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Adam Smith a Gioia Tauro
“Questione meridionale” e spazio europeo
di Francesco Festa
1. A cosa ci riferiamo quando parliamo di subalternità? E quale campo semantico o geografico interroghiamo nel nominare la nozione “Sud”?
In entrambi i casi segnaliamo l’urgenza di una cultura “altra”, se non di una «rottura epistemologica», di fratturare il rapporto egemonico con la razionalità occidentale e la cultura borghese.
Alcune premesse indispensabili per definire i campi che ci accingiamo a scavare. Anzitutto: chiamare in causa la cultura vuol dire segnalare dei «processi eternamente in atto», dei processi conoscitivi e pedagogici che sono anche e soprattutto pratica politica in un rapporto di lotte e di resistenze fra la parte subalterna e la parte egemonica della società. E poi: la cultura come sostantivo rinvia immediatamente alla sua forma aggettivale, culturale, allo spazio discorsivo da cui prende origine e dall’attenzione posta sulle concezioni e sull’azione di coloro che sono emarginati o dominati; mentre il sostantivo cultura privilegia il dato acquisito, l’idea di condivisione, accordo e compiutezza, che contrasta con quelli che sono i rapporti sociali e la microfisica dei poteri fra le classi. E infine: l’identità culturale, come insieme di «rappresentazioni e simboli» nella loro «vita quotidiana», non è qualcosa di già costituito, di già esistente, ma è «il risultato di storie – scrive Stuart Hall – soggette a una costante trasformazione. Lungi dall’essere eternamente fissata in un qualche passato essenzializzato, è sottoposta al “gioco” continuo della storia, della cultura e del potere»2.
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"L'uso dei corpi" di Agamben
di Carlo Salzani
Può un’opera (artistica, poetica, filosofica) essere veramente conclusa? E un progetto filosofico che abbraccia due decenni (o più)? Da qualche tempo Agamben va citando, in seminari, conversazioni e interviste, un’affermazione di Giacometti, secondo il quale un’opera non può mai essere conclusa, ma solo abbandonata: la sua ‘potenza’ non si esaurisce con l’ultima pennellata o con l’ultima parola; la ‘potenza’ dell’opera non può mai esaurirsi. È quindi naturale che un pensatore che, come Agamben, ha messo il concetto di ‘potenza’ al centro del suo pensiero, apra l’ultimo volume del suo progetto «Homo sacer» avvertendo il lettore con le parole di Giacometti (citate «senza virgolette»): questo libro non è una conclusione o un nuovo inizio, ma il punto in cui il filosofo, tirando le somme di una ricerca che lo ha occupato per due decenni (e più, visto che la concettualità centrale del progetto comincia a essere elaborata ben prima della pubblicazione di Homo sacer nel 1995) decide di abbandonarla – perché, eventualmente, altri la continuino.
In realtà, al completamento del progetto manca ancora l’ultimo libro del volume II (II, 4), sulla stasi o guerra civile, che uscirà tra qualche mese per Bollati Boringhieri. Ma L’uso dei corpi è l’‘ultimo’ volume in quanto conclude la parte propriamente propositiva del progetto (iniziata con Altissima povertà, 2011), che, dopo la presentazione delle problematiche fondamentali (volume I), l’analisi della struttura del potere (volume II), e l’analisi della vita nella stretta del potere sovrano (volume III), deve presentare la proposta ontologica alternativa.
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I predatori del sistema
Benedetto Vecchi intervista Saskia Sassen
Parla l’economista e sociologa autrice di molti saggi sulla globalizzazione, in Italia per partecipare domani a un incontro del meeting torinese «Biennale Democrazia»
La conversazione è iniziata laddove era stata interrotta alcuni anni fa. Anche allora la crisi dominava la scena. Ma Occupy Wall Street era molto più che una debole speranza, mentre gli indignados sembravano inarrestabili. Per Saskia Sassen erano segnali di una possibile inversione di tendenza rispetto alle politiche economiche e sociali di matrice neoliberista. E Barack Obama negli Stati Uniti, dove vive e insegna, sembrava ancora capace di sfuggire alle grinfie della destra populista. Ad anni di distanza, Saskia Sassen non ha perduto l’ottimismo della ragione che ha caratterizzato molti suoi libri, ma è però consapevole che alcune tendenze individuate sono divenute realtà corrente.
Nota per il libro sulle Città globali (Utet), ma anche per le sue analisi sulla globalizzazione, culminate nel volume Territorio, autorità e diritti (Bruno Mondadori), dove Saskia Sassen non si limita a fotografare la globalizzazione, ma ne analizza la genesi, le trasformazioni indotte nel sistema politico nazionale e la formazione di centri decisionali politici sovranazionali, messi al riparo dalla possibilità di controllo dei «governati», da poco ha pubblicato un nuovo volume (Expulsions, Belknap Press; in Italia sarà pubblicato dall’editore il Mulino). La conversazione precede la sua partecipazione alla Biennale Democrazia di Torino, dove parteciperà domani a una tavola rotonda con Donatella Della Porta e Colin Crouch.
