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Alquati, «meglio parlarne applicandolo»
di Francesco Bedani e Francesca Ioannilli
Come è noto, Romano Alquati è stata una figura centrale dell’operaismo politico italiano; meno noto il percorso successivo, negli anni Settanta e poi negli Ottanta e Novanta, in cui continua e approfondisce la sua elaborazione e modellizzazione del capitalismo contemporaneo. Comunque, nonostante la notevole produzione teorica, la centralità politica delle lotte che hanno investito la società nella seconda metà del Novecento e le avanzate analisi sul passaggio dal ciclo produttivo al ciclo riproduttivo, la figura di Alquati sconta a oggi alcuni limiti. La complessità delle sue elaborazioni da una parte e la scarsa diffusione dei suoi scritti dall’altra, lo mantengono confinato entro poche e ristrette cerchie di studiosi e militanti. Ostile se non dichiaratamente nemico tanto dell’attivismo politico in senso volontaristico quanto dell’opinionismo, il suo è un pensiero radicale, difficilmente circoscrivibile a una particolare disciplina.
Combattendo sia il rifiuto della sua complessa ricchezza in nome di un nuovismo superficiale e sradicato, sia la tentazione del culto della marginalità, dell’agiografia o dello specialismo per piccoli circoli, in questo articolo Francesco Bedani e Francesca Ioannilli – militanti delle nuove generazioni – spiegano con chiarezza teorica e politica perché Alquati va conosciuto, studiato e utilizzato.
Per approfondire si veda il volume curato da Bedani e Ioannilli Un cane in chiesa. Militanza, categorie e conricerca di Romano Alquati (collana Input di DeriveApprodi, 2020). A giugno DeriveApprodi avvierà la pubblicazione o ripubblicazione dei principali testi alquatiani a partire da un inedito, l’ultimo suo testo: Sulla riproduzione della capacità umana vivente. L’industrializzazione della soggettività.
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Dove si pone il limite? Un sistema economico inaccettabile
di Giovanna Cracco
Mettiamo insieme alcuni dati.
Il 26 gennaio il Fondo monetario internazionale aggiorna il World Economic Outlook sull’economia globale del 2020: nell’anno della pandemia da Covid-19, il Pil mondiale registra un calo del 3,5%. Un numero senza precedenti, evidenzia il documento. Con l’eccezione della Cina (e altre economie asiatiche, come il Vietnam), in territorio positivo, i dati sono negativi (vedi Grafico 1, pag. 7): si va dal -11,1% della Spagna al -7,2% dell’Eurozona al -3,4% degli Stati Uniti, e via a seguire. Per tornare ai livelli pre-pandemia, sottolinea il report, non basteranno né il 2021 né il 2022, e i numeri previsionali sono aleatori perché molto dipende dalle campagne di vaccinazione, da eventuali nuove ondate, dalle varianti del virus che si affacceranno. Una sola cosa è certa: la crisi economica lascerà povertà e diseguaglianza, e spingerà 90 milioni di persone in una indigenza estrema tra il 2020 e il 2021.
Il 25 gennaio l’Organizzazione internazionale del Lavoro (OIL) pubblica la settima edizione della “Nota OIL Covid-19 e il mondo del lavoro. Stime e analisi aggiornate sull’impatto del Covid-19 sul mondo del lavoro”. Lo studio (vedi Grafico 2, pag. 9) stima al 8,8% la perdita delle ore lavorate a livello globale nel 2020, pari a 255 milioni di posti di lavoro a tempo pieno (calcolati su una settimana lavorativa di 48 ore); è una perdita quattro volte superiore a quella registrata nella crisi del 2009.
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Il potere del Grande Altro
di Giorgio Salerno
Viviamo un tempo segnato da un enorme potere antidemocratico e predatorio, è un potere in grado di compiere strumentalizzazioni di una portata senza precedenti e di impossessarsi dell’esperienza umana come materia prima per trasformarla in dati comportamentali. Il capitalismo della sorveglianza è il nome che il fortunato libro di Shoshana Zuboff usa per raccontare l’ennesima trasformazione di un sistema che plasma il modo di vita delle società organizzate per garantire il dominio dell’accumulazione sulla vita. Approfondendo il processo di estrazione di dati dalle stesse esistenze, il capitalismo della sorveglianza è sbarcato da tempo sul grande continente dei nostri dark data: motivazioni, desideri, umori, emozioni, ecc., da “renderizzare” in piccolissimi pezzetti di comportamento, per addestrare sempre meglio le macchine di intelligenza artificiale. Se la civiltà industriale ha prosperato a spese della natura e ora minaccia la biosfera e la nostra esistenza, afferma la Zuboff, la civiltà dell’informazione dominata dal capitalismo della sorveglianza può prosperare solo a spese della natura umana, minacciando la nostra stessa umanità. Una lettura analitica del suo libro invita a non rassegnarsi alla retorica dell’inevitabile e a lottare contro l’esproprio del nostro futuro.
* * * *
Un testo di straordinaria attualità e acutezza di analisi, quello di Shoshana Zuboff. Studia la più recente evoluzione del capitalismo, il quale si appropria dell’esperienza umana e la trasforma (renderizzazione) in dati; di questi, una piccola parte serve a migliorare prodotti o servizi, ma tutto il resto è surplus comportamentale, che le macchine di “intelligenza artificiale” (I.A.) trasformano in prodotti predittivi, merce da scambiare nel nuovo mercato dei comportamenti futuri.
