteva che essere d’accordo nella critica all’ossessione per l’inflazione della BCE. E giustamente si attaccava la reiterazione di questo modello restrittivo di politica economica contro i cosiddetti PIGS.
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Democrazia, partiti di massa e liberoscambismo
Saper dire la verità (l'ultima chance)
Quarantotto
1. Mi rendo conto di quanto sia importante coordinare, in un'unica esposizione riassuntiva, il discorso che abbiamo cercato di svolgere negli ultimi mesi.
La questione riguarda il tema dei temi: e cioè come la democrazia "sostanziale" (imperniata sulla tutela dei diritti fondamentali sociali da parte delle istituzioni politiche, a ciò vincolate dalle Costituzioni democratiche), non possa effettivamente sopravvivere all'inserimento della società in un paradigma liberoscambista.
Più esattamente, si tratta di come la democrazia, all'interno di tale paradigma liberista, non possa sopravvivere se non in termini "idraulici", che significa "tolleranza" verso l'espressione del voto, ma a condizione che conduca alla ratifica di indirizzi di politica economica e sociale rigidamente precostituiti, cioè convenienti alla oligarchia che controlla de facto ogni processo decisionale.
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Con la vittoria di Syriza si apre una nuova fase in Europa
di Alfonso Gianni
Siamo in molti ad avere sostenuto a più riprese che, in particolare in Europa, è assolutamente necessario che la politica prenda il primato sull’economia. Principio giustissimo. Ma non sufficiente per fare fronte alla nuova situazione che si sta profilando attorno all’affaire greco. Infatti la cattiva politica che domina attualmente in Europa si sta comportando nei confronti della Grecia addirittura peggio dei poco teneri mercati finanziari. Sembra un paradosso, ma non è difficile rendersene conto se seguiamo lo svolgimento degli ultimi eventi.
L’economista Yanis Varoufakis, attualmente ministro delle finanze del nuovo governo greco, rispondeva così - in una intervista rilasciata al Manifesto a fine 2014 – sulle probabilità di vittoria di Syriza nelle elezioni che si sarebbero tenute di lì a un mese: “Non c’è alcun dubbio che le forze dell’establishment faranno di tutto per fermare Syriza, ricorrendo alle più bieche forme di terrorismo psicologico nei confronti dell’elettorato greco. Ma sembra che questa volta tale strategia, già impiegata con successo in passato, sia destinata a fallire”. Così è stato.
Il terrorismo psicologico contro la Grecia
Il “terrorismo psicologico” non è stato lieve. Diciamo che si è solo fermato alla soglia del terrorismo vero e proprio. Non si è trattato solo di una campagna di stampa avversa condotta su scala internazionale. Non ci sono state soltanto le dichiarazioni dei vari leader o capi di stato che si sentono le vestali delle politiche di austerità.
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Il disagio della democrazia
Bruno Amoroso*
La democrazia è la lotta con cui i popoli costruiscono sistemi politici per impedire il consolidarsi di gruppi di potere. L’Ue si è sottratta a questa concezione: al centro del progetto europeo oggi ci sono la delega all’élite, il rilancio delle associazioni massoniche, il controllo della formazione univeristaria e dei media, la manipolazione dei bisogni, le forme moderne di retorica e populismo, la frantumazione delle relazioni sociali. È l’Europa del pensiero unico e della società degli individui. Tuttavia la repressione del legame sociale non ha prodotto la sua estinzione e il rifiuto delle politiche di austerity imposte dalla Troika è ormai enorme. Per questo, spiega Bruno Amoroso, le élite europee, su comando dei padroni della finanza internazionale gestiti da Mario Draghi, hanno cominciato a riscaldare i motori. Abbiamo bisogno di rinegoziare i trattati europei, di eliminare misure inique come il fiscal compact e il Patto di stabilità, di tirare fuori l’Ue dalla spirale di guerre innescata dagli Usa. La democrazia si riconquista dando voce al popolo, con buona pace di chi ama tuttora discettare sul “disagio” della democrazia.
La concezione della democrazia, da sempre, esprime il volere e il potere del popolo, che le istituzioni dovrebbero prendersi cura di realizzare. La Costituzione italiana del 1948 recepisce questo concetto. Le istituzioni sono pertanto espressione del popolo e della sua volontà, e la loro legittimità nasce dalla capacità di esercitare queste funzioni mediante il potere di revocabilità degli eletti, che le elezioni e altre forme di espressione del consenso consentono. Un sistema politico, questo, che impedisce il consolidarsi di gruppi di potere e posizioni privilegiate di governo in contrasto con la volontà popolare e il bene comune.
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E’ In Arrivo Una ‘Primavera Europea’?
di Matteo Mameli e Lorenzo del Savio
Dal sito PopularResistance.com, un articolo di due studiosi italiani, Matteo Mameli e Lorenzo del Savio, sottolinea come i partiti radicali che suscitano tante speranze in Europa e che cercano di cambiare dall’interno le istituzioni europee, presentino in realtà il forte rischio di essere “catturati” dalle oligarchie che ci governano. L’inganno potrebbe passare attraverso l’idea di Piketty di salvare la democrazia europea tramite un rafforzamento del Parlamento europeo. Niente di più falso e inutile, sostengono gli autori. L’argomento, che potrebbe diventare di pressante attualità nei prossimi mesi, è ulteriormente approfondito nel paper degli stessi autori di cui abbiamo proposto la traduzione e che vi invitiamo a sostenere.
