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La grande crisi globale e le sue prospettive
Redazione ilcuneorosso
A sei-sette anni dalla sua esplosione proviamo qui a fare il punto sulla crisi. Sulla sua genesi, la sua natura, la sua portata, il suo decorso e sui tentativi di farne il punto dipartenza di una nuova era di accumulazione e di sviluppo. Tentativi finora falliti. Ma i capitalisti globali a tutto “pensano” fuorché ad ammettere il loro fallimento. Ciò che hanno in programma, e già stanno mettendo in atto, è un’aggressione intensificata al lavoro e alla natura e nuovi devastanti conflitti per rispartirsi i mercati mondiali. Prendiamone atto per dare loro la risposta che meritano, prima che sia troppo tardi!
Spiegazioni superficiali, insufficienti, mistificanti
La grande crisi in corso ha ricevuto spiegazioni differenti e contrastanti. Tralasciamo qui quelle fornite dagli esponenti del neo-liberismo che possono ridursi a pochi chiodi fissi ribattuti in modo ossessivo: le cose non vanno perché in economia c'è ancora troppo stato e poco mercato; ci sono ancora troppi ostacoli alla concorrenza e al libero mercato; ci sono ancora troppe protezioni per il lavoro. Le affronteremo occupandoci delle politiche anti-operai e dei governi europei e italiani che ad essi continuano ad ispirarsi anche dopo l'esplosione della crisi, certi - a ragione, dal "punto di vista" capitalistico - che indichino l'unica via praticabile per uscirne.
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Città globali e denazionalizzazione-globalizzazione "buona"
La "cosmesi finale"
di Quarantotto
I. Che il trilemma di Rodrik sia così facilmente dimenticato, o piuttosto ignorato, a sinistra, è un fatto di cui, in qualche modo mi stupivo nell'ultimo post.
Poi, interagendo con voi nei commenti, mi è sovvenuta la spiegazione.
Il punto è presto detto: esiste l'idea di una globalizzazione buona, tale perchè:
a) lo Stato abbraccia l'internazionalismo e denazionalizza la sua azione e ciò ne potenzia l'efficienza per qualunque obiettivo voglia raggiungere: questo è un corollario dell'idea che l'internazionalismo (dell'indistinto) sia sempre e comunque cooperativo, (mentre l'assetto di Westfalia sarebbe intrinsecamente "inefficiente");
b) lo Stato ne risulta depotenziato e destrutturato e questo pure - in aggiunta all'internazionalismo che si espande- sarebbe un bene in sè.
Forse perchè lo Stato nazionale può essere solo autoritario, fascistoide e guerrafondaio, mentre invece gli Stati de-sovranizzati e filo-globalizzazione, adeguandosi alle privatizzazioni e liberalizzazioni imposte da FMI, UEM e troike varie, sarebbero altamente libertari e progressisti;
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Se avete amato la crisi finanziaria del 2008, vi innamorerete della prossima
di Philippe Plassart
E' un segnale rivelatore. Alla fine, i mercati non hanno voluto includere il rischio di un default della Grecia. Inebriati dalla liquidità, fanno mostra di un incrollabile ottimismo. Non c'è niente che riesca a scalfire un simile ottimismo, nemmeno le cattive notizie che continuano a susseguirsi. Destabilizzazione della penisola arabica, segnali di rallentamento dell'economia mondiale, ecc., non hanno importanza, l'indice VIX che misura la volatilità dei mercati, ossia il loro grado di stress e di paura, rimane al suo livello minimo. Ben lontano dai picchi raggiunti nel corso della crisi del 2007/2008. "L'idea stessa di rischio sembra essere scomparsa dalla mente degli investitori. Come se avessero sottoscritto presso la Banca Centrale un'assicurazione contro tutti i rischi", ha osservato Christopher Dembik, analista della Banca Saxo. Eppure, c'è qualcosa che non va.
"I mercati azionari vanno al massimo e vedono la vita tutta rosa, mentre l'economia reale continua a dare segni di sofferenza. Qualcosa non torna, qualcuno si sta sbagliando", analizza Véronique Riches-Flores, economista indipendente.
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Che cos’è il Totalitarismo?
Enzo Traverso
Anticipiamo il Post Scriptum di Enzo Traverso alla nuova edizione del suo importante saggio dedicato al dibattito sul Totalitarismo. In libreria a partire dal 22 aprile per le edizioni ombre corte
La prima edizione di questo saggio risale a una quindicina di anni fa, un intervallo durante il quale il concetto di totalitarismo ha attraversato una nuova tappa, prestandosi a usi inediti. Il dibattito ricostruito in queste pagine non si è esaurito e nuovi contributi si sono aggiunti agli studi anteriori.
Un utile lavoro “archeologico” ha permesso di riscoprire alcuni testi dimenticati, ma le posizioni già note sono state sostanzialmente riaffermate. Per una sorta di inerzia intellettuale, i Cold Warriors hanno continuato a scrivere libelli anticomunisti, sia rivisitando la storia del Novecento sia tentando incursioni nel presente, alla ricerca di nuovi epigoni dei demoni antichi. Da un lato, alcuni storici collaudati a corto di idee ci hanno spiegato per l’ennesima volta che la chiave di lettura degli orrori del XX secolo risiede nelle ideologie malefiche di fascismo e comunismo; dall’altro, giovani studiosi sensibili alle sfumature sono giunti, dopo un esame approfondito, alla conclusione che “Mugabe e Ben Laden sono più vicini a Mussolini e Lenin di quanto appaia a prima vista”.