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Perchè Berlinguer non ha eredi. Il gesto suicida di un idiota
di Sandro Abruzzese
Sulla Questione comunista in Italia si potrebbe cominciare, se non altro per limitare il campo, da quell’11 giugno del ’69, a Mosca, dove il futuro segretario del Pci, Enrico Berlinguer, alla Conferenza internazionale dei partiti comunisti, non solo ribadisce la via italiana al socialismo: una via democratica, plurale, nel solco della Costituzione repubblicana; ma rivendica un internazionalismo in funzione antimperialista e antifascista fatto di piena sovranità e parità di diritti tra tutte le nazioni. È un discorso noto, in cui, a pochi anni dal Memoriale di Yalta, il Pci di Longo rifiuta ancora una volta l’ipotesi di stati guida, e condanna nuovamente l’intervento sovietico in Cecoslovacchia dell’anno precedente.
La libertà della cultura, la questione dell’indipendenza e della sovranità, ogni ampliamento democratico, sono auspicabili per la credibilità stessa del socialismo, questa la posizione italiana, che segue la linea storicistica tracciata da Gramsci e Togliatti, il quale, come ebbe a dire Renzo Liconi, per primo aveva maturato l’abbandono della statalizzazione dell’economia in virtù della socializzazione della politica.
All’Unione sovietica viene sì riconosciuto lo sforzo per la pace, per l’emancipazione dei popoli, il ruolo guida della Rivoluzione d’Ottobre, tuttavia da tempo in Italia si rivendica completa maturità e autonomia di giudizio.
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Appunti palestinesi
di Jack Orlando
1. Israele è uno Stato criminale. Fondato su basi teologiche e tenuto in piedi dal terrore, dal colonialismo e dalla segregazione. Ma questo è noto, sono note le violazioni dei diritti umani, le occupazioni illegali di terre e di case, gli arresti di bambini, le fucilate sui contadini e gli omicidi mirati all’estero. Come non è nuovo che il concetto di guerra sviluppato nelle stanze dell’esercito “di difesa” israeliano non presuppone il coinvolgimento di civili come perdite collaterali, bensì come obbiettivo esplicito per fiaccare, tramite paura e caos, la resistenza palestinese (ma possiamo immaginare che non si farebbe problemi a bombardare famiglie di innocenti anche all’estero).
Quando si guarda alla forma politica e militare sionista, si guarda all’avanguardia dell’Occidente, laboratorio di governo sociale securitario che combina produzione massiva di consenso con articolati dispositivi di contro-insorgenza e di mobilitazione militare talmente ampia da strabordare oltre ogni confine fino a non poter distinguere più ambito civile da ambito militare.
Bollarlo di nazismo o di barbarie fine a se stessa è solo fuorviante, poiché lo limita ad una situazione di eccezionalità apparentemente irriproducibile, oscurando invece il ruolo oltre che geopolitico, anche laboratoriale strategico: nella questione arabo-israeliana vengono messi a regime e verificati esperimenti di governo propri di un territorio in crisi permanente; che è proprio ciò che l’Occidente ha davanti a sé come prospettiva e da quel laboratorio trae (o meglio, compra) strumenti e lezioni per blindare la sua posizione. Quella che è stata definita più volte democrazia autoritaria ha frequentato parecchie lezioni in ebraico. La questione arabo-israeliana non è qualcosa di altro dall’Europa, è l’eccezione che può serenamente essere norma in un tempo venturo.
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Il falso mito del “Draghi keynesiano”
di Riccardo D'Orsi
Da ormai diverse settimane è in atto un asfissiante opera di propaganda a favore dell’esecutivo tecnico da poco insediatosi, e in particolare, della figura di Mario Draghi. Una simile narrativa si colloca sulla scia dell’approccio scientista che impregna molti dei dibattiti contemporanei e che, nel caso delle questioni economiche, identifica nei professionisti incaricati di occuparsi di una presunta “ingegneria sociale” la soluzione ultima a problemi che in realtà presentano una matrice squisitamente politica. È infatti ignorandone la natura politica che l’economia viene presentata come scienza “dura”, portatrice di verità manifeste e priva di trade-off distributivi. Sulla base di un tale presupposto, gli specialisti che se ne occupano vengono quindi presentati come personalità scientifiche neutrali [1].
È invece dal recupero delle radici ontologiche della scienza economica, originariamente configurata come “economia politica” [2], che è necessario partire per elaborare un giudizio di merito sul nuovo esecutivo. Stabilito quindi che la tecnica non è mai neutrale [3] e che dunque i “tecnici” al governo in realtà esprimono specifiche istanze non suffragate dall’esito della normale dialettica partitica alla base di qualunque sana democrazia liberale, non si può non concludere che questi rappresentino un sintomo della crisi delle istituzioni repubblicane e del fallimento della politica.