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L’educazione privatizzata. Anatomia della “Buona scuola”
di Marco Magni
Dall'attacco agli insegnanti e ai loro diritti, trasformati in esecutori di ordini stabiliti altrove, all'aziendalizzazione della scuola, orientata alla concorrenza di mercato e non più all’attuazione del welfare. Un'analisi del “nuovo discorso” neoliberista sull'educazione, che dagli anni ’80 di Reagan passa per Tony Blair, fino all’impostazione data da Renzi alla sua riforma
Le premesse storiche
Negli anni ’60 e ‘70, i governi occidentali vedevano nelle riforme scolastiche una delle leve della costruzione del welfare state e della relativa base di consenso; dagli anni ’80, considerano le riforme scolastiche un modo per infondere un’“anima” all’“economia sociale di mercato” (o, se vogliamo dirlo in termini più semplici, al “neoliberismo”). Possiamo, quindi, inserire la “Buona scuola” in una genealogia, che inizia proprio dagli anni ’80.
Il documento che segna la svolta nelle politiche scolastiche, nel quadro dell’affermarsi dell’egemonia liberista, è “A Nation at Risk”, rapporto presentato dal segretario statunitense all’istruzione di Reagan, Bell, nel 1983. Dalla sua lettura emergono diversi elementi di un’impostazione pedagogica conservatrice (l’invocazione di maggiore disciplina e maggior tempo dedicato allo studio) ma vengono toccati anche dei nervi scoperti del sistema scolastico americano, soprattutto l’eccessiva frammentazione del curricolo, che ha fatto delle high schools un vero e proprio “supermarket educativo” in cui si può studiare di tutto, dalla criminologia all’economia domestica, ma senza alcuna definizione chiara del cosiddetto “curricolo di base”.
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Landini: una nuova sinistra sindacale?
di Aldo Giannuli
Con la nascita della “cosa” landiniana, sembra tornata di attualità la “sinistra sindacale”, come leva per una sinistra diversa, basata sul primato del sociale sul politico. Forse non sarà inutile ricordare la prima esperienza in questo senso, la sinistra sindacale degli anni sessanta-settanta, per ricavare qualche utile indicazione su esperienze già fatte.
Nella prima metà degli anni sessanta, la situazione politica in Italia e Francia sembrò schiodarsi dall’immobilismo del quindicennio precedente. In Italia il Centro sinistra, in Francia la prima candidatura di Françoise Mitterrand sostenuto da comunisti e socialisti insieme, profilarono una alternativa all’egemonia di centro destra vigente sino a quel momento.
Tuttavia, in Francia Mitterrand non vinse (anche se il 45% del secondo turno fu un notevole successo) ed in Italia il Centro-sinistra andò rapidamente perdendo la sua primitiva carica riformista. D’altra parte, i condizionamenti internazionali del mondo diviso in due blocchi non si erano certo affievoliti, per cui l’ipotesi di una vittoria elettorale della sinistra appariva decisamente improbabile, per lo meno nel tempo politicamente prevedibile e, con essa, anche un programma di trasformazione sociale.
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Il paradosso democratico
Benedetto Vecchi intervista Colin Crouch
Un’intervista con lo studioso inglese, ospite della «Biennale Democrazia» di Torino. La necessità di una puntuale critica al potere dei giganti e di una complementare capacità innovativa della sinistra europea
Colin Crouch appartiene alla esigua, ma autorevole schiera di economisti, filosofi, sociologi «riformisti» che, rimanendo fedeli alle loro convinzioni, sono ormai indicati, dai media mainstream, come teorici radicali. Ne fanno parte studiosi come Richard Sennett, Zygmunt Bauman, Alessandro Pizzorno e Luciano Gallino. Negli anni tutti loro si sono applicati ad indagare le trasformazioni del mondo del lavoro o il venir meno di quelle identità collettive che hanno caratterizzato il Novecento. Si sono applicati al loro specifico campo disciplinare, registrando le continuità e le discontinuità nello sviluppo capitalistico. Non hanno mai nascosto la convinzione che l’economia di mercato potesse continuare a prosperare solo in presenza di robusti, seppur flessibili diritti sociali di cittadinanza che garantissero una «ragionevole» redistribuzione della ricchezza.
Crouch è inoltre lo studioso che ha, come gli altri, individuato nel welfare state il punto più avanzato raggiunto durante «il secolo socialdemocratico», per usare un’espressione coniata da Ralph Darendhorf, altra figura chiave di questa cultura politica democratica europea.