È davvero difficile far prova di maggiore sottigliezza analitica. Come un sito musicale online che offre ai consumatori varie rubriche – classica, opera, jazz, rock, world, ecc. –, il “totalitarismo” è diventato una specie di grande magazzino fornito di dipartimenti nei quali catalogare gli innumerevoli nemici della democrazia liberale e della società di mercato, dai classici intramontabili (fascismo, comunismo) ai più esotici dittatori postcoloniali, includendo una sezione di “novità”: Bin Laden, Mahmud Ahmadinejad, Hugo Chavez e, perché no, Evo Morales, ecc.
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«Acque inesplorate»
di Leonardo Mazzei
I cinque motivi di preoccupazione del capo dell'oligarchia eurista
Mario Draghi non è più tanto sicuro della famosa «irreversibilità» dell'euro. Un dogma sul quale a Bruxelles e Francoforte si è sempre giurato (leggi QUI). Certo, la parolina magica continua ad essere ripetuta, ma con quale convinzione lo ha confessato proprio il numero 1 della Bce. Il quale, parlando ieri a Washington, ha detto che se la crisi greca precipitasse ci troveremmo in «Acque inesplorate».
Naturalmente, Draghi ha minacciato Atene - «dovete fare di più se volete salvarvi» - cercando al tempo stesso di rassicurare il resto dell'eurozona ed in particolare i mercati finanziari - «siamo meglio equipaggiati rispetto al 2012 e 2010».
In cosa consista il «miglior equipaggiamento» è presto detto. In primo luogo, non bisogna scordarcelo mai, il cosiddetto «salvataggio» della Grecia è consistito nell'acquisto dei titoli ellenici detenuti dalle banche degli altri paesi dell'eurozona, al primo posto quelle francesi (5 anni fa esposte per 78 miliardi), al secondo quelle tedesche (con un esposizione nel 2010 di 45 miliardi). In questo modo non si è «salvata» la Grecia, come si pretenderebbe. Si sono invece salvate le banche, trasformando ancora una volta un rischio privato in un aumento del debito pubblico. La conseguenza di questa operazione è che oggi, in caso di default della Grecia, a pagare sarebbero gli stati e non più le banche. In secondo luogo, Draghi si riferisce ovviamente al QE (quantitative easing), uno strumento effettivamente in grado di attenuare le tensioni sui tassi dei titoli del debito pubblico, ma solo entro certi limiti.
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Fu davvero BlackRock a ispirare il "cambio di scena" del 2011 in Italia?
Maria Grazia Bruzzone
La RocciaNera negli opachi intrecci fra fondi di investimento e megabanche che si stanno comprando tutto
Il nuovo Limes su Chi ha paura del Califfo? è in edicola, puntualissimo e subito ripreso da tv e social media. Meno attenzione è stata data al numero precedente dedicato a Moneta e Impero (l’impero del dollaro, naturalmente) che proponeva, fra gli altri, un pregevole pezzo su “BlackRock, il Moloch della finanza globale”: un “fondo di fondi” americano con 30mila portafogli e $4,100 miliardi di asset ($4,652 secondo l’ultimo dato SEC, dic 2014) che non solo non ha rivali al mondo, ma è una delle 4-5 ‘istituzioni’ che ricorrono tra i maggiori azionisti delle principali megabanche americane, come vedremo. E non solo di queste: era anche il maggior azionista di DeutscheBank - la banca tedesca che nel 2011 ritirò per prima i suoi capitali investiti in titoli italiani, spingendo il nostro paese sull’orlo del ‘baratro’ e nelle braccia del governo Monti - rivela Limes – nonché grande azionista delle prime banche italiane, e di altre imprese. Sull’ influenza politica della RocciaNera non solo a Wall Street ma nella stessa politica di Washington insiste del resto l’articolo (di Germano Dottori, cultore di studi strategici alla Luiss).
Ma chi è, cos’è BlackRock, a cui l 'Economist ha dedicato una copertina? Come si colloca nel paesaggio finanziario globale?
IL CONTESTO. E’ quello della finanziarizzazione e globalizzazione dell’economia.
Il valore complessivo delle attività finanziarie internazionali primarie è passato dal 50% al 350% del Pil globale dal 1970 al 2010, raggiungendo i $280mila miliardi – solo il 25% del quale legato agli scambi di merci. Mentre il valore nozionale dei ‘derivati’ negoziati fuori dalle Borse ( Over The Counter) a fine giugno 2013 aveva raggiunto i 693mila miliardi di dollari. Una gran parte sono legati al mercato delle valute. E al Foreign Exchange Market o Forex, si scambiano mediamente 1.900 miliardi di dollari al giorno. Fin qui Limes.