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Prefazione alla nuova edizione aprile 2021 di "L'Effondrement de la modernisation" di Robert Kurz
di Anselm Jappe e Johannes Vogele
Questo libro venne pubblicato per la prima volta nel mese di settembre del 1991, in Germania. Ebbe immediatamente una certa eco. Da quasi due anni era caduto il muro di Berlino, da quasi un anno la Germania era stata "riunita", ma l'Unione Sovietica - ancora in preda a delle convulsioni - non si era ancora dissolta formalmente. Scrivere "Collasso", ha coinciso con quel periodo così ricco di cambiamenti. Hans Magnus Henzesberger, un importante intellettuale tedesco dotato di un grande intuito, lo pubblicava presso l'editore Eichborn nella sua prestigiosa collana "Die andere Bibliothek". A far rapidamente raggiungere alla diffusione di questo libro il traguardo delle ventimila copie, fu probabilmente il rapido disincanto tedesco nei confronti delle speranze di nuovi miracoli economici; cosa che portò l'influente giornale "Frankfurter Rundschau" a definire quel libro come «la più discussa tra tutte le recenti pubblicazioni». Venne ben presto tradotto in Brasile, dove scatenò una vera e propria passione per la Critica del Valore.
Oggi, trent'anni dopo, può essere letto sotto diversi punti di vista. Vi si trova l'analisi dello stato del mondo in un momento cruciale, un'analisi che continua ancora a stupire per la sua perspicacia e audacia. Il suo soggetto principale è i crollo del «socialismo reale» nei paesi dell'Est; un avvenimento che , per gran parte dei lettori odierni, si situa prima della loro nascita o nella loro prima infanzia: una storia ormai lontana.
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La liberazione della Palestina ed Israele nel vortice della crisi generale del sistema capitalista
di Noi non abbiamo patria
Quando nei primi giorni di maggio salta la rabbia palestinese di Gerusalemme Est contro il via libera della Corte Suprema di Israele di sfrattare con la forza le famiglie palestinesi dal quartiere di Shaikh Jarrah, per assegnarle ai nuovi colonizzatori israeliani, e scoppiano le violenti proteste presso la moschea di Al Aqsa contro le truppe di occupazioni israeliane (indomite nel provocare i palestinesi durante il mese del Ramadan, negando loro l’accesso alla “Porta di Damasco” e alla moschea stessa), era immediatamente chiaro che si dipanava una pianificata escalation della pulizia etnica della Palestina.
Pianificazione che ha visto alcune precise tappe precedenti nel corso degli ultimi quattro anni, con il sostegno del suo principale manutengolo l’imperialismo USA che ha provato a condizionarne tempi e modalità:
- La dichiarazione unilaterale di Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele;
- Il suo riconoscimento da parte della Casa Bianca degli Stati Uniti d’America ed il seguente spostamento della sua ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme;
- Il riconoscimento dello Stato di Israele da parte degli Emirati Arabi Uniti e Bahrain promossa dall’azione diplomatica di Trump anche per rimettere in riga i paesi dell’OPEC;
- la dichiarazione unilaterale di Israele dell’annessione dei territori occupati della Cisgiordania;
- e non da ultimo la conferma della presidenza degli USA Biden a mantenere la sua ambasciata proprio a Tel Aviv, in continuità con le decisioni prese dall’ex presidente Donald Trump, e a sottoscrivere negli ultimi giorni un contratto di vendita in armamenti per 736 milioni di dollari.
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Tutte le fake news dei cacciatori di fake news
di Fulvio Scaglione
Così è (se vi pare), scena prima, parte prima. Siamo nel giugno 2020, il Washington Post spara la notiziona: la Russia ha pagato i talebani perché, a partire dal 2018, uccidessero soldati americani in Afghanistan. A ruota arriva il New York Times: titolare del programma di assassini prezzolati sarebbe l’Unità 29155 del Gru, i servizi segreti militari russi. E siccome siamo agli inizi della campagna elettorale Usa, si aggiunge: Donald Trump lo sapeva già da febbraio ma non ha detto né fatto nulla. Sottinteso: perché è una marionetta di Putin. Ovviamente Joe Biden ci si butta a pesce: “”Non capisco perché questo Presidente non sia disposto ad affrontare Putin che paga taglie ai taliban perché uccidano soldati americani in Afghanistan”, dice durante il dibattito presidenziale del 22 ottobre. Altrettanto ovviamente la notiziona viene riversata tal quale da tutti (o quasi) i media della provincia italiana.
Scena prima, parte seconda: aprile 2021, sono le stesse agenzie americane, militari e della sicurezza, a smentire la storia che merita, secondo loro, “low to moderate confidence”. La Nbcn, una delle Tv più accanite nell’inseguire la storia, traduce così: “Nel gergo dell’intelligence, una moderata fiducia significa che le informazioni sono plausibili e provenienti da fonti credibili, ma non abbastanza corroborate da meritare una valutazione più alta. Una bassa confidenza significa che l’analisi è basata su informazioni discutibili o non plausibili – o informazioni troppo frammentate o scarsamente confermate per trarre conclusioni solide. Può anche riflettere problemi con la credibilità delle fonti”.
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...e non avete ancora visto niente!
