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L’Euro e la nuova fase della crisi sistemica*
Piero Pagliani
Da quando a sinistra si è iniziato a dibattere sulla necessità di uscire dalla moneta unica, sono cambiate molte cose. Siamo infatti entrati in una fase nuova della crisi sistemica che obbliga necessariamente a rivedere i termini della questione.
Innanzitutto, la questione dell’Euro non è mai stata posta solo a sinistra. Oggi non passa giorno che sui media mainstream non si legga una critica all’Euro e persino fondate motivazioni economiche per abbandonarlo.
Tuttavia, come ben si sa, il diavolo si nasconde nel dettaglio e lo schieramento anti-Euro è differenziato da più di un dettaglio politico. Allo stesso modo io non credo che i proclami contro l’austerity di Renzi o Hollande abbiano nulla a che vedere con la battaglia contro l’austerity condotta ormai da anni da alcune forze minoritarie della sinistra. Premesse differenti per conclusioni necessariamente differenti.. Si potrebbe, in linea puramente teorica, immaginare un variegato fronte anti-Euro solo se si pensasse che la moneta unica sia stata una distorsione che ha causato la crisi attuale. Ma l’Euro non ha causato la crisi sistemica attuale. Anzi, è stato un tentativo di risposta alla crisi sistemica ma, come vedremo, destinato al fallimento e a lasciare dietro di sé enormi danni.
La crisi sistemica attuale inizia a profilarsi alla fine degli anni Sessanta a partire dagli USA come crisi di sovraccumulazione. I capitali accumulati durante il “ventennio d’oro” del dopoguerra erano ormai troppi rispetto alla loro possibilità di impiego profittevole in commercio e industria e si intralciavano a vicenda.
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Un ventennio con Linux
Retrospettiva apertamente di parte
Francesco Reinerio
«I’m really honored to be the joint recipient of this year’s Millennium Technology Prize. This recognition is particularly important to me given that it’s given by the Technology Academy of Finland. Thank you to the International Selection Committee and the TAF Board. I’d also like to thank all the people I’ve worked with, who have helped make the project not only such a technical success, but have made it so fun and interesting.»
Linus Torvalds, classe ’69, un omone finlandese con gli occhiali e la riga nei capelli, sfoggiava il lontano 13/06/2012 a Helsinki un elegante frac, uguale a quello portato dal pinguino Tux di sua invenzione, la nota mascotte di Linux, e pronunciava queste ed altre dichiarazioni in perfetto inglese velato da inflessione scandinava.
Il Nostro era intento a ricevere il Millennium Technology Prize, noto volgarmente come “premio Nobel per la tecnologia”, in virtù del suo merito individuale nella creazione e rilascio continuo del kernel (it. nócciolo) di Linux, il nucleo in continuo aggiornamento che funziona, mediante innumerabili sistemi operativi, nel 5% di tutti i calcolatori esistenti a mondo, pari a circa 40 milioni – somma irrisoria numericamente rispetto a quella di macchine Microsoft, ma superiore qualitativamente: Linux conduce infatti da tempo nel mondo dei servers, ad esempio dei terminali di calcolo e di stoccaggio di scuole e università, ed è montato dai 5001 supercalcolatori più prestativi al mondo, grazie alla sua manovrabilità, stabilità ed apertura del suo codice, vale a dire trasparenza ed illimitata modificabilità.
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La sovversione fasulla di Sabina Guzzanti
Davide Grasso
“Siamo un gruppo di lavoratori dello spettacolo…” esordisce la regista nel suo ultimo film, La Trattativa. È attorniata da attori che vestiranno i panni di Enzo Scarantino, Vito e Massimo Ciancimino, Gaspare Spatuzza e altri protagonisti della stagione di segreti che dal 1992 (12 marzo, omicidio di Salvo Lima) arriva ai giorni nostri, con le polemiche politico-giudiziarie e il coinvolgimento del capo dello stato. “Siamo un gruppo di lavoratori dello spettacolo: tecnici, attori, registi” fu anche l’esordio di Gian Maria Volonté in Tre ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli, cortometraggio di Elio Petri del 1970, che tentò di ricostruire i contraddittori resoconti polizieschi sulla morte dell’anarchico milanese. Una citazione, un collegamento ideale: perché? Quattro anni di lavorazione, tutto il materiale girato all’interno di un teatro di prosa, gli scenari ricostruiti in digitale, La Trattativa è un film posticcio che esibisce il suo carattere di messa in scena reale e virtuale (“brechtiana”, dicono al Massimo), benché ambisca a ricostruire un mosaico di verità. Ma riesce ad essere all’altezza del suo stesso intento?