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Farro per fermare il declino
di Raffaele Alberto Ventura
Nelle piazze italiane mobilitate da Matteo Salvini ha fatto la sua comparsa la bandiera di una nuova formazione politica, chiamata a puntellare la Lega fuori dal territorio padano: si chiama Sovranità ed è il partito di Simone Di Stefano, numero due di CasaPound. Degli autoproclamati “fascisti del terzo millennio” Sovranità sembra voler incarnare una versione presentabile, per famiglie o magari per governi, “un passo in avanti… un soggetto politico in cui si può interagire senza avere retroterra ideologici” secondo Di Stefano. Ma per capire l’essenziale di questa nuova offerta politica non è necessario ascoltare lunghi discorsi pieni di circonlocuzioni ed eufemismi: il piano dei simboli è già abbastanza ricco di significati, e i “retroterra ideologici” ancora piuttosto presenti.
Se Gianluca Iannone, leader storico del movimento, mantiene il suo look da rockstar in giacca di pelle, SimoneDi Stefano preferisce indossare giacca e camicia, radendosi con cura barba e capelli. E se CasaPound conserva la sua vecchia grafica rossonera, in odore di nazionalsocialismo, Sovranità ha scelto di sostituirla con una più sobria, azzurro e giallo. In politica, i colori hanno ovviamente un senso. Diverse tonalità di blu, che evocano forse la nazionale italiana di calcio, contraddistinguono da vent’anni i partiti di destra parlamentare. Anche in Francia, Marine Le Pen ha trasformato il partito del padre in un “Rassemblement Bleu Marine”. E il giallo? Oltre a segnalare una continuità con l’esperienza giallo-blu de La Destra di Storace, che nel 2008 aveva candidato Iannone al parlamento, che cosa indica il giallo?
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Padri e padroni
Scritto da Salvatore Cavaleri
Qualche settimana fa sono stato invitato a tenere un seminario in un liceo di Palermo, all’interno di un corso di storia contemporanea, su «Genova 2001 e il movimento altermondialista». Per la prima volta ho avuto l’occasione di parlare di quegli avvenimenti con un gruppo di ragazzi che all’epoca aveva appena tre anni. Qualcuno aveva già visto il film Diaz, i più informati avevano guardato dei video su Youtube, altri si erano documentati per l’occasione andando a recuperare vecchi articoli. In generale la percezione che avevano di quelle giornate era di «un gran casino»: Diaz, black bloc, Carlo Giuliani, defender, lacrimogeni, tute bianche, cariche, vetrine rotte, auto in fiamme, zona rossa, teste rotte, scudi, Bolzaneto. Quello che per loro non era affatto chiaro era cosa ci fossero andate a fare tutte quelle persone a Genova. Quale fosse il contesto storico in cui si collocavano quelle giornate e quale fosse il loro significato politico. Per questo, pur dando conto di ciò che è successo tra il 19 e il 21 luglio del 2001, ho provato a parlare con quei ragazzi delle ragioni che ci hanno portato a Genova, di quel camminare domandando che imparammo durante gli anni Novanta e dell’attualità di una ricerca quotidiana di altri mondi possibili. Soprattutto, ho voluto parlare dell’importanza di costruire forme di conflitto adeguate al presente, della ricerca di legami in cui essere al tempo stesso singolari e molteplici, orgogliosi delle proprie differenze e in lotta per l’uguaglianza.
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La semplicità non è così semplice
Francesco Paolo Cazzorla ( Zu Fra )
A Giovanni, lui dovrebbe sapere perché
Spesso si dice che le cose più semplici siano sempre le cose migliori. Che, forse, siano le uniche che meritano di essere perseguite per condurre una vita sana e tranquilla; le sole quindi da cercare, perseverare e valorizzare, sempre. Le cose complicate, al contrario, sono assolutamente da evitare, da rigettare a priori, perché non hanno alcun senso, e perché l’apparente caos che producono – in quel loro tramestio sconclusionato – non è minimamente gestibile, né comprensibile: risulta difficile da declinare nelle nostre singole (e complicate) vite. Per questo motivo, la semplicità fa star bene, non crea problema, ed è sempre comprensibile: la possiamo utilizzare a nostro piacimento quando e come vogliamo: è una cosa immediata.
Sostenendo questo però ci si dimentica, altrettanto spesso, da dove deriva quell’immediatezza; che cosa alimenta quella semplicità così vivida, così facilmente introiettabile, tale da conquistare – con quel suo potente accesso – le nostre percezioni, la nostra gamma di emozioni, e tutto quello che diventeremo una volta averla assimilata, una volta averla assorbita.
Se dimentichiamo cosa c’è dietro – quale sia stato il processo che l’ha portata fino a lì – affinché quella semplicità sia così genuina, così chiara, e si mostri in quel modo così piacevole tale da esaltarci, affascinarci, catturarci in quel suo inconfondibile brio; se non riusciamo ad avvertire cosa veramente la rende tale, probabilmente quella semplicità durerà poco, e sarà semplicemente (!) una semplicità di “facciata”, che subito dopo averla vissuta creerà necessariamente un vuoto interiore, una specie di mancanza, e che andremo a sopperire cercandone ancora, e poi ancora, sempre di più, magari della stessa “semplice” specie.