Nota semiseria su «Great Reset» e dintorni
di Il Lato Cattivo
«Udii poi una gran voce dal tempio che diceva ai sette angeli: “Andate e versate sulla terra le sette coppe dell'ira di Dio” Partì il primo e versò la sua coppa sopra la terra; e scoppiò una piaga dolorosa e maligna…»
(Apocalisse di Giovanni, XVI, 1-2)
Si è fatto un gran parlare, anche in ambienti a noi contigui, del presunto progetto di «Great Reset» (grande riaggiustamento), che facendo strumentalmente leva sulla pandemia da Covid-19, mirerebbe a una profonda riconfigurazione dell’economia mondiale. Come è ormai noto, The Great Reset è anche il titolo di un libro di Klaus Schwab e Thierry Malleret, considerato da alcuni come una conferma dell'esistenza del suddetto progetto. Cosicché siamo andati a vedere cosa c'è nel libro, convinti di trovarvi sostanziose indicazioni, ancorché business friendly, sulla ristrutturazione possibile del modo di produzione capitalistico (MPC). Abbiamo allargato le nostre ricerche ad altri testi della stessa risma. Risultato: una grande delusione. Pubblicazioni come quella di Schwab e Malleret testimoniano della situazione di stallo delle frazioni attualmente dominanti della classe capitalista, più che della loro dinamicità. Farne un manuale della ristrutturazione ad uso del grande capitale, non solo è far troppo onore a suoi autori; è soprattutto non comprendere cosa spinga il MPC a rivoluzionare se stesso. Lo vedremo meglio nella seconda parte di questa breve nota. Ma andiamo con ordine.
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Alcune note a margine sul neoliberismo
Dall’«ordine spontaneo» di Hayek al «triedro del potere» di C. Galli
di Salvatore Bianco
Avvertiti della lezione socratica, che di ogni cosa incitava a chiarificarne il senso, e al netto del neoliberista di turno che dirà sempre e comunque che il neoliberismo semplicemente non esiste, avviamo queste brevi note col dichiarare in esplicito che si assumerà qui il neoliberalismo quale paradigma economico storicamente determinato. Corre l’obbligo altresì precisare che si utilizzerà la nozione di «paradigma» nell’accezione classica coniata da Thomas Kuhn, sia pure nel contesto ancora limitato delle rotture epistemologiche (La struttura delle rivoluzioni scientifiche,1962), per rimarcare la dimensione non solo teoretica ma preminentemente pratica del nuovo modello economico vincente. In apertura del suo famoso saggio scrive infatti Kuhn che il paradigma è «una costellazione di concetti, percezioni e valori che creano una particolare visione della realtà» per cui rappresenta «gli occhiali attraverso cui vediamo la realtà» e, ovviamente, dei relativi modi di agire.[1]
Attraverso una vera e propria rivoluzione economica e sociale, sia pure apparentemente incruenta, sul finire degli anni Settanta una nuova visone generale del mondo ha cominciato, infatti, ad affacciarsi nelle già travagliate società occidentali. Ha demolito in un decennio, o poco più, lo Stato sociale keynesiano, egemonico nel trentennio precedente, istituendo via via, in forme sempre più compiute, una «sovranità globale di mercato».
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La geopolitica del petrolio
con il Professor Giuseppe Gagliano (Cestudec)
Giancarlo Capozzoli ha realizzato con l'autorevole Professor Giuseppe Gagliano, Presidente del Centro Studi Carlo De Cristoforis (Cestudec), e docente dell'Istituto alti Studi Strategici e Politici (IASSP), questa analisi storico strategica della guerra del petrolio e delle sue conseguenze geopolitiche nel corso degli anni
Dalla fine del XIX secolo, la corsa al petrolio ha accompagnato lo sviluppo del mondo e la sua crescita. Ha contribuito sia a migliorare drasticamente le condizioni di vita che a volte a distruggerle con una velocità impressionante. Questa dicotomia spiega in gran parte l’importanza strategica che le viene attribuita. Ancora oggi l’accesso all’oro nero fornisce questa leva essenziale per il dominio economico e militare. La sua conquista ha portato a molti conflitti, ha anche ridisegnato alcuni confini e modificato gli equilibri di potere internazionali. Gli Stati sono naturalmente gli attori apparenti in queste aspre lotte. Ma alcune grandi compagnie petrolifere svolgono un ruolo altrettanto importante nel teatro delle operazioni.
Tuttavia, come ha detto Sun Tzu, “L’intero successo di un’operazione sta nella sua preparazione.” Ebbene ,il successo della conquista del petrolio non fa eccezione a questa regola e richiede un lavoro di intelligence efficace a monte. Di conseguenza, i metodi utilizzati saranno moralmente ambigui e molto spesso andranno oltre il quadro della legalità. I servizi di intelligence utilizzeranno quindi i mezzi a loro disposizione spiando, rintracciando e persino istigando rivoluzioni nei paesi presi di mira. Inoltre creeranno stretti legami con politici e imprese per cooperare meglio e difendere gli interessi nazionali. Il loro utilizzo sarà poi a volte difensivo, a volte offensivo a seconda delle manovre da eseguire.
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Frammenti di welfare: formare al lavoro nei piani di ripresa post-pandemica
di ∫connessioni Precarie
Nell’Europa dei Recovery Plan la formazione è destinata a ricoprire un ruolo centrale nel welfare post-pandemico. Nella corsa dei governi nazionali per accedere ai fondi con cui ristrutturare i propri sistemi produttivi e sociali, il welfare assume il volto di una competizione tra progetti: quelli dei governi nazionali e quelli di lavoratori e lavoratrici alla ricerca di un’occupazione sempre più sfuggente e precaria, che richiede di accumulare costantemente quella condanna che è il capitale umano. Valorizzare sé stessi, aggiornare costantemente le proprie conoscenze e competenze diventa il motivetto che donne, precari e migranti dovranno ripetersi perché questo è il criterio sempre più stringente per accedere a una cittadinanza gerarchicamente differenziata secondo la quota di sapere sociale che ciascuno porta con sé.