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Un sasso nello stagno
di Raffaele Sciortino
Marco Bertorello, "Non c'è euro che tenga" (Ed. Allegre, 2014). Nota critica su un prezioso libretto sull'euro
Titolo e sottotitolo del libro di Marco Bertorello formano quasi un contrappunto: Non c'è euro che tenga. Per non piegarsi alla moneta unica non serve uscirne. Non si tratta di ambiguità ma del tentativo dichiarato di non farsi imporre, analiticamente e politicamente, il terreno dall'opposta ma speculare alternativa euro sì/euro no. Non che Bertorello non sappia, come molti di noi, che il terreno più avanzato per la ripresa del conflitto in "basso a sinistra" è in Europa quello che con estrema difficoltà, e in sostanziale isolamento, stanno in questi giorni tentando popolazione e governo greci.
Ma il punto è a quali condizioni e con quale prospettiva calcare il terreno europeo. Investigare più a fondo queste condizioni è il merito di questo prezioso libretto che prova a lanciare un sasso nello stagno dello stantio, e diciamocelo: piuttosto miserevole, stato del dibattito a sinistra sul tema.
Partiamo dall'analisi. Tre le tesi principali che si possono ricavare.
La prima ci dice che Euro makes sense, il varo della moneta unica europea non è frutto di un errore (p.es. di architettura istituzionale) o dell'irrazionalità delle classi dirigenti europee.
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Bifo, Negri e l'algoritmo del finanzismo
di Sebastiano Isaia
Scrive Franco Berardi Bifo: «Non so come andranno a finire le elezioni francesi. Quel che so è che il Front National è la sola forza politica capace di interpretare i sentimenti prevalenti nel popolo francese: odio nazionalista riemergente contro l’arroganza tedesca, e ribellione sociale contro la violenza finanziaria. Un mix inquietante ma potente, che cancella la distinzione tra destra e sinistra». Esatto. Ma come dobbiamo spiegare questa cancellazione?
Se si vuole dire che difficilmente il disagio sociale e la rabbia delle classi subalterne si trasformano spontaneamente (meccanicamente) in un’autentica lotta di classe potenzialmente rivoluzionaria; e che anzi la crisi sociale non raramente (anzi!) avvantaggia le soluzioni borghesi più reazionarie, perché il vuoto della rivoluzione è presto coperto dalla controrivoluzione (il più delle volte preventiva), se si vuole dire questo non posso che dichiararmi d’accordo. È la storia del “secolo breve” che ci ammonisce in tal senso: dal fascismo al nazismo, dallo stalinismo ai Fronti Popolari, dal populismo di “destra” a quello di “sinistra” la lezione è infatti univoca. Come il proletariato possa farsi classe per sé e dunque trasformarsi nel partito rivoluzionario immaginato a suo tempo da Marx, ebbene questo problema, ineludibile per chi intende affermare una posizione radicalmente anticapitalista, aspetta ancora, non dico una corretta soluzione ma un’adeguata impostazione. Perché esso va naturalmente riformulato alla luce del secolo e mezzo di acqua passata sotto i ponti del Capitalismo mondiale dai tempi in cui il rivoluzionario di Treviri scriveva il Manifesto del Partito Comunista insieme al noto amico di merende. Questo almeno all’avviso di chi scrive.
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Anticapitalismo e antifascismo in Europa
Due critiche alla strategia di Syriza
di Giulio Palermo
Syriza è in gravi difficoltà. Non per lo scontro con le istituzioni europee ma per le rivendicazioni del popolo greco. Ormai sono i fatti a dimostrarlo: il suo programma politico è internamente contraddittorio. Allentare la crisi sociale e umanitaria non è possibile all’interno delle regole dell’unione economica e monetaria. Questo è il dato. Le promesse di Syriza non possono essere mantenute.
Tsipras ora deve scegliere: tradire il capitale, che vorrebbe che il governo greco faccia il dovuto in casa per rispettare gli impegni in Europa; o tradire il popolo greco, che ha votato per una forza che gli prometteva di allentare la stretta del capitale in crisi sulla gente che lavora e che perde il posto. Si tratta di una scelta che non può essere rimandata. Restare nell’ambiguità serve solo a indebolire la classe lavoratrice greca e, con essa, quella di tutt’Europa.
In questo articolo, mi soffermo su due conseguenze di questa strategia ambigua.
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Il Medio Oriente in fiamme: guerra settaria o per l’egemonia?
di Lorenzo Carrieri
L’interdipendenza globale oggi non è solo economica e finanziaria, ma è anche interdipendenza e reciprocità dell’elemento “guerra”. Al contrario delle due guerre mondiali, questa Guerra si divide, moltiplica i fronti e gli scenari, e viene combattuta a colpi di diplomazia, di kalashnikov e lancia-granate ma anche di fondi sovrani e guerre valutarie. Sotto i colpi di questa guerra il mondo sembra cadere a pezzi, e il Medio Oriente si trova nuovamente al centro.