La messa in scena cinematografica parte dall’affresco di un’altra messa in scena, altrettanto accurata: come nel caso di Petri riguardo a Pinelli, è la messa in scena giudiziaria di un misfatto che l’autore della stessa rappresentazione (lo stato) ha commesso. Un ragazzo di quartiere del tutto ignaro, Enzo Scarantino, viene arrestato a Palermo alla fine del 1992, seviziato per mesi e torturato poco dopo l’uccisione del giudice Paolo Borsellino in via d’Amelio, affinché confessi la strage (cui non ha preso parte) e accusi altre cinque persone innocenti.
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La Cina e la posizione geostrategica dell'Italia
di Pasquale Cicalese
“Qui si aggiunge una seconda avvertenza, per l’Italia: la sua ritrovata centralità geografica equivale, in questo momento, a delicatezza geopolitica; e si somma alla nostra vulnerabilità economica. In queste condizioni, evitare una spaccatura fra l’Atlantico ed Eurasia è per l’Italia decisivo. Il nostro Paese rischia in effetti di essere, più che un crocevia, un incrocio pericoloso. Sulla nostra penisola, economicamente ancora dominata dai rapporti intra-europei, si scarica oggi l’impatto congiunto di quattro fattori esterni: i flussi di persone vengono principalmente dall’Africa; il gas viene anche e soprattutto dalla Russia ( oltre che dal Mediterraneo); nuovi investimenti finanziari vengono dalla Cina; la protezione militare viene ancora largamente dagli Stati Uniti. Africa, Russia, Cina, Stati Uniti. L’Italia non è solo sovra-esposta verso Est e verso Sud; è in sé un Paese di faglia. Di faglie, anzi. E ha alle spalle un’Europa che un tempo funzionava come vincolo ma anche come antidoto a collocazioni troppo incerte; oggi appare soprattutto un vincolo, che in qualche modo l’Italia è anzi spinta a forzare, sotto l’impatto della crisi economica, cercando sponde esterne.
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Ancora su Landini e ricomposizione di classe
Militant
Il dibattito suscitato intorno alla nostra riflessione sull’eventuale nuovo soggetto politico a sinistra del PD e guidato presumibilmente da Landini non va perso per strada. E’ importante chiarire alcuni passaggi del nostro articolo, e ancor più importante portare avanti una riflessione che per forza di cose non può esaurirsi in poche battute o pochi articoli. Per questo occorre precisare che: non stiamo appoggiando, né idealmente né tantomeno concretamente, alcun soggetto politico riformista o socialdemocratico; non abbiamo alcuna fiducia né in Landini né in quella dirigenza politico-sindacale che probabilmente comporrà il nuovo soggetto politico; la stessa fase politico-economica che stiamo attraversando rende impossibile la nascita di un sincero riformismo progressista, motivo per cui tale eventuale soggetto, anche laddove fosse animato dalle migliori intenzioni, si scontrerebbe con l’impossibilità di qualsiasi “riformismo operaio”. Queste considerazioni, ovvie per quanto ci riguarda, evidentemente vanno rimarcate visti i dubbi emersi dal dibattito seguito all’articolo. Detto questo, è necessario anche portare avanti un ragionamento che non può fermarsi alla mera opposizione al Landini di turno perché riformista, anticomunista e via insultando, perché non è certo oggi la fase in cui tali battaglie ideologiche riuscirebbero ad essere comprese al di fuori di chi le porta avanti, a costruire cioè opinione pubblica.
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L’imbroglio della disoccupazione di equilibrio
Nel progetto di bilancio inviato alla Commissione Europea il ministro Padoan ha contestato i calcoli dell’Unione europea sul PIL potenziale e la disoccupazione di equilibrio. Vediamo di cosa si tratta
Come è noto i paesi aderenti all’Unione Monetaria Europea devono rispettare rigide norme in materia di bilancio pubblico derivanti dal Patto di Stabilità e Crescita e dal più recente Fiscal Compact. In particolare essi devono assicurare il pareggio di bilancio “strutturale” come obiettivo di medio termine. La ratio della norma sarebbe la seguente: durante una recessione le spese aumentano (si pensi ai sussidi di disoccupazione) mentre le entrate diminuiscono (le imprese hanno meno profitti e i lavoratori meno redditi da tassare). I calcoli sul bilancio pubblico nel medio termine in rapporto al Pil vengono “aggiustati” tenendo conto del ciclo economico e si ammettono delle temporanee deviazioni. Per tenere conto del ciclo, invece del Pil attuale si prende come riferimento il Pil potenziale, cioè il Pil che si avrebbe se tutte le risorse produttive (capitale e lavoro) fossero pienamente impiegate nella produzione. Poiché il Pil potenziale è sicuramente maggiore di quello attuale durante una recessione, il rapporto così calcolato risulta minore. In questo modo, durante una recessione, i governi hanno un piccolo spazio fiscale aggiuntivo, mentre durante un’espansione devono ridurre la spesa o aumentare le tasse per “raffreddare” l’economia. A prima vista sembra una regola accettabile, persino keynesiana. Ma nei fatti le cose stanno diversamente.