Di fronte alla crisi pandemica che ha rimesso al centro del discorso politico la necessità di un intervento pubblico nella gestione della riproduzione sociale, e dunque della capacità di assicurare le condizioni economiche e sociali della produzione, l’Europa pianifica per la prima volta avendo a disposizione dei fondi per farlo. L’obiettivo dei suoi piani però non è una novità, anzi si pianifica quel che resta di un vecchio sogno europeo già perseguito in vari in modi negli ultimi vent’anni: fare della formazione e del lavoro un tutt’uno, legare a doppio filo il welfare con le politiche attive per il lavoro, a cui viene interamente piegata la formazione, normalizzare la precarizzazione rompendo il confine tra pubblico e privato.
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Cinismo, suicidio e la forza del caos
Ovvero: fate figli per incrementare il numero degli infelici da suicidare
di Franco «Bifo» Berardi
Prologo in cielo
Maggio 2021: la ministra della Famiglia Elena Bonetti ha comunicato agli Stati Generali della Natalità che presto sarà concesso l’assegno unico e universale da 250 euro per ogni figlio. L’assegno è stato votato insieme da Enrico Letta e dal suo alleato Matteo Salvini, che insieme si sono anche recati al portico di Ottavia per esprimere solidarietà ai massacratori israeliani.
C’è qualche nesso tra il gesto infame di Enrico Letta e del suo alleato Salvini e gli Stati generali della Natalità?
Nessuno naturalmente.
Ma forse a pensarci meglio le due cose sono una sola: per evitare che la razza bianca scompaia occorre pagare le donne bianche perché producano infelici da gettare nella fornace della guerra suicidaria che si delinea come unico orizzonte di futuro. Su questo Letta e Salvini vanno d’amore e d’accordo.
Non c’è nessun Male, dal momento che non c’è nessun Bene, e che non c’è nessuna Verità. Però c’è il dolore che sento
Kunikos vs Cinico
Non è facile definire il cinismo perché la storia di questo concetto è ambigua.
Nell’ultimo seminario, quello che pronunciò quando si avvicinava la morte (Le courage de la vérité), Foucault parla del cinismo di Antistene e Diogene di Sinope che fiorì nel quarto secolo prima di Cristo.
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Cinque buone ragioni per essere comunisti (e non di sinistra)
di Carlo Formenti
In coda a un dibattito sulle "Prospettive del comunismo oggi" al quale ho partecipato ieri sera (trovate qui il video: https://fb.watch/5BfY9aMSQW/ ) Marco Rizzo ha annunciato la mia candidatura come capolista del Partito Comunista alle prossime elezioni municipali di Milano. I motivi che mi hanno convinto a compiere questa scelta erano già impliciti nel post "Riflessioni autobiografiche di un comunista (finora) senza partito", che avevo pubblicato non molti giorni fa su questo blog. Ma ho ritenuto che fosse il caso di ribadirle e sintetizzarle qui di di seguito
Perché il comunismo è un’ideologia più giovane e vitale del liberalismo
Chiarisco che il termine ideologia è qui inteso nel senso forte, positivo che Gramsci e Lukacs gli attribuivano: non falsa coscienza bensì l’insieme dei valori, principi, visioni del mondo, conoscenze, memorie collettive, ecc. che costituisce l’identità sociale e antropologica di una determinata classe (anche quando essa perde consapevolezza di sé dopo avere subito una dura sconfitta da parte degli avversari). Ciò posto, va ricordato che l’ideologia comunista è giovane: se ne fissiamo la nascita alla pubblicazione del Manifesto di Marx ed Engels (1848) non ha ancora due secoli di vita (mentre il liberalismo ne ha almeno sei). I suoi fondatori furono troppo ottimisti nel prevederne il trionfo in tempi brevi. Oggi sappiamo che la via è lunga e difficile, costellata di avanzate e ritirate, vittorie (come quelle del 1917 in Russia e del 1949 in Cina) e sconfitte (come quella del 1989 che ha visto il crollo dell’Urss). Ma sappiano anche che, malgrado i cinque monopoli (Samir Amin) sui quali può contare il nemico di classe (sui mezzi di produzione, sulla finanza, sulle tecnologie, sulle conoscenze scientifiche, sui media), e malgrado il disastro dell’89, la via socialista ha dimostrato una poderosa capacità di resilienza, soprattutto nell’Oriente e nel Meridione del mondo, al punto che oggi, grazie ai trionfi dello stato/partito cinese, è di nuovo in grado di contendere al capitalismo occidentale il dominio mondiale, come dimostrano
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Il salto dai valori ai prezzi. Leo Essen, Servire Dio e Mammona
di Eugenio Donnici
Nella mia immersione, come lettore, nell’originale raccolta di testi ideata da Leo Essen, ho trovato molti spunti di riflessione che hanno stimolato l’arte del conoscere e messo a tacere, in un certo senso, le forti pressioni, a cui siamo esposti, per le forme di apprendimento per competenza, connesse, per lo più, con la matrice anglofona. Per l’altro verso, invece, ho colto l’opportunità di riprendere e articolare una breve rivisitazione di concetti chiave come valore, prezzo e plusvalore
Sebbene il linguaggio dell’autore sia ricco e acuto, denso e puntuale, rigoroso e complesso, per via dei tanti pensatori universali e ostici a cui fa riferimento (Hegel, Kant, Leibniz, Marx, Nietzsche, ecc.), senza dimenticare gli economisti della scuola austriaca di fine Ottocento, i modelli matematici di Sraffa applicati all’economia, le profonde e precise elucubrazioni di Keynes sulla moneta, e così via, si può affermare con scioltezza che lo scorrere del testo non subisce appesantimenti, ma richiede di approfondire la propria conoscenza, dedicandoci il tempo necessario e la giusta attenzione.