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L’euro che divide: lotte nazionali e solidarietà internazionale
di Lorenzo Del Savio e Matteo Mameli
Due accademici italiani, Del Savio e Mameli, denunciano su Truthout mistificazioni e pericoli del cosiddetto progetto di integrazione europea: l’unione monetaria è stata innanzitutto lo strumento per favorire l’unione degli oppressori (le élite finanziarie e industriali) contro gli oppressi (le classi lavoratrici), nonché il catalizzatore di quegli squilibri di finanza privata che si vorrebbero ora risolvere scaricandone il peso sui contribuenti e sollevando un popolo contro l’altro. È tempo di ritrovare una solidarietà tra gli oppressi, a cominciare però da quella dimensione che già Marx e Mazzini nell’Ottocento dicevano essere quella fondamentale: la dimensione nazionale, entro cui bisogna ricondurre scelte e sovranità. (La citazione di Bagnai a metà articolo sembra giustamente dare credito a chi in Italia — e anche in Europa — ha avviato questo discorso)
L’euro, così come le politiche e le istituzioni che lo mantengono, hanno avuto un impatto che ha creato profonde divisioni ed è stato distruttivo sull’Europa. Ciò è in forte contrasto con la retorica spesso usata dall’élite politica dell’Unione Europea (UE), secondo la quale la moneta unica sarebbe necessaria per promuovere e migliorare la cooperazione pacifica in Europa.
L’impatto divisivo dell’euro si è manifestato in una quantità di modi diversi. Sottraendo la politica monetaria agli stati nazionali, irrigidendo il sistema dei cambi, e adottando delle politiche che hanno avvantaggiato soprattutto l’economia e i settori finanziari dei paesi economicamente più forti, la moneta unica ha ampliato il divario tra i paesi più deboli (come la Grecia e la Spagna) e i paesi più forti (specialmente la Germania). Ciò ha comportato nei paesi più deboli la distruzione di potenzialità industriali ed economiche, e livelli molto elevati di disoccupazione, rendendoli così ancora più deboli.
Gli accordi all’interno dell’eurozona hanno avvantaggiato soprattutto le élite finanziarie e industriali dei paesi più forti. Specialmente prima della crisi del 2008, queste élite hanno potuto trarre profitti prestando denaro alle banche dei paesi più deboli, finanziando in questo modo il consumo di beni che venivano prodotti dalle loro stesse imprese. Queste élite hanno potuto attingere al vasto bacino di lavoratori qualificati, ma disoccupati, dei paesi economicamente più deboli. Hanno anche potuto acquistare a basso prezzo alcune delle più pregiate attività industriali di tali paesi.
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Il capitale monopolistico di Baran e Sweezy e la teoria marxiana del valore*
Claudio Napoleoni
[Affronterò ora la questione dei caratteri generali del volume di Baran e Sweezy, Il capitale monopolistico.] Il volume affronta il problema del realizzo del plusvalore, in riferimento alla forma che il capitalismo assume nella sua fase attuale caratterizzata dalla sempre maggiore diffusione del monopolio. In questa fase i problemi del realizzo assumono una particolare rilevanza. Il plusvalore in questa fase è più grande che nelle fasi precedenti. A seguito dell’acuirsi dei problemi di realizzo il capitale è costretto a cercare sempre nuove vie per raggiungere i suoi scopi. Vengono qui esaminate le vie che il capitale segue per superare queste sue contraddizioni, per la verità assai rilevanti e tali da generare comunque problemi sociali rilevantissimi. Questa fase di sviluppo del capitalismo in definitiva viene ad essere caratterizzata da una crisi immanente, continua, causata da una serie di diseconomie che sono implicite nel sistema economico.
Per economia monopolistica si intende una economia in cui le singole imprese sono in grado di influenzare direttamente i prezzi di vendita. In questa fase le imprese, pur non rinunciando a farsi concorrenza, tuttavia in genere non scelgono la via di farsi concorrenza giocando al ribasso dei prezzi, in quanto ciò da un lato non consentirebbe una vittoria sicura, dall’altro lato causerebbe rilevanti perdite. La tesi che viene respinta in blocco da B. e S. è la tesi che individuerebbe l’esistenza nella moderna industria monopolistica di una figura particolare, il ‘manager’, avente scopi diversi da quelli perseguiti dai padroni delle aziende, che sarebbero quelli della massimizzazione dei profitti. Secondo questa tesi i manager si proporrebbero più che altro di espandere al massimo le dimensioni dell’azienda ricorrendo ad autofinanziamenti cospicui, non distribuendo cioè una gran parte degli utili realizzati dall’azienda. Ruolo simile a quello dei manager avrebbero gli azionisti non direttamente impegnati nella direzione dell’azienda.
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Sulla creazione politica, critica filosofica e rivoluzione
Un saggio di Emanuele Profumi
di Guido Grassadonio*
Il volume Sulla Creazione Politica, critica filosofica e rivoluzione, di Emanuele Profumi, edito da Editori Internazionali Riuniti (EIR), si colloca in perfetta continuità con i precedenti lavori dell’autore. Da un lato l’interesse per la filosofia di Cornelius Castoriadis richiama la monografia dedicata al filosofo greco edita da Mimesis nel 2010 (E. Profumi, L’autonomia possibile. Introduzione a Castoriadis, Mimesis, Milano 2010) dall’altro l’interesse per le vicende politiche dell’America Latina ed il Brasile in particolare continua quanto iniziato con Il Passo del gigante. Viaggio per comprendere il Brasile di Lula, edito da Aracne nel 2012.