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Renzi e la traballante stabilità dei numeri
Paolo Cardenà
«La piú grande riduzione di tasse mai avvenuta» (citando il presidente del Consiglio Renzi, in conferenza stampa di presentazione della Legge di Stabilità)? Sicuri? O, forse, solo la piú grande manipolazione di numeri dati in pasto all’opinione pubblica? Approvata nella riunione del Consiglio dei Ministri mercoledí 15, il testo era atteso il lunedí successivo al Colle; è giunto solo martedí, e senza la «bollinatura» della Ragioneria Generale dello Stato, apposta solo il giorno successivo. Nel frattempo, le tabelle allegate, i numeri e alcune formulazioni lessicali sono stati modificati (e probabilmente non riapprovati, ma questo — per molti, non solo politicanti di professione — parrebbe quisquilia). Poi interviene la Commissione Europea nel chiedere chiarimenti (e nel fare la parte del «cattivo»); nel frattempo, qualche commentatore isolato, qua e là, sulla stampa e su Internet, osa contestare quei numeri; infine, quasi a voler limitare i danni, interviene il MEF, che sul suo sito pubblica una tabella dei saldi della manovra, definitiva (o quasi).
Già, perché a questo punto della storia, e siamo a giovedí della settimana successiva all’approvazione, quello dei numeri è diventato un vero e proprio rebus. Il Ministero riassume la manovra, precisando che il bonus degli 80 euro è statisticamente classificato quale maggiore spesa, nonché quantificando interventi totali per 36,2 miliardi d’euro, suddivisi in minori entrate lorde per 14,7 miliardi, maggiori spese correnti per 16,3 miliardi, e maggiori spese in conto capitale per 5,2.
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Geopolitica dei trattati di libero asservimento
Pierluigi Fagan
La prima globalizzazione è finita. Scambi e flussi di tutti con tutti non hanno funzionato come dovevano, almeno secondo le intenzioni del principale promoter, gli USA. Si è trattato di un’enorme trasferimento di ricchezza dai paesi ricchi a quelli poveri ma contemporaneamente, nei paesi ricchi già provati dall’emorragia verso quelli emergenti, si è creata una dinamica di trasferimento di ricchezza dalle classi povere e medie a quelle già ricche, diventate super-ricche. Così in ogni comparto produttivo, dalle imprese piccole e medie a quelle grandi e grandissime e a livello di settori dall’economia, dall’industria ai servizi e più in generale, dalla produzione e scambio alla banco-finanza. Queste élite (super-ricchi, multinazionali, banco-finanza) si sono strette in una cerchia mondiale di detentori di capitali che succhiano valore dalle comunità, dalla natura e dal risparmio e poi si trasferiscono denaro l’un l’altro, all’interno del vorticoso circolo della nuova finanza, borse e paradisi fiscali. Una circolazione di ricchezza per lo più apparente, alimentata dalla continua immissione di dollari nel circuito, ad opera della banca centrale americana e da tutti i potenziali creatori di debito (titoli, emissioni speciali, obbligazioni, derivati, prestiti al consumo, carte di credito etc.).
Ma non è questo che non ha funzionato poiché questo era proprio il preciso obiettivo della strategia sottostante, il problema principale della prima globalizzazione, è stato quello di aver allevato dei minacciosi competitor, inizialmente economici, poi finanziari, poi valutari, poi politici.