Il suo ritmo è incalzante e si muove con disinvoltura nel confrontare l’empirismo con l’idealismo; il pensiero filosofico è contaminato da quello economico e viceversa, non s’intravvedono cesure nette e lineari nelle varie forme di sapere che si dispiegano nel tempo e nello spazio: al momento opportuno, con un guizzo magistrale, trova la sintesi e i collegamenti tra valori e prezzi, ne evidenzia le implicazioni, stroncando le sterili polemiche.
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Deglobalizzazione e decoupling non sembrano vicini
di Vincenzo Comito
La Cina sta diminuendo il volume degli investimenti in Occidente, e in Europa, a vantaggio dei paesi del Sudest asiatico. Inoltre sta aumentando gli investimenti per rendersi autonoma su semiconduttori e aviazione civile. Ma è troppo poco per pensare a una crisi della globalizzazione
La globalizzazione è qui per restare
E’ da tempo ormai, prima con l’avvento di Donald Trump negli Stati Uniti e poi con lo scoppio della pandemia, che si discute di deglobalizzazione e di decoupling come di elementi che sembrano ormai almeno per la gran parte inevitabili e in parte in atto. In realtà la situazione appare molto complessa e non riconducibile a semplici slogan giornalistici.
Ricordiamo che la globalizzazione è stata una trama collettiva fondamentale delle vicende umane nel corso dei millenni. Peraltro segue dei cicli; così a periodi di crescente integrazione economica tra i paesi, come successe ad esempio tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e lo scoppio della prima guerra mondiale, seguì a partire dalla fine della guerra e sino a tutti gli anni trenta un periodo di crescente chiusura delle frontiere. Poi è ripartita ancora più fortemente di prima, dal momento che presenta grandi vantaggi, anche se troppo spesso si concentrano nelle mani di pochi.
Nel più recente periodo, che ha visto i processi di globalizzazione presentarsi con un’intensità e una pervasività mai raggiunte prima, è mancata un’azione dei governi per far fronte alle conseguenze negative, a partire dalla difesa del lavoro, nonché per dare corso ad un impegno per la riduzione delle diseguaglianze e del potere dei grandi gruppi privati.
Bisogna inoltre ricordare che, guardando di nuovo alla storia, molte crisi producono alla fine una maggiore, e non una minore, globalizzazione (James, 2021).
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2001-2021. Il Forum Sociale Mondiale e il movimento altermondialista
Bilancio provvisorio e alcune considerazioni per il futuro
di Giorgio Riolo
I.
A vent’anni dal primo Forum Sociale Mondiale (Fsm) di Porto Alegre del gennaio 2001 e in seguito in Italia, nel luglio dello stesso anno, gli avvenimenti del G8 di Genova, al cui controvertice, così ferocemente represso, vi fu quella straordinaria partecipazione anche grazie al precedente del Fsm di Porto Alegre, si possono avere due modi. Il solito e rituale modo della celebrazione, il rinverdire il protagonismo di taluni e talune in quegli eventi ecc. oppure, atteggiamento più fecondo, riflettere e ponderare alla luce dei decenni trascorsi per trarre le lezioni e per proiettare nell’oggi e nel futuro ciò che necessariamente impariamo nel cammino.
II.
Beninteso, il fenomeno dei movimenti antisistemici e della mobilitazione mondiale della società civile e dei movimenti sociali e politici contro la globalizzazione neoliberista non data solo dal primo Fsm di Porto Alegre.
Si è sempre detto che il Fsm, e il corrispondente movimento altermondialista, non è un “dato”, bensì è un “processo”. E come tale presenta dei prodromi, delle premesse, presenta un percorso evolutivo che rimonta almeno nei decenni precedenti. Con il trionfo del neoliberismo negli anni ottanta e poi ancor più negli anni novanta, dopo la fine del socialismo reale e la contemporanea crisi e fine dei movimenti di liberazione nazionale, dei progetti nazionali e popolari (Samir Amin) dei cosiddetti paesi non-allineati. La fine del Terzo Polo mondiale così spesso non preso in considerazione per capire cosa è cambiato nel volto del pianeta.
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Introduzione a Lenin, Quaderni filosofici, Milano, Pgreco, 2021
di Roberto Fineschi
1.
I testi apparsi con il titolo Quaderni filosofici non sono una “opera” di Lenin concepita a tavolino, si tratta bensì di una raccolta di annotazioni di lettura e di estratti da opere filosofiche di vari autori non per la pubblicazione ma a fini di studio; essi furono compilati in periodi diversi della sua vita e riuniti editorialmente dopo la sua morte sotto questo titolo. L’arco di tempo coperto va dalle prime note sulla Sacra famiglia di Marx ed Engels del 1895 fino alle annotazioni su uno scritto di Plenge del 1916. La parte più ampia, l’unica che Lenin stesso abbia effettivamente intitolato Quaderni filosofici, risale agli anni 1914-15, periodo in cui, a Berna, egli lesse e annotò importanti opere riempiendo ben otto quaderni ordinatamente numerati e titolati. Di particolare rilievo è la lettura, celebre, della Scienza della logica di Hegel che da sola occupa tre degli otto quaderni.