Essendo, sin dal titolo, un volume manifestamente filosofico, il legame più forte è forse proprio col saggio del 2010. Con una differenza non da poco: Profumi prova ora a staccarsi da Castoriadis. Non nel senso di un’abiura delle tesi del maestro, quanto piuttosto in quello di una elaborazione originale di una propria filosofia politica. Filosofia politica che si radichi sì all’interno del post-marxismo castoriadisiano – con una ripresa evidente di alcune tematiche marxiane e la critica ad altre – sapendo però allo stesso tempo ri-orientare il proprio centro di interesse verso alcuni orizzonti – in particolare l’idea di creazione politica – che muovono oltre Castoriadis.
Un Castoriadis oltre Castoriadis se volessimo risolvere la descrizione con una battuta rievocativa, che sicuramente spiacerà all’autore, non esattamente affine filosoficamente ad Antonio Negri.
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Gli "ideali repubblicani"
Intervista a Jacques Rancière
Gli equivoci della campagna Charlie e i frutti avvelenati di un certo “repubblicanesimo” socialista. Gira su vari siti e sintetizziamo da quello originario (OBS, 2 aprile 2015) un’intervista di rilevante interesse del filosofo Jacques Rancière, l’autore della Mésentente e del Maître ignorant.
Tre mesi fa la Francia sfilava in nome della libertà d’espressione, ma le ultime elezioni dipartimentali sono state segnate da una nuova ascesa del Fronte Nazionale. Come analizzate questa rapida sequenza apparentemente contraddittoria?
Non è affatto sicuro che ci sia una contraddizione. Tutti, certo, erano d’accordo nel condannare gli attentati di gennaio e nel felicitarsi per la reazione popolare che è seguita. Ma l’unanimità richiesta sulla libertà di espressione ha implicato una confusione. In effetti, la libertà d’espressione è un principio che governa i rapporti fra gli individui e lo Stato, vietando a quest’ultimo di impedire l’espressione di opinioni avverse. Quello che invece è stato calpestato il 7 gennaio a «Charlie» è un principio ben diverso: il principio che non si spara a qualcuno perché non si ama quanto dice, il principio cioè che regola il modo in cui individui e gruppi vivono insieme e imparano a rispettarsi a vicenda.
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Analisi del DEF 2015
di Riccardo Achilli
Con l’approvazione ufficiale del Def, si è in grado di fornire una indicazione, sia pur non ancora consolidata (come è noto, il Def va inviato, insieme al Piano Nazionale delle Riforme, alla Commissione Europea, entro metà aprile, in modo tale che, entro giugno, pervengano al Governo nazionale le “raccomandazioni” comunitarie, vero e proprio antipasto di possibili, per non dire probabili, modifiche al quadro previsionale di finanza pubblica, ed alla stessa manovra di stabilità per il 2016 che il Def anticipa, a grandi linee. Vale la pena ricordare che, l’anno scorso, le previsioni di disavanzo nominale rispetto al Pil, inizialmente stabilite al 2,2% da Padoan, sono state portate al 2,6% su pressione della Commissione, evidentemente portando ad una manovra di stabilità più pesante e recessiva di quella inizialmente abbozzata).
Iniziando dal quadro previsionale di finanza pubblica, esso si basa su una ipotesi di progressivo irrobustimento, sotto forma di vera e propria ripresa, della crescita, che quest’anno dovrebbe attestarsi sullo 0,7%, per poi arrivare all’1,4% nel 2016 ed all’1,5% nel 2017. Tale ipotesi si bassa su una ripresa delle esportazioni, che dal +2,7% del 2014dovrebbero crescere del 3,8% nel 2015 e del 4% in ciascuno dei due anni 2016 e 2017, degli investimenti privati (che dopo il calo di 3,3punti nel 2014 dovrebbero crescere di 1,1 punti nel 2015, e di 2,1punti nel 2016) e dei consumi interni, che dovrebbero crescere dello0,8% nel 2015 (dopo lo 0,3% del 2014) fino all’1,4% nel 2017.Completa questa rosea previsione una riduzione di spesa per interessi sul debito pubblico pari a 0,3 punti di PIL (ovvero, per un risparmio pari a poco più di 4,9 miliardi).
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Resistenza somala e disinformazione dell'Impero
di Stefano Zecchinelli
L’attacco attributo al movimento islamico di Al Shabaab, nel campus universitario di Garissa ( 815 persone ) in Kenya, si porta dietro ben 148 vittime accertate ed una ondata di indignazione da parte del mondo occidentale. L’informazione di regime come sempre è impegnata ad alimentare l’islamofobia ad uso e consumo delle mire neocolonialistiche statunitensi ed israeliane – da sempre interessate a quei territori – ma, in questa circostanza, anche la così detta ‘informazione alternativa’ ha lasciato molto a desiderare. Quindi in questo breve articolo, riportando fonti ed analisi attendibili, cercherò di inquadrare il movimento di liberazione nazionale Al Shabaab in un’ottica più veritiera dando una lettura più contestualizzata ( e spero onesta ) dell’accaduto.
Prima di tutto è importante capire che cosa è realmente successo in Somalia negli ultimi anni.