Pur essendo diversi i fronti caldi all’interno dello scenario globale – dal Venezuela all’Ucraina, passando per le metropoli occidentali -, da 60 anni a questa parte la zona più pervasa dall’elemento conflittuale è quella che si estende dal Marocco al suo estremo Ovest fino al Pakistan nel suo oriente più lontano. Il Medio Oriente, denominata così dall’ammiraglio Alfred Thayer Mahan nel 1902, che ne comprese per primo l’importanza strategica come via di transito centrale per garantirsi il potere marittimo, è di nuovo la zona calda per eccellenza del globo. È in quest’area che, per usare le parole di Papa Francesco, si gioca una parte importante della Terza Guerra mondiale, quella che non ha un focus preciso in una parte del globo, ma che si manifesta “dappertutto, a pezzi”.
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Una minestra riscaldata?
Landini e la proposta di "coalizione sociale"
Rete dei Comunisti
A corrente alternata il leader della FIOM prende posizione prima in un verso e poi in un altro. Un atteggiamento che riscontriamo non solo in questi giorni ma che costituisce, da tempo, una particolarità del metodo di comportamento politico di Landini.
Nelle settimane scorse ha iniziato una (cauta) polemica con la Camusso. In altre occasioni esprime un accordo con la segretaria della CGIL. Anche verso Renzi, il buon Muarizio Landini ha avuto alterne posizioni: dagli incontri più o meno cordiali al principio della sua presidenza del consiglio fino allo scontro diretto. In tale quadro, per meglio inquadrare la situazione, va anche ricordato che Renzi, da uomo politico furbo e navigato, non ha un atteggiamento netto di rottura con Landini come lo ha, ad esempio, con Bersani o D’Alema ai quali fa una guerra senza prigionieri.
Adesso siamo alla vigilia della manifestazione sul Jobs Act del 28 marzo ed all’esordio di una proposta di “coalizione sociale” della quale si tengono oscuri i fini reali, forse perché non ce ne sono o perché si aspetta il momento giusto per fare una qualche scelta di carattere più preciso e puntuale.
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Un’altra storia
di Lanfranco Binni
Delle origini in Iraq e in Siria dello «Stato islamico», finanziato e armato dagli Stati Uniti, e sottotraccia da Israele, per disgregare lo Stato siriano con l’obiettivo strategico di attaccare l’Iran ed eliminare due importanti retrovie di sostegno al popolo palestinese, ormai sappiamo tutto. È lo stesso Obama, nella recente intervista del 19 marzo, a riconoscere il ruolo statunitense nella nascita dell’Isis, sia pure attribuendola alle conseguenze della guerra irachena di Bush e sottraendosi alle responsabilità della sua presidenza. Sappiamo anche che l’Isis, strumento del capitalismo senile occidentale e delle sue strategie geopolitiche, svolge oggi un ruolo di attrazione di soggettività radicali nei paesi arabi e nei paesi occidentali, innestando sul disegno eterodiretto dinamiche diverse e più complesse le cui radici affondano nei processi di esclusione sociale nei paesi arabi e di islamofobia e razzismo nei paesi occidentali: contro il neocolonialismo l’odio per l’Occidente, contro lo «Stato ebraico» lo «Stato islamico», contro i simboli del «moderno» integralismo occidentale i simboli di un integralismo islamico delle origini, contro le tute arancione dei prigionieri di Guantanamo le tute arancione dei prigionieri dell’Isis, contro le tecniche e i mezzi della comunicazione occidentale il loro impiego con contenuti opposti e speculari.
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La sophia del pop e la libertà post-metafisica
di Corrado Ocone
Il movimento più evidente del pensiero degli ultimi secoli è quello che ha sempre più portato a eliminare la dicotomia fra il mondo ideale, fatto di strutture più o meno stabili per quanto diversamente concepite dai diversi filosofi, e il mondo reale, soggetto al mutamento e alla finitezza. Come Nietzsche scrive nel Crepuscolo degli idoli (1888), tratteggiando quella che considera la “storia di un errore”, “a certo punto il ‘mondo vero’ finì per diventare favola”. Era stato Platone a identificare nelle “idee” quella “realtà vera” che gli uomini, chiusi in una caverna, vedono solo attraverso ombre. Era allora iniziata una storia, quella della Metafisica, che è, nel bene e nel male, la storia stessa dell’Occidente.
Ma la Metafisica, per lo più, oggi ci sembra poco plausibile. E questa poca plausibilità fa si che, con essa, poco plausibile sembra essere la stessa filosofia. In effetti, la Metafisica è stata sempre identificata come la filosofia prima, la filosofia senz’altro. È possibile continuare allora a filosofare e in che modo, con quale senso, nell’epoca della “fine della filosofia”? È una delle domande, forse la domanda, che ha percorso il Novecento filosofico. Le risposte sono state diversissime: hanno coperto un’ampia e differenziata gamma di “soluzioni”.
