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orizzonte48

Città globali e denazionalizzazione-globalizzazione "buona"

La "cosmesi finale"

di Quarantotto

jean francois rauzier yatzer 1I. Che il trilemma di Rodrik sia così facilmente dimenticato, o piuttosto ignorato, a sinistra, è un fatto di cui, in qualche modo mi stupivo  nell'ultimo post.

Poi, interagendo con voi nei commenti, mi è sovvenuta la spiegazione.

Il punto è presto detto: esiste l'idea di una globalizzazione buona, tale perchè:

a) lo Stato abbraccia l'internazionalismo e denazionalizza la sua azione e ciò ne potenzia l'efficienza per qualunque obiettivo voglia raggiungere: questo è un corollario dell'idea che l'internazionalismo (dell'indistinto) sia sempre e comunque cooperativo, (mentre l'assetto di Westfalia sarebbe intrinsecamente "inefficiente");

b) lo Stato ne risulta depotenziato e destrutturato e questo pure - in aggiunta all'internazionalismo che si espande- sarebbe un bene in sè

Forse perchè lo Stato nazionale può essere solo autoritario, fascistoide e guerrafondaio, mentre invece gli Stati de-sovranizzati e filo-globalizzazione, adeguandosi alle privatizzazioni e liberalizzazioni imposte da FMI, UEM e troike varie, sarebbero altamente libertari e progressisti;

c) in ogni modo, dalla globalizzazione e dalla "rete" delle irrisolvibili tensioni sociali parallella alla rete delle città globali, finanziarizzate e altamente tecnologicizzate, scaturirebbe, purificando ogni imperfezione, la reazione altrettanto globale e decisiva delle "masse marginalizzate".

 

II. Su quest'ultimo punto, mi richiamo a questo articolo di Lordon, segnalato nei commenti da Arturo, che ci dice (traduco le parti in francese): l'articolo smonta il jacquattalismo (ossia l'idea che "per risolvere i problemi della mondializzazione, gasta attendere la mondializzazione delle soluzioni"), come lo chiama lui, de "asinistra" (cioè l'idea che si debba "attendere schierati in piazza d'armi la sincronizzazione planetaria di tutte le rivolte prima di considerare qualunque opzione attiva") con logica implacabile. Ha anche ragione, mi pare, a sostenere che l'attrattiva di questa assurdità stia nella somiglianza col mito della rivoluzione mondiale (contrapposto al "socialismo in un solo paese"). 

 

III. Ora non contesto la teoria della Sassen delle città globali, e della rete dei centri urbani polarizzati che governano il mondo, a titolo essenzialmente privato e deregolamentato: e ciò anzitutto sul piano finanziario, poi su quello, conseguente, della gestione insediativa e delle stesse regole essenziali della coesistenza umana. Il tutto in (trionfale) erosione dell'ex monopolio statale (e come se il coordinamento e la sintesi programmata dei complessi e non sempre convergenti interessi sociali, possano essere svolti meglio con politiche sovranazionali, autoregolate da privati non legati al territorio, piuttosto che con quelle concepite democraticamente dall'Ente esponenziale della comunità interessata!).

La teoria ha una valenza essenzialmente descrittiva e, in questi limiti, ci aiuta a "capire": ma questo va fatto senza mai perdere una corretta prospettiva storica, giuridica ed economica, perchè la capacità descrittiva della teoria diviene scarsa quando ritiene di saper segnalare dinamiche nuove, pretesamente non già prima manifestatatesi nel capitalismo liberista, o meglio "sfrenato".

 

IV. La Sassen, famosa teorizzatrice della "città globale", in un'illuminante intervista, ci dice alcune cose interessanti sui punti a) e b) sopra riassunti, che ci consentono di capire meglio quello c). Proviamo a esaminarle e a commentarle:

1) "...non esiste nessuna persona giuridica che rappresenti le marche globali; quello che esiste invece è uno spazio istituzionale, legale, formalizzato, che è stato prodotto passo dopo passo affinché le aziende globali potessero operarvi. 