Da dopo la caduta di Siad Barre – uomo di fiducia degli occidentali nella guerra contro l’antimperialista governo etiope di Menghistu ( poi deposto nel 1991 ) – la Somalia è stata teatro di scontri e faide fra numerosi signori della guerra. Solo la progressiva costituzione dell’Unione delle Corti Islamiche ( UCI ) impedì il dilagare di questi massacri. Ma cosa sono le Corti Islamiche ? Si tratta di una libera unione di religiosi, giuristi, intellettuali, patrioti che hanno difeso le comunità autoctone dai mercenari colonialisti organizzandosi in strutture comunitarie.
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Trattati europei e democrazia costituzionale
di Vladimiro Giacché
1. L’idea di società della Costituzione italiana e la priorità del lavoro
Il migliore punto di partenza per affrontare il tema del rapporto tra trattati europei e democrazia costituzionale è partire dall’idea di società che informa la Costituzione italiana.
In termini generali, la Costituzione italiana esprime una delle varianti di quel modello di capitalismo regolato che si afferma nell’immediato dopoguerra in molti paesi e che Hyman Minsky descrisse come il punto di approdo di un processo storico. Il processo per cui – così Minsky - “un sistema che possiamo caratterizzare come un capitalismo nel quale lo Stato ha un ruolo marginale, vincolato dal sistema aureo e non governato [small government gold standard constrained laissez-faire capitalism] fu sostituito da un capitalismo nel quale lo Stato ha un ruolo rilevante, flessibile grazie al contributo della banca centrale e governato attivamente [big government flexible central bank interventionist capitalism]”1.
La necessità di regolare l’attività economica era condivisa dalle tre principali componenti politico-culturali che concorsero alla stesura della nostra Costituzione. Così, per la Democrazia Cristiana, Amintore Fanfani nei lavori preparatori della Costituzione evidenziò “il problema… di controllare, dal punto di vista sociale, lo sviluppo dell’attività economica, senza accedere totalmente a un’economia collettiva o collettivizzata, e senza d’altra parte lasciare totalmente libere le forze individualistiche, ma cercando di sfruttarle, disciplinandole e regolandole al fine di raggiungere determinati obiettivi sociali”2.
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La bomba iraniana
di Sandro Moiso
Rovesciando la locuzione latina “Si vis pacem, para bellum”, si potrebbe affermare che se si vuole la guerra occorre parlare di pace. Apparentemente un paradosso, come il primo tra l’altro, ma contenente, alla luce del recente accordo di Losanna con l’Iran, un cospicuo nucleo di verità.
La bomba iraniana cui fa riferimento il titolo, infatti, non è quella atomica presunta, vera o anche solamente possibile legata alla realizzazione o meno del programma nucleare iraniano, quanto piuttosto quella rappresentata dal ritorno sulla scena politica, economica e militare internazionale dell’Iran e del formale riconoscimento della sua importanza da parte dei maggiori paesi occidentali.
Che questo fosse già inscritto negli avvenimenti degli ultimi anni e, in particolare, degli ultimi mesi, a seguito del riacquistato ruolo di interlocutore politico e militare dell’Iran e degli sciiti in Iraq e nello scontro con lo Stato Islamico di Abū Bakr al-Baġdādī, non poteva e non può lasciare spazio ad alcuna ombra di dubbio, ma l’accordo raggiunto nei primi giorni di aprile, e che andrà definitivamente confermato a giugno, apre la porta ad una serie di interrogativi di carattere geopolitico, economico e militare riguardanti gli sviluppi possibili dei rapporti tra mire imperialistiche, nazioni e classi nel quadro mediorientale.
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Il trilemma di Rodrik e l'applicazione Varoufakis
Welcome into the ordoliberalist game!
di Quarantotto
1. Vi ricordate il trilemma di Rodrik (formulato già nel 2007)?
http://stephanewald.tumblr.com/post/4637642778/the-eur-trilemma
In realtà esso è un ragionamento di tipo logico-deduttivo che prefigura delle alternative, cioè delle relazioni di "incompatibilità" tra formule di organizzazione generale della società ("globalizzazione", sovranità nazionale e preservazione della democrazia), in un contesto internazionalizzato.
Si tratta, quindi, della individuazione dei limiti "reali" degli spazi d'azione politica dei governi, data la compresenza, nel mondo contemporaneo, di diverse modalità istituzionalizzate di interazioni tra Stati - generalmente attraverso trattati internazionali di natura economica- che ormai plasmano e vincolano la realtà socio-economica.
Il trilemma di Rodrik svolge, perciò, la funzione di una "actio finium regundorum" che toglie attendibilità alle fantasie o "sogni" circa il fatto che, date queste stesse tendenze ormai istituzionalizzate, un futuro radioso ci attenda.
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G8 Genova: fra ignoranza e falsificazioni
Salvatore Palidda
Chiunque abbia una decente conoscenza, diretta o indiretta, di quanto successo nel 2001 al G8 di Genova non potrà che essere sconcertato dai diversi commenti dopo la condanna dell'Italia della Corte europea per le torture in occasione di quel nefasto summit. Ancor peggio è ciò che si dice sul prefetto De Gennaro, comunque difeso da Renzi, ma anche dall’on. Mucchetti e dal dott. Cantone (che farebbe bene a imparare a parlare di quello che sa, e non a difendere a spada tratta le "forze dell'ordine" dicendo anche una cosa molto grave: “sono popolari!”. Anche Mussolini e Hitler erano popolari, e poi dove ha misurato questa popolarità?). Mi limito qui a ricordare alcuni aspetti rinviando per il resto ad alcune ricerche già pubblicate (vedi la bibliografia qui in fondo).