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La banlieue come volontà e come rappresentazione
di Girolamo De Michele
«Quanto lontano è quell’anno del bicentenario della Rivoluzione francese in cui François Mitterand poteva presentare la politica in favore delle famigerate “banlieues” come un’opera di “civilizzazione urbana”, il cui scopo finale era “far si che non ci siano più città povere e città ricche”»1. Comincia con questa disincantata constatazione la presentazione di Thomas Kirszbaum al volume di saggi nel quale, con un taglio pluridisciplinare, storici, sociologi, urbanisti e geografi fanno il punto sul sostanziale fallimento della “politique de la ville” in Francia: «una politica a lungo saturata di discorsi che, nell’ebrezza dei “piani Marshall” e di altre “nuove ambizioni per le città“, lasciavano intendere che il “male delle banlieues” poteva essere definitivamente guarito a condizione di mettervi volontà politica e mezzi finanziari».
Un volume che si rivela prezioso, all’indomani delle stragi di Parigi, per una comprensione di quella banlieue che sembra essere assurta quasi a pietra filosofale ermeneutica nei discorsi di senso comune sulla relazione fra realtà urbana ed estremismo jihadista. Discorsi nei quali alberga spesso una rappresentazione della banlieue standardizzata, che non sembra scalfita dalla constatazione che i tre terroristi di Parigi non erano banlieuesard, mentre lo erano – della “famigerata” Seine-Saint-Denis – il poliziotto musulmano e l’impiegato sans papier dell’ipermarket kosher che ha salvato molti dei clienti: pur casuale, questa distribuzione degli attori lascia sospettare che le cose siano parecchio complicate2.
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Quei legami pericolosi tra polis e guerra civile
di Giorgio Agamben
Questo testo è tratto dal primo capitolo di Stasis di Giorgio Agamben (Bollati Boringhieri pagg. 84, euro 14).
Che una dottrina della guerra civile manchi oggi del tutto è generalmente ammesso, senza che questa lacuna sembri preoccupare troppo giuristi e politologi. Roman Schnur, che già negli anni Ottanta formulava questa diagnosi, aggiungeva tuttavia che la disattenzione nei confronti della guerra civile andava di pari passo al progredire della guerra civile mondiale. A trent'anni di distanza, l'osservazione non ha perso nulla della sua attualità: mentre sembra oggi venuta meno la stessa possibilità di distinguere guerra fra Stati e guerra intestina, gli studiosi competenti continuano a evitare con cura ogni accenno a una teoria della guerra civile.
È vero che negli ultimi anni, di fronte alla recrudescenza di guerre che non si potevano definire internazionali, si sono moltiplicate, soprattutto negli Stati Uniti, le pubblicazioni concernenti le cosiddette internal wars; ma, anche in questi casi, l'analisi non era orientata all'interpretazione del fenomeno, ma, secondo una prassi sempre più diffusa, alle condizioni che rendevano possibile un intervento internazionale. Il paradigma del consenso, che domina oggi tanto la prassi che la teoria politica, non sembra compatibile con la seria indagine di un fenomeno che è almeno altrettanto antico quanto la democrazia occidentale.
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La lotta per liberare lo spazio urbano sarà la nuova lotta di classe
di Leonardo Lippolis
Luogo storico dell’emancipazione dai vincoli oppressivi della tradizione e della comunità chiusa dell’epoca premoderna, la città, con il capitalismo, è divenuta strumento dei suoi processi di alienazione ma anche luogo della possibilità e della chance rivoluzionaria.
È difficile dire cos’è la città oggi; nonostante alcuni tratti comuni, sono tante le differenze tra quello che accade nel vecchio Occidente e nel resto del mondo, quello in espansione in Asia, Sudamerica, Cina e Africa. Il dato certo è che lo stucchevole dibattito di alcuni ambienti militanti sul contrasto città-campagna è surclassato dalla realtà, per cui l’urbanizzazione, ovvero l’espansione di giganteschi agglomerati abitativi dai confini sempre meno definiti, è una tendenza in atto in tutto il globo.
La Cina è lo specchio dei tempi; nelle sue megalopoli di decine di milioni di abitanti si sperimentano le forme più estreme del cambiamento. Da qualche mese, per esempio, a Pechino è in costruzione un muro che reclude in sterminate periferie circa due milioni di contadini da poco immigrati nella capitale, attratti dal boom economico e dalla possibilità del lavoro di fabbrica. Posti di guardia, telecamere e pattuglie militari controllano gli accessi e i confini tra la città e questi ghetti che rimangono chiusi dalle 23 alle 6 del mattino. Di giorno i reclusi della città-prigione possono entrare e uscire solo con un pass che certifica la loro identità, l’appartenenza etnica, l’occupazione e un numero di telefono.