In italiano sono apparse due edizioni intitolate Quaderni filosofici: la prima, a cura di Lucio Colletti, per Feltrinelli nel 19581; essa è basata sull’edizione russa del 19472. La seconda, a cura di Ignazio Ambrogio, è apparsa per Editori Riuniti/Progress in tre diverse pubblicazioni: come vol. 38 delle Opere (1969)3, come volume a sé (1971)4 e, infine, come seconda parte del III volume delle Opere scelte in sei volumi (1973)5. È basata sull’ultima edizione russa6 che aggiunge importanti testi rispetto a quella del 1947 ed è quindi più completa di quella di Colletti; per questa ragione si è deciso di utilizzarla per una ristampa anastatica. Se l’edizione di Ambrogio è da preferire, sono tuttavia necessarie delle precisazioni.
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Propaganda
di Finimondo
«Quando tutti pensano
alla stessa maniera,
nessuno pensa molto»
Walter Lippmann
Per cominciare, sgombriamo subito il campo da un equivoco che puntualmente si viene a creare. Cosa si intende per propaganda? Secondo una definizione risalente ai primi anni 50, più volte ripresa in virtù della sua sostanziale precisione, la propaganda è «una tecnica di pressione sociale che mira alla formazione di gruppi psicologici o sociali a struttura unificata, attraverso l’omogeneità degli stati affettivi e mentali degli individui presi in considerazione».
Occorre perciò tenere bene in mente che la propaganda costituisce una tecnica di omologazione, se si vuole comprendere quanto sia errata e fuorviante la consolidata abitudine di considerarla una sorta di diffusione organizzata di idee. Se si limitasse a ciò, ad essere criticabile sarebbe solo la forma che essa può talvolta assumere, ma di per sé sarebbe ritenuta comunque giustificata poiché corrispondente ad un bisogno reale ineludibile. Nessuno può infatti negare che ogni pensiero degno di questo nome tende a trovare una propria espressione pratica, e chiunque desideri realizzare un progetto che vada oltre se stesso non può esimersi dall’affrontare il problema di come comunicare al maggior numero di persone ciò che reputa vero, giusto, utile.
Ma non è di questo che qui si tratta, e pazienza se nel 1793, in piena Rivoluzione francese, venne formata in Alsazia una associazione che prese ufficialmente il nome di Propaganda, il cui compito era quello di diffondere le idee rivoluzionarie nelle città e nei villaggi.
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Il senso della politica oltre il Covid
di Luca Cimichella
I. Stato d’eccezione e Restaurazione
La politologia del XX secolo, almeno a partire da Schmitt, ci ha insegnato a pensare la relazione consustanziale, presente in tutta la politica moderna fin dalla sua fondazione hobbesiana, tra istanza amorfa, caotica e incontrollabile della realtà umana (“stato di natura” che riemerge come stato di eccezione) e istanza politica, mediatrice e stabilizzante (ordine giuridico), che nasce a seguito del bisogno di sicurezza e incolumità dei soggetti umani nella comunità. Queste due istanze sono talmente reciproche e interrelate da provocarsi a vicenda, spesso addirittura in contemporanea e nella stessa situazione storica. Ad un eccesso di astrazione burocratico-tecnica del potere costituito segue infatti un corrispondente bisogno di rappresentanza popolare, e viceversa, ad un eccesso di immediatezza ideologico-identitaria corrisponde un’esigenza di maggiore razionalizzazione e giuridificazione del potere.
La crisi pandemica mondiale ha offerto una vera e propria svolta a questa dialettica verticale-orizzontale, la cui risoluzione è stata però dettata non da un mutamento di linea e classe politica legittimata dal basso (come nel 2018), bensì da un espediente squisitamente extra-politico, foriero in sé di caos, e messa in atto altrettanto impoliticamente dai nuovi organismi sovrani dello stato eccezionale: in Italia il comitato tecnico-scientifico, promosso dall’esecutivo di governo, e a livello mondiale gli enti sanitari internazionali (uno su tutti, l’OMS).
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Insonnia cilena, destra strabattuta
di Facundo Ortiz Núñez *
È stata una sorpresa che ha demolito le previsioni di tutti gli analisti: le elezioni di questo fine settimana hanno confermato quanto sperimentato nel 2019 durante le proteste sociali.
La destra non ha raggiunto la soglia del 1/3 necessario per porre il veto nell’assemblea costituente e la struttura politica del paese è cambiata, forse irreversibilmente, con l’emergere di nuove forze costituenti e un notevole spostamento a sinistra.
Questa cronaca scritta da Valparaíso durante l’insonnia della scorsa domenica notte offre un resoconto preciso per capire la nuova mappa di un Cile che ora dovrà affrontare le elezioni presidenziali di novembre.
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Il Cile ha celebrato le sue “macro-elezioni” questo fine settimana, da cui sono emerse più di 2.700 incarichi, tra consiglieri, sindaci, governatori e costituenti, una curiosa conseguenza del periodo di mobilitazioni più anti-istituzionale del paese in decenni.