Per il G8 di Genova fu prevista una sospensione dello stato di diritto democratico che non ha alcun fondamento giuridico. Non si può certo assimilare questo evento a una sorta di stato di guerra, cosa che, di fatto, le autorità americane hanno imposto a quelle italiane come sempre supine. L’allora segretaria di stato Condoleeza Rice, infatti, nella sua relazione al Congresso a proposito dell’attentato dell’11 settembre ebbe a dire che già al G8 di Genova temevano attacchi terroristici. Da qui tutta una campagna mediatica mostruosa che forgiò un clima di terrore. La popolazione genovese fu sollecitata, se non costretta, ad andare via, almeno i giorni previsti “caldi”. Le forze di polizia furono tartassate con le più angoscianti bufale (cfr. infra) e incitate a dare una lezione definitiva ai “pidocchi rossi”. La selezione di personale con inclinazioni e persino tenute e armi illecite non mancò (si ricordi quelli che torturando i ragazzi alla Diaz e a Bolzaneto o anche per strada gridavano slogan fascisti – si vedano i reportage anche di media stranieri fra i quali questo del Guardian). Il dispositivo delle forze di polizia, e ancora di più dei servizi segreti, non solo italiani, assunse le caratteristiche del teatro di guerra. Come racconta ancora oggi il dott. Sabella, allora capo dell'Ufficio Ispettorato del Dap e inviato a Genova:
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Crisi e centralizzazione del capitale finanziario
Emiliano Brancaccio, Orsola Costantini e Stefano Lucarelli*
1. La centralizzazione del capitale: un concetto marxiano
Tra le numerose questioni sollevate dalla “grande recessione” internazionale esplosa nel 2008 (Fondo Monetario Internazionale, 2012), sembra esser tornato in auge anche il tema della possibile esistenza di un nesso tra la crisi economica e quella che Marx e Hilferding definivano “centralizzazione del capitale”, con particolare riferimento al “capitale finanziario” (Marx, [1867] 1994; Hilferding, [1910] 2011).
Nella letteratura accademica, sia di stampo critico che mainstream,1 il termine “centralizzazione” viene spesso sostituito dall’espressione “concentrazione”. Gli stessi Marx e Hilferding in alcune circostanze adoperano questi termini alla stregua di sinonimi. A ben guardare, tuttavia, i due concetti hanno significati diversi. Nell’accezione originaria di Marx la “concentrazione” del capitale corrisponde alla creazione di nuovi mezzi di produzione e alla crescita conseguente della loro massa complessiva, sia in termini assoluti che in rapporto alla forza lavoro disponibile: la “concentrazione”, in altre parole, “è basata direttamente sull’accumulazione, anzi è identica ad essa” (Marx, [1867] 1994, p. 685).
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Che cosa abbiamo fatto per meritarci Diego Fusaro?
di Raffaele Alberto Ventura
In principio era un sito Internet intitolato “La filosofia e i suoi eroi”. Nei primi anni Duemila, chi cercasse in rete informazioni su Platone o Aristotele poteva facilmente imbattersi in queste pagine redatte da uno studente torinese di nome Diego Fusaro. Il sito era una galleria di santini animata da una visione schematica della storia del pensiero, ricalcata dai manuali, ma trasudava di un entusiasmo impressionante. Una decina di anni più tardi, nel 2013, il loro autore veniva annoverato da Maurizio Ferraris su La Repubblica tra i più promettenti giovani filosofi d’Europa.
Ho assistito alla folgorante ascesa mediatica di Diego Fusaro con un misto d’invidia e di stupefazione. Invidia perché, essendo suo coetaneo e avendo fatto gli stessi studi, ammetto che non mi dispiacerebbe affatto pubblicare libri con i più prestigiosi editori, dirigere una collana di testi filosofici, andare in televisione a tuonare contro il capitalismo e l’ideologia gender, partecipare a convegni col fior fiore degli intellettuali infrequentabili, condurre un programma su Radio Padania, rilasciare alla stampa russa interviste a sostegno di Vladimir Putin, fare dei selfie con Marione Adinolfi e infine essere definito “filosofo dagli occhi azzurri che conquista le donne con le citazioni”.
Stupefazione, tuttavia, perché a leggere e ascoltare certe esternazioni di Fusaro si può avere l’impressione di avere a che fare con un idiot savant che ripete meccanicamente degli slogan. Stupefazione, anche, per come Fusaro sia riuscito a non far pesare la sua progressiva radicalizzazione politica sul credito che gli prestano editori come Il Mulino, Bompiani e Feltrinelli.
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Michel Foucault, l’invenzione della conoscenza
Roberto Ciccarelli
«Lezioni sulla volontà di sapere», uscito per Feltrinelli, propone i testi del primo corso svolto al Collège de France nel 1970. Conflitto tra verità e potere e la confutazione delle teorie di Freud sono alcuni «cavalli di battaglia» dello studioso
«In un angolo remoto dell’universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari, c’era una volta un astro su cui animali intelligenti inventarono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e menzognero della storia universale». È uno dei passaggi folgoranti, dall’ironia crudele e maestosa, di Nietzsche che riflette Su verità e menzogna in senso extra-morale. Il filosofo tedesco, a cavallo di un’iperbole, ci porta all’altezza del Big Bang. Nella finzione così concepita scrive un romanzo sarcastico contro una delle verità tramandate della nostra cultura: l’Uomo esiste per conoscere. Tutto questo è falso.