Sull’onda della vittoria del partito progressista di Syriza alle elezioni greche del 25 gennaio 2015, alcuni hanno iniziato a parlare dell’arrivo di una ‘Primavera Europea’, una rivolta democratica contro lo status quo politico in Europa.
Questo status quo ha imposto delle brutali politiche di austerità su paesi come Grecia, Cipro, Spagna, Italia, Portogallo e Irlanda. Queste politiche hanno portato avanti e tutelato gli interessi delle banche e, più in generale, di coloro che detengono grosse attività finanziarie. Esse hanno portato avanti e tutelato gli interessi delle grandi imprese. Hanno provocato dei tassi di disoccupazione incredibilmente alti, una enorme compressione dei salari dei lavoratori e un numero impressionante di fallimenti di piccole imprese. Esse hanno portato a tagli drammatici alla sicurezza sociale e ai sistemi sanitari pubblici.
Queste sono questioni economiche, ma sono anche questioni morali. Rapinare una intera generazione di giovani europei della possibilità di trovare un lavoro decente significa privarli delle loro speranze e della dignità. Ma oltre a questi problemi, ci sono altri aspetti dello status quo europeo che sono veramente scandalosi. Attraverso una varietà di meccanismi – dai memorandum della troika ai patti e ai trattati UE – le istituzioni europee hanno derubato i cittadini europei di ogni controllo democratico significativo sulle decisioni politiche.
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Appunti di critica marxista alle “Confessioni” di Varoufakis
Aristide Bellacicco*
Confesso – ammetto, è meglio dire – di non aver letto integralmente, fino ad oggi, le “Confessioni” del ministro Varoufakis. Oggi ho avuto tempo e l’ho fatto. In effetti, queste pagine in cui Varoufakis pone se stesso al centro di una vicenda storico-esistenziale con risonanze epocali mi hanno fatto sorgere più di una perplessità. Le sintetizzo – parzialmente e per punti – qui di seguito.
– 1 Scrive Varoufakis: “Marx aveva fatto una ‘scoperta’ che deve restare al centro di ogni analisi utile del capitalismo. Era, ovviamente, la scoperta di un’…opposizione binaria profonda nel lavoro umano. Tra due ‘nature’ molto diverse del lavoro: (i) lavoro come attività di creazione di un valore che non può mai essere specificato o quantificato in anticipo (e perciò è impossibile da mercificare) e (ii) lavoro come una quantità (ad esempio il numero di ore lavorate) che è in vendita e si ottiene a un certo prezzo. E’ questo che distingue il lavoro da altri fattori della produzione, come l’elettricità: la sua natura doppia, contraddittoria.” Ora, per quanto mi è noto, la doppia natura del lavoro in Marx oppone il lavoro in quanto produttore di “ricchezza” (valori d’uso) al lavoro in quanto produttore di “valore” (rintracciabile nel valore di scambio). E’ chiaro che il “lavoro come attività di creazione di un valore” non può mai essere quantificato in anticipo, perché è solo nella realizzazione del plusvalore (e non nella sua produzione) che viene in chiaro quanto profitto il capitale sia riuscito o meno a realizzare. D’altra parte, è proprio nella riduzione del “lavoro” (ma sarebbe meglio dire della “forza- lavoro”) ad una entità quantificabile che trova la sua ragion d’essere la produzione di valore (e di plusvalore). E ciò, in Marx, è vero sia sotto il profilo logico che sotto il profilo storico. Risparmio a tutti, e al buon Varoufakis soprattutto, le citazioni arcinote in cui questa affermazione trova riscontro.
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Andiamo verso una dissoluzione conflittuale della zona euro
Jacques Sapir
Siamo entrati in una fase acuta della crisi dell'euro
Le ultime dichiarazioni o articoli scritti nei giorni scorsi da diversi economisti e politici europei dimostrano che siamo entrati in una fase acuta della crisi dell'euro. In Grecia, la questione di un possibile ritorno alla dracma è discussa apertamente. In Italia è Stefano Fassina, un economista del Partito democratico, ex Vice Ministro dell'Economia e delle Finanze nel governo Letta, che ha deciso sulla questione Euro di attraversare il Rubicone.
La "conversione" di Fassina a tesi critiche sull'euro dimostra che il dibattito si sta espandendo in Italia. Più di recente, è stato Wolfgang Streeck, sociologo ed economista, che in un anrticolo su Le Monde ha sostenuto che l'Europa dovrebbe abbandonare la moneta unica. Queste diverse posizioni, per non parlare di quelle di Podemos in Spagna, sono un buon indicatore che siamo ad un punto di rottura. Streeck dice senza mezzi termini che mantenere l'euro sta uccidendo l'Europa e causando un aumento dell' antagonismo anti-tedesco.
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