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Contro il Parlamento Europeo
di Lorenzo Del Savio e Matteo Mameli
Su Open Democracy un tema che rischia di diventare di forte attualità prossimamente: man mano che l’euroscetticismo avanza, una risposta apparente è quella di colmare quello che viene definito il “deficit democratico” della UE, rafforzando la legittimazione democratica percepita delle sue istituzioni. In realtà nessuna di queste proposte apparentemente illuminate affronta il tema principale, che è quello della “cattura oligarchica” delle istituzioni UE, anche di quelle elettorali rappresentative. Il tema è approfondito dai due autori in questo studio
Alle elezioni del Parlamento europeo del maggio 2014, i partiti euroscettici hanno guadagnato terreno a spese dei partiti pro-europei. Questo vale sia per i partiti euroscettici di destra che per quelli di sinistra. In generale, la reazione delle elite pro-UE è stata sufficiente e paternalistica. Alcuni tra gli appartenenti all’elite pro-UE hanno suggerito che il voto euroscettico è stato un voto di protesta non contro le istituzioni dell’Unione europea, ma contro i governi nazionali, che hanno fallito nella gestione della crisi economica, finanziaria e del debito sovrano. Alcuni hanno suggerito che l’ondata euroscettica è arrivata principalmente da persone appartenenti ai segmenti più poveri della popolazione: quelli più colpiti dalla crisi, ma anche quelli che, a causa del nesso esistente tra povertà e bassi livelli di istruzione, sono meno capaci di capire le cause della crisi e quale potrebbe essere la possibile soluzione. I contributi dei trattati, dei patti, delle politiche, dei vincoli e obiettivi della UE agli alti tassi di disoccupazione e agli ampi tagli alla spesa pubblica in molti Stati membri, sono stati misconosciuti e minimizzati.
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"Capire la Russia" di Paolo Borgognone
Consigli (o sconsigli) per gli acquisti
di Militant
Sono due i motivi che ci hanno spinto a leggere questo “pesante” libro di circa 700 pagine. Il primo, perché da anni la casa editrice Zambon si contraddistingue per una meritoria opera di lotta al revisionismo storico attraverso una serie di pubblicazioni rilevanti e controcorrente rispetto al pensiero mainstream. La seconda, perché oggi c’è davvero necessità di “capire la Russia”, ossia liberarsi dalla vulgata liberale che ha trovato in Putin il nuovo nemico assoluto dell’Occidente e nella Russia il problema per la democrazia nel mondo. Potenzialmente, allora, poteva trattarsi di un libro importante, uno strumento di lotta in più nella battaglia anche culturale tra il capitalismo neoliberista e le sue forme di resistenza. Così non è, anzi. Il libro altro non è che una vetrina del pensiero geopolitico rosso-bruno di ogni latitudine. Uno squallido tentativo di elevare tale raffazzonata visione del mondo, fatta di spiritualismo, capitalismo pre-liberista, tradizionalismo religioso-culturale e complottismo vittimista, a pensiero degno di considerazione. Un testo talmente trasudante neofascismo da imporre una riflessione per la stessa casa editrice, che da oggi in poi difficilmente potrà essere considerata “credibile” nel panorama politico italiano, almeno quello riferibile alla sinistra di classe.
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Il fascino discreto della crisi economica
Intervista a Richard Walker
Il ciclo di interviste a teorici eterodossi a cura degli attivisti della Campagna Noi Restiamo continua. Siamo ormai arrivati all’ottava intervista e la parola va a Richard Walker. Walker è professore emerito presso il Dipartimento di Geografia della University of Berkely (California).
La sua ricerca si concentra sulla geografia economica, lo sviluppo regionale, il capitalismo e la politica, le città e l’urbanizzazione, le risorse e l’ambiente, la California e infine su tematiche legate a classe e etnia. Il suo lavoro più conosciuto per quanto riguarda la geografia economica è il libro The Capitalist Imperative: Territory, Technology and Industrial Growth (Blackwell, 1989), scritto con Micheal Storper. Fa parte del Board of Directors del progetto “Living New Deal”, che punta a raccogliere e mostrare i risultati raggiunti dal piano di riforme economiche e sociali promosso da Franklin Roosevelt.
Noi Restiamo: L’emergere della crisi ha confermato la visione di alcuni economisti eterodossi secondo la quale il capitalismo tende strutturalmente ad entrare in crisi. Tuttavia, le visioni sulle cause del disastro attuale divergono.