E questi nuovi regimi giuridici, indispensabili alla geografia globale dei processi economici, sono stati creati e legittimati dallo Stato, attra verso processi di denazionalizzazione. Gli spazi globalizzati non nascono dal nulla, ma sono stati creati attraverso un importantissimo lavoro altamente specializzato compiuto dallo stato. Questo significa che all’interno dello stato nazionale ci sono alcuni settori che risultano essenziali per edificare uno spazio internazionalizzato. In questo senso sostengo che il globale si afferma anche all’interno e per mezzo del nazionale, attraverso un processo di denazionalizzazione portato avanti da alcune componenti dello stato nazionale...

E' chiaro il concetto? La globalizzazione è frutto di "nuovi regimi giuridici", che, come sappiamo, fanno capo alla conclusione di trattati internazionali che, - come ammette senza alcuna preoccupazione, anzi, con un certo "apprezzamento", la Sassen-, constano:

a) di un punto di riferimento finale, cioè il titolare dell'interesse tutelato e realizzato dai trattati, individuato nelle "marche globali" (sarebbe poi a dire, le industrie multinazionali);

b) un punto di riferimento statuale nazionale, individuato in "alcuni settori", o "alcune componenti" interne allo Stato nazionale (!) che con un lavoro "altamente specializzato" - cioè di quelli ben retribuiti- portano avanti la denazionalizzazione per edificare uno spazio internazionalizzato nell'interesse non dei cittadini - che, necessariamente, sono coloro nel cui interesse devono agire i vari "settori" dello Stato-, ma delle imprese multinazionali.  

Infatti queste, poverine, non avendo una persona giuridica che le tutela (a livello mondiale), si devono accontentare di...catturare settori dello Stato per fargli attuare politiche di proprio interesse...non nazionale!

E la Sassen ce lo dice così, senza battere ciglio, con l'intervistatore, a quanto pare, incapace di scorgere la portata di quanto apertamente affermato!

2) "Perché se riconosciamo i processi di denazionalizzazione, se in altri termini comprendiamo che la globalizzazione è un processo parzialmente endogeno al nazionale piuttosto che a esso esterno, possiamo capire che è proprio all’interno del nazionale che si stanno aprendo nuovi spazi politici potenzialmente globali per tutta una serie di attori confinati nel nazionale. Attori che possono prendere parte alla politica globale non solo attraverso strumenti globali, di cui possono anche non disporre, ma attraverso gli strumenti formali dello stato nazionale...".

Questo passaggio può apparire un po' criptico e, addirittura, (nella tentazione di andare oltre), può indurre a soprassedere. Mal ve ne incoglierebbe! Quello che la Sassen ci sta dicendo nel suo metalinguaggio (che l'ha ormai resa celebre) è, tradotto in corretti e concreti termini giuridico-economici: 

i politici che assumono il ruolo di promuovere, concludere e, successivamente, attuare i trattati internazionali che tutelano gli interessi delle "marche globali"(="multinazionali") acquistano un maggiore e crescente spazio istituzionale, funzionalmente giustificato dallo sviluppo dell'azione agevolatrice già svolta.

Questa descrizione del "riassetto" del potere istituzionale interno agli Stati ma in funzione di interessi privati internazionalizzati, è quello che Lordon chiama diritto internazionale privatizzato (p.9)e spiega perfettamente come e perchè i politici "accorti", specialmente di sinistra, siano così incondizionatamente internazionalisti: spazio di crescente potere, in nuove forme, e stabilità dello stesso, se ci si fa mandatari nazionali degli interessi economici internazionalizzati privati. That's it.

3) "Di fronte all’economia mondializzata, lo stato nazionale infatti ha dimostrato la capacità di “produrre” l’internazionalismo. Certo, si tratta di una forma di internazionalismo che non ci piace, ma la capacità esiste, ed è proprio qui che risiede l’elemento potenzialmente positivo. Perché lo stato nazionale potrebbe usare il “muscolo internazionalizzato”, sviluppato nel lavoro di denazionalizzazione svolto per la global corporate economy, per edificare un internazionalismo di natura diversa, che sia attento alle questioni che riteniamo fondamentali, come quelle ambientali; ma per far questo occorre rebbe una differente classe dirigente e una forte mobilitazione dei cittadini..."

La Sassen, ovviamente, non può negare quanto emerge dalla sua stessa ricerca scientifica, e cioè che lo Stato che produce internazionalismo lo ha fatto finora essenzialmente al servizio della "global corporate economy"

Ma tenta di legittimare tutto questo attraverso il solito, a noi ben noto in termini europeistici, possibile "diverso internazionalismo", e, indovinate un po', di tipo ambientalista. 