Le forze ereditate dalla dittatura avevano fatto di tutto per fermare l’ondata di cambiamento. Dichiarare uno stato di eccezione e riempire le strade di militari. Svuotare con colpi di manganello, lacrimogeni e proiettili di gomma. Accecare e imprigionare i ragazzi ribelli. Per blindare un processo costituzionale per garantire a loro stessi una quota di potere. Riempirlo di trappole e ostacoli per limitare la vera democrazia. Far piovere soldi sui loro candidati per privilegiarli nella campagna e mettere a tacere gli sconosciuti.
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Contro! Un manifesto per uscire dalla solitudine politica
di Gabriele Guzzi
Per parlare dell’ultimo libro di Alessandro Di Battista (Contro! Perché opporsi al governo dell’assembramento, PaperFIRST 2021), partiremo da un estratto delle sue conclusioni.
“Mi sento solo, mi ci sento da quanto è scomparsa la mia adorata mamma, da quando in una trincea che credevo affollata sono rimaste solo alcune vecchie vettovaglie, da quando ho scelto seguendo i miei ideali. Credo che l’essere umano, e in particolare chi fa politica, ceda spesso all’incoerenza, perché la solitudine spaventa. La solitudine fa schifo. Si camminerà a testa alta e ci si guarderà pure allo specchio, ma sempre soli si resta.”
Qui è racchiuso, a nostro avviso, il senso complessivo del libro, la sua forza e i suoi punti problematici, quelli che toccano le questioni di fondo, su cui tenteremo un’analisi.
La solitudine che lamenta Alessandro Di Battista in questo passaggio è un’emozione che intreccia fatti personali, su cui non possiamo che esprimere solo la nostra più sincera vicinanza, e fatti politici. Il fatto politico è che la solitudine è diventata lo stato d’animo fondamentale dei nostri tempi. E questo non solo perché a livello psicologico ed esistenziale stanno emergendo sempre più fenomeni di isolamento, depressione, sfiducia per il futuro, come ci conferma un recente studio dell’Università di Padova[1], ma perché la politica non riesce più ad esprimere una direzione aggregativa di senso.
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Mega-elezioni per il “laboratorio bolivariano”
di Geraldina Colotti
Il presidente del CNE, l’intellettuale Pedro Calzadilla, ha annunciato il calendario di massima che porterà alle elezioni del 21 novembre in Venezuela: le “mega-elezioni”, come sono state definite, giacché si voterà lo stesso giorno per eleggere i 23 governatori o governatrici, i 335 sindaci o sindache e centinaia di membri dei consigli regionali e comunali. Le loro candidature verranno presentate tra il 9 e il 29 agosto, mentre il 26 settembre si svolgerà una simulazione di voto per verificare il funzionamento di tutte le fasi del processo elettorale. La campagna elettorale, ha detto Calzadilla, comincerà il 28 ottobre e terminerà il 18 novembre, mentre si procederà a organizzare, come di consueto, molteplici audit del sistema di voto, altamente automatizzato, per assicurarne il perfetto funzionamento e la trasparenza.
Guardando ai quasi 23 anni di esistenza del processo bolivariano, ognuna delle 25 elezioni che si sono svolte appare un piccolo condensato di storia per comprendere la complessa cartografia del presente, punti di resistenza contro l’imperialismo, disegnati dal “laboratorio bolivariano”. A differenza di quanto avviene nelle democrazie borghesi, il voto in Venezuela non è infatti un feticcio da ostentare a ogni tornata elettorale, ma una leva per far crescere ulteriormente la coscienza delle masse, il potere popolare, per compattare e ampliare il blocco storico che sostiene la rivoluzione, e per decidere quando, come e con quali alleati si deve avanzare tra guerra di movimento e guerra di posizione, manovrando in equilibrio tra conflitto e consenso.
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Come e perchè il neoliberalismo ha inghiottito (e digerito) il femminismo
di Carlo Formenti
Marxismo e liberalismo non sono solo due ideologie: sono anche ideologie (1), ma sono anche e soprattutto due paradigmi reciprocamente incompatibili, nella misura in cui incorporano visioni del mondo, principi e valori etici, metodi di analisi scientifica, bisogni umani e obiettivi politici fra loro antagonisti, così come sono antagonisti gli interessi di classe rappresentati dai partiti e movimenti che ad essi si inspirano. La tesi che sosterrò in questo scritto è che il femminismo - termine con cui non intendo qui quel variegato insieme di correnti culturali che esiste da più di un secolo, bensì il movimento femminista politicamente organizzato, nato fra la fine dei Sessanta e l’inizio dei Settanta -, inizialmente sviluppatosi come articolazione interna del paradigma marxista (cui ha apportato il proprio contributo, allargando il concetto di sfruttamento ed evidenziando il ruolo del lavoro riproduttivo per la conservazione degli equilibri della società capitalistica), se ne è progressivamente separato, impegnandosi – senza successo – ad autodefinirsi come paradigma autonomo – e sotto vari aspetti concorrente – rispetto al marxismo, ottenendo quale unico risultato la propria integrazione nel paradigma liberale (nella forma neoliberale che quest’ultimo ha assunto a partire dagli anni Ottanta), del quale rappresenta oggi a tutti gli effetti una corrente ideologica (e qui il termine – diversamente da quanto chiarito in nota (1) - va inteso nel senso corrente di falsa coscienza).
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