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Monete locali come ipotesi di uscita dalla moneta capitalistica?
di Paolo Rabissi
Ci sono attualmente in circolazione circa 5000 monete locali nel mondo, anche in regioni europee, Germania e Italia comprese. Per qualche esperto si tratta di esperimenti di possibile successo anche in senso antagonista grazie a certi loro aspetti alternativi al mercato e alla crescita a tutti i costi. Ma i dubbi sono molti
C’è nella proliferazione delle monete complementari e/o alternative, sia pure di livello locale (o magari proprio per questo), qualcosa per cui le si possa avvicinare alle iniziative caratterizzate dal ‘prendersi cura’? E’ una domanda che volentieri vorremmo porre (non mancherà l’occasione) alla stessa Silvia Federici e alla quale tuttavia verrebbe a un primo esame da rispondere affermativamente. Le cose in realtà sono più complicate, come vedremo.
Breve parentesi: complicazioni o meno facciamo nostro l’invito di Federici a dare fiducia ai progetti sperimentali anche se non sono immediatamente di marca antagonista, ci interroghiamo, al di là della loro capacità di collegarsi con le molteplici realtà di movimento, se si muovono in un’ottica che riesca a far proprie anche istanze concrete provenienti dal mondo del lavoro cosiddetto di cura o riproduzione. Per non agitare solo problemi teorici richiamo ad esempio qui, anch’io come Romanò, l’esperienza della Ri-Maflow, la fabbrica milanese occupata e trasformata in un punto d’eccellenza del riciclo elettronico, che dunque pratica una logica rigenerativa delle risorse e che contemporaneamente in spazi liberati della fabbrica organizza un mercato permanente dell’usato, un laboratorio per il riuso di apparecchi elettrici ed elettronici, un Gas e un’attività di autoproduzione con prodotti del Parco agricolo Sud Milano e di SOS Rosarno (a cui fornisce una logistica alternativa alla grande distribuzione), una palestra, una sala musica, corsi, eventi culturali e spettacoli, un ostello per migranti e senza casa (più notizie qui ).
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Il teorema di Maastricht e la sua confutazione
di Davide Tarizzo
L’attuale strozzatura della vita democratica in Europa si può ricapitolare in un solo e unico teorema, che non si può ridurre al teorema dell’euro, già ampiamente smentito dai fatti, ma va identificato con il teorema di Maastricht, più inclusivo e insidioso del primo. In base a questo teorema, l’integrazione economica tra i vari paesi europei può essere disgiunta, come di fatto accade tuttora, dalla loro integrazione politica. Ciò implica una lunga serie di conseguenze che non erano difficili da prevedere: una delle più rilevanti è che paesi con discrepanti legislazioni sul lavoro saranno lasciati competere in un mercato unico, affidando al capitale la valutazione sulla legislazione più conveniente per il capitale stesso. I capitali tenderanno, di conseguenza, a concentrarsi là dove i salari sono meno tutelati, per incrementare i profitti, mentre i paesi in cui i salari sono più protetti tenderanno ad adeguarsi e ad abbassare le tutele sul lavoro, per recuperare competitività, in una spirale al ribasso senza fine. Questo processo è automatico e oggettivamente inevitabile se l’integrazione economica non è preceduta da, o associata a, una qualche forma di integrazione politica. È inevitabile perché le legislazioni nazionali sono così lasciate in balia del capitale, che tende automaticamente, necessariamente, oggettivamente a fare i propri interessi. È questo che chiamo il teorema di Maastricht.
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Michel Foucault e la critica dell’ideologia
I Corsi al Collège de France
di Orazio Irrera*
Nella lezione del 30 gennaio del suo Corso del 1980 al Collège de France Del governo dei viventi, Foucault ribadisce il suo rifiuto di analizzare «il pensiero, il comportamento e il sapere degli uomini» nei termini di un’analisi ideologica, aggiungendo che, praticamente ogni anno, durante ogni suo corso, egli è ritornato su questa esigenza di smarcarsi da una prospettiva segnata dall’ideologia, operando ogni volta un piccolo spostamento per conferire così alla sua critica nuove forme di intelligibilità1. Questa mobilità, così caratteristica del modo di condurre il proprio lavoro teorico, non deve tuttavia farci perdere di vista il fatto che se Foucault, nell’arco di circa un decennio, si è così insistentemente soffermato sulla critica dell’ideologia, è perché, presumibilmente, tale nozione rappresenta per lui – seppur negativamente – un nodo teorico e metodologico di grande rilevanza. Infatti attraverso tutta questa serie di considerazioni critiche sulla reale capacità esplicativa della nozione di ideologia, risulta possibile far apparire, quasi in filigrana al suo insegnamento, un percorso teorico che lo attraversa sotterraneamente dalla fine dall’inizio degli anni ’70 fino ai primi anni degli anni ’80.
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Antropomorfosi del capitale
di Sandro Moiso
Melinda Cooper e Catherine Waldby, Biolavoro globale. Corpi e nuova manodopera, DeriveApprodi 2015, pp. 254, € 18,00
Difficilmente Marx, quando scrisse le sue pagine sulla sussunzione reale di tutti i processi di produzione e valorizzazione delle merci all’interno del capitale e, quindi, della sua completa appropriazione di ogni attività umana, avrebbe potuto immaginare che si potesse giungere alla situazione affrontata dalla ricerca di Melinda Cooper e Catherine Waldby.