Un’amicizia stellare
Per rendere il tono usato da Michel Foucault nelle Lezioni sulla volontà di sapere, tradotte da Carla Troilo e Massimiliano Nicoli (Feltrinelli, a cura di Pier Aldo Rovatti, pp. 352, 35 euro) bisogna andare a pagina 219 di questo libro e leggere la lezione su Nietzsche. È un testo contenuto in una delle ampie appendici riprodotte nel volume insieme ai testi ricostruiti del primo corso svolto al Collège de France nel 1970.
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L’individuazione del parricida
Daniele Balicco
Un parricidio compiuto è un libro che risponde, attraverso un’analisi puntuale dei testi marxiani della maturità, ad alcune domande generali: qual è il soggetto che muove realmente il capitalismo? A cosa serve davvero lo sviluppo tecnologico? L’emancipazione dei soggetti può essere pensata come individuazione? Questioni capitali che Roberto Finelli discute in un volume che andrebbe letto come la seconda puntata di un’opera filosofica in due atti: sul conflitto fra un padre particolarmente ingombrante (Hegel) e un figlio particolarmente impetuoso (Marx).
Nel primo atto di questo dittico – Un parricidio mancato (Bollati Boringhieri 2004) – Finelli aveva seguito la ribellione teorica del giovane Marx, pensatore ancora impronto, politicamente esuberante, che poco sopporta l’astrazione hegeliana, anche perché sedotto dal materialismo «ingannevole» di Ludwig Feuerbach. Con il secondo atto, la scena si sposta a Londra. Marx è ora alla British Library dove studia economia politica, storia tecnologica e storia sociale. Ha progressivamente abbandonato i suoi interessi filosofico-politici, per provare a costruire una scienza nuova: lo studio del capitale come astrazione reale.
Se è questa la posta in gioco, il confronto con Hegel – vale a dire con il più originale pensatore dell’astratto in età moderna – non può più essere eluso. Finelli mostra molto bene come, a partire da una breve sezione dei Grundrisse, Marx inizi a pensare il modo di produzione capitalistico come una sorta di Geist hegeliano. Vale a dire come un soggetto che «tende a pervadere e a ridurre a sé l’intera realtà e la cui attività consiste nel togliere tutto ciò che di esterno possa condizionarlo e limitarlo».
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Tempi pericolosi ci attendono
Alain Badiou e Stathis Kouvelakis
Il giornalista francese Aude Lancelin e il filosofo politico Alain Badiou si sono incontrati col membro del comitato centrale di Syriza e collaboratore di Jacobin, Stathis Kouvelakis. La loro discussione si concentra sui difficili negoziati tra la Banca centrale europea (BCE) e la Grecia, ma anche sulle radici storiche di Syriza e sulle scelte che il partito ora deve affrontare.
E’ un lungo scambio che val la pena di leggere per intero, specialmente alla luce delle notizie di ieri che la Grecia sta elaborando dei piani di nazionalizzazione del sistema bancario del paese e intende introdurre una moneta parallela.
Aude Lancelin: Son passate poco più di otto settimane da quando in Grecia è arrivata la speranza, con l’elezione di Syriza, una formazione della sinistra radicale decisa a rompere con le politiche di austerità dell’Europa.
Oggi, sembra che sia in atto una prova di forza quanto mai impari, con la troika che riafferma la sua autorità (anche se con un nuovo eufemistico nome) e il governo greco che deve destreggiarsi tra una terribile crisi di liquidità (che Stathis sta per raccontarci ), e con delle prospettive future che ora sembrano davvero molto difficili.
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Frédéric Lordon e i predatori delle passioni
Benedetto Vecchi
Frédéric Lordon è un sociologo e economista cresciuto intellettualmente quando il Sessantotto aveva smesso da tempo i echeggiare nelle stanze del Cnrs, il centro di ricerce francese dove lavora dopo aver frequentato l’«Institut supérieur des affaires» e un dottorato presso l’«École des hautes études en sciences sociales». Autore di numerosi saggi, Lordon ha fondato, assieme ad altri, «Les Économistes atterrés», un gruppo di economisti che prova a ribattere punto su punto le tesi neoliberiste. Capitalismo, desiderio, servitù è il libro da poco mandato in libreria dalla casa editrice DeriveApprodi (pp. 213, euro 16) si propone di sviluppare un’antropologia delle passioni nel lavoro contemporaneo ed è stato salutato come un innovativo tentativo di utilizzare la filosofia di Baruch Spinoza per definire il rapporto salariale nel neoliberismo. A questo testo ne è seguito un altro (con la speranza di una sua rapida traduzione), La société des affects : pour un structuralisme des passions (Éditions du Seuil) dove riprende e sviluppa molti dei temi presenti nel libro da poco pubblicato.
Lordon ha un volto solare che sprizza ironia da ogni poro.
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