Non affronta il problema della democrazia di uno Stato che avrebbe come compito quello del benessere dei suoi cittadini e che invece si è piegato agli interessi delle grandi multinazionali, no. 

Prescinde, naturalmente dal centrale problema del mercato del lavoro e del pieno impiego: eppure si rendeva conto, avendoli rilevati e descritti, degli effetti del mercato dualistico e precarizzato registrabile nelle città globali autogovernate dal potere economico capitalista(finanziario). 

Ma l'irresistibile richiamo ordoliberista, la porta a prefigurare l'età dell'oro dell'internazionalismo ("buono" e instaurato con la collaborazione dello Stato) nell'ambientalismo internazionalizzato

E rammento, come nel programma ordoliberista €uropeista, campeggi

"la protezione dell’ambiente con fissazione di standard tali da agevolare la realtà della grande impresa, capace di sostenere la ricerca, la produzione e i costi privati di tali standards;tale “protezione è inoltrevista come politica sostitutiva della tutela sanitaria pubblica generalizzata, da sostituire progressivamente, con un sistema sanitario assicurativo privato)";

4) "L’internazionalismo infatti non emerge solo dalla mobilità attraverso i paesi: così come lo stato nazionale, dal suo interno, opera un tipo di internazionalismo che definisco denazionalizzazione, allo stesso modo possono operare alcuni settori sociali e politici.
La cosa che tengo a sottolineare è che il potere si fa: power is made! Non è un attributo che si riceve o si possiede. Questo vuol dire che si può anche disfare. E lo stesso vale per la mancanza di potere, che è fatta, costruita attivamente. Dunque, esiste una variabile nella mancanza di potere, che al suo interno è estremamente differenziata come lo è la variabile del potere.
E all’interno di questa complessità della mancanza di potere c’è un’importante possibilità politica di cui occorre approf i t t a re. 

Le porto l’esempio dei diritti umani: una legge può essere bella quanto vogliamo, ma non serve a niente se non c’è qualcuno che la faccia “funzionare”, che la metta in opera. 

E chi fa “lavorare” la legge sui diritti umani? Gli sfruttati, i miserabili, i rifugiati, i senza documenti: quei soggetti che non hanno potere ma che con la loro presenza sviluppano i “muscoli” della legge sui diritti umani, in un processo che non fa necessariamente ottenere loro più potere, ma che comunque rende evidente come la loro mancanza di potere sia complessa. Dov remmo cominciare a rivisitare la storia attra verso la “tempo ralità” di quelli che non hanno potere. Scopriremmo che la mancanza di potere è sempre complessa, e può impregnarsi di elementi politici."

Anche qui: nessun esitazione, nessuna ricerca della cause della creazione di "sfruttati, i miserabili, i rifugiati, i senza documenti", nessuna minima sensibilità all'assetto di potere oligarchico che discende proprio da questa "mancanza di potere" dello Stato, cioè dell'impossibilità (derivante dai trattati che introducono la globalizzazione) di esercitare la sua sovranità intesa come perseguimento dei diritti fondamentali dei suoi cittadini: primo il lavoro.

Piuttosto, una formalistica, se non obiettivamente ipocrita, tirata sui diritti cosmetici.

Uno Stato denazionalizzato, cioè le cui istituzioni non rispondono più alla democrazia costituzionale, ma agli interessi economici privati sovranazionali, sarebbe, secondo la Sassen, "costringibile" a cambiare politiche dagli stessi emarginati che tale Stato crea, (o è costretto a creare per vincolo internazionale)!

In altri termini, per puro impulso benefico ex nihilo ed ex abrupto, lo Stato "denazionalizzato" e assoggettato alle oligarchie dominanti delle "città globali", dovrebbe improvvisamente disfare ciò che ha prima implementato come riflesso intenzionale delle politiche del lavoro, imposte dagli stessi poteri sovranazionali che lo controllano!

Le barzellette globali non fanno ridere: l'umorismo è per lo più involontario...Piuttosto si inclina al grottesco, e alla beffa rispetto alla ragionevolezza minima. 

Ma la morale della favola è troppo triste.

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