Un testo importante che induce, necessariamente, a rivedere gran parte della storia del lavoro in regime capitalistico e delle strategie messe in atto per mantenere nelle mani del capitale il comando sulla forza-lavoro, anche laddove si siano rese necessarie delle riforme “democratiche” per la sua gestione.
Una ricerca che, guarda caso, ha avuto modo di svilupparsi a partire dal mondo anglo-sassone, in cui il pragmatismo degli obiettivi da raggiungere impone il superamento dell’attività meramente speculativa e permette, perciò, di conseguire risultati concreti nella ridefinizione dei nuovi contesti operativi con cui l’antagonismo sociale si trova oggi a fare i conti. Svolta a partire dall’ambiente universitario di Sidney che ha aiutato significativamente, anche dal punto di vista economico, le due autrici, come le stesse tendono a precisare fin dai ringraziamenti.
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La conferenza ad Atene
di Jacques Sapir
Jacques Sapir racconta della conferenza organizzata ad Atene, che finalmente contempla in maniera esplicita la possibilità per la Grecia di uscire dall’euro. Questa conclusione pare obbligata in ogni caso, ma occorre che la politica si muova per evitare che essa avvenga in maniera conflittuale e disordinata. La conclusione del grande economista francese è che, per evitare catastrofi, l’Europa deve abbandonare la moneta unica al più presto
La conferenza organizzata dal settimanale The Economist sul rapporto tra la Grecia e i suoi creditori ha consentito una discussione molto franca sulla possibilità di un’uscita della Grecia dell’euro. Questa idea, pur se ancora provoca una sensazione di paura e di incertezza in una parte del pubblico, comincia ora ad essere molto più accettata. Un’ipotesi che è stata quindi discussa nell’ambito di questa conferenza è stata quella di un’ ‘uscita di velluto’ (velvet exit). Si noti il riferimento al processo di separazione tra la Repubblica Ceca e la Slovacchia, che a suo tempo fu chiamato “rivoluzione di velluto”. Il fatto che questa ipotesi possa essere discussa e valutata dai molti partecipanti a questa conferenza, sia greci sia stranieri, è un segno inconfondibile del progresso dell’idea di un’uscita dall’euro. Essa corrisponde a ciò che l’ex Presidente Francese, Valéry Giscard d’Estaing ha definito, alcune settimane fa, un “GREXIT amichevole”.
Questa conferenza ha riunito, sotto la guida della signora Joan Hoey, che dirige l’edizione locale dell’Economist, e che è anche una conosciuta analista della situazione locale, insieme al vice ministro degli affari esteri, signor Euclid Tsakalatos e a Nikos Vettas, direttore della Fondazione per la ricerca economica e industriale e professore di economia presso l’Università di Atene, vari accademici:
- Andreas Nölke, professore di economia e relazioni internazionali, dell’università Goethe di Francoforte.
- Henk Overbeek, professore di relazioni internazionali all’Università di Amsterdam.
- Giovanni Dosi, professore di economia e direttore degli studi economici presso l’Università di Pisa.
Oltre al sottoscritto.
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“Era necessario il capitalismo?”, di Hosea Jaffe
Un libro per chi?
di Pietro Piro*
Che noi siamo ancora vivi, questa è la nostra colpa.
K. Jaspers. La questione della colpa
I.
La tesi centrale del libro di Hosea Jaffe, “Era necessario il capitalismo?” è tanto chiara, quanto difficile da accettare. Per l’autore, infatti:
"Il capitalismo fu e resta il modo di produzione più distruttivo della storia umana." (H. Jaffe, Era necessario il capitalismo? Jaka BooK, Milano 2010, p. 154).
Ricostruendo la storia dell’umanità, l’autore smonta pezzo per pezzo, l’idea che il capitalismo sia la fase necessaria e inevitabile, di una storia umana sempre più improntata al miglioramento e al benessere degli individui. Il capitalismo è una forma distruttiva e altamente involutiva:
"Il modo di produzione capitalistico e la sua struttura sociale furono peggiori del modo di produzione comunitario, di quello schiavista e delle rispettive strutture sociali in termini di condizioni di vita, di sopravvivenza fisica, di condizioni lavorative, di possibilità di scelta personale, di libertà, di relazioni fra sessi, di coesione sociale, di cooperazione e socialità, salute, educazione, standard etici, libertà di culto, accesso ai prodotti di consumo, pace tra i popoli, rispetto degli altri. Sarebbe corretto sostenere inoltre che il capitalismo fu peggiore anche rispetto all’altro modo di produzione più diffuso, etnicamente inclusivo e universale, ovvero quello del dispotismo comunitario (…)." (ivi, p.30).
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