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Il Capitale e i suoi utili idioti: la signorina Nappi
Diego Fusaro
In calce la replica di Valentina Nappi
Non mi stancherò mai di ripeterlo: viviamo nel tempo dell’identità in atto di destra e sinistra, due falsi opposti che oggi veicolano lo stesso contenuto. E tale contenuto è l’adesione supina al monoteismo del mercato e la stolida accettazione dell’ordine imperiale USA. Destra e sinistra si rivelano interscambiabili, facendo del neoliberismo oggi dominante un’aquila a doppia apertura alare: l’anticomunitaria e globalista “Destra del Denaro” detta le regole econonomico-finanziarie tutelanti gli interessi della global class post- e anti-borghese, mentre la “Sinistra del Costume” fissa i modelli e gli stili di vita funzionali alla riproduzione del sistema dell’integralismo economico (godimento individualistico, relativismo, laicismo assoluto, abbandono dell’anticapitalismo come ferrovecchio, ecc.). La “Destra del Denaro” decide che occorre privatizzare tutto, rimuovere i diritti, abbassare gli stipendi, tagliare la spesa pubblica, sempre in nome del sacro dogma “ce lo chiede il mercato”. Dal canto suo, la “Sinistra del Costume” dal Sessantotto ad oggi opera sul piano sovrastrutturale: se la “Destra del Denaro” rende i giovani precari fino a settant’anni, quando non direttamente disoccupati e impedisce loro di farsi una famiglia, ecco che la “Sinistra del Costume” e i suoi utili idioti al servizio del re di Prussia starnazzeranno dicendo che la famiglia è una forma borghese superata e che la precarietà è buona e giusta.
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Foucault(s)
di Sandro Chignola
Pubblichiamo la versione italiana dell’intervento di Sandro Chignola al Colloque International “Foucault(s) 1984-2014″ (Paris, 19-21 mai 2014), in occasione dell’uscita del suo Foucault oltre Foucault. Una politica della filosofia (Derive Approdi, Roma, pp. 208).
Il mio intervento sarà molto breve come mi è stato richiesto. Intendo mettere a tema – e mi scuso se posso farlo solo in modo molto diretto e brusco – una serie di questioni che riguardano Foucault, la sua filosofia, il rapporto che essa intrattiene con le scienze sociali.
Procedo per punti. Il primo: io credo si debba lavorare l’archivio dei testi foucaultiani con molta attenzione ed evitando un doppio rischio. Da un lato quello di fare di Foucault un Autore: un rischio che è evidentemente radicato nella nuova ondata degli studi foucaultiani e che viene sospinto dalla incessante pubblicazione di testi, corsi, materiali ed inediti che vengono offerti all’interpretazione degli studiosi. Operazione importante, certo, quest’ultima – non intendo affatto negarlo – e che ha permesso, in particolare in Italia, di sottrarre Foucault all’oblio cui era stato frettolosamente consegnato già sul finire degli anni ‘70. Ma operazione che, almeno a mio avviso, può però, per una paradossale eterogenesi dei fini, concludersi con il «monumentalizzare» Foucault riducendolo ad un semplice capitolo di una storia della filosofia rinsaldata nel suo accademicismo.
Dall’altro, e mi sembra un rischio altrettanto importante, quello di ab-usare della filosofia di Foucault, estrapolandone stili e formule per farne un uso altro: non improprio, perché un suo proprio non c’è, ma forzato rispetto alla scelta foucaultiana di fare comunque filosofia senza abbandonare o decretare l’inutilità di quest’ultima a favore di altri campi di indagine o di altre discipline. Mi riferisco, ovviamente, al modo nel quale Foucault viene talvolta usato, e, beninteso, seguendo indicazioni da lui stesso date in alcune occasioni, nel campo delle scienze sociali ed umane.
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Cronologia della crisi 2007-2012
Come la shockterapia dell'euro fu introdotta in Europa
Mario D’Aloisio
Quella che segue è una fedele e precisa ricostruzione della “crisi” nel quinquennio 2007-2012.
Lo sanno anche i muri, oramai.
La storia dell’euro è inizialmente quella di un accumulo spropositato di debito privato, soprattutto estero, nei paesi investiti dal fenomeno del credito facile, il preludio all’esplosione di una bomba ad orologeria.
Credito per lo più tedesco e francese, elargito senza problemi, dietro la garanzia del cambio fisso, quello che non si svaluta ed assicura il creditore. Ma per il “sudden stop”, l’arresto improvviso del flusso di capitali, era solo una questione di tempo.
In molti ne avevano pregustato gli effetti disastrosi che avrebbero reso il politicamente impossibile, di friedmaniana memoria, politicamente inevitabile. Sicché, quando Lehman Brothers saltò per l’aria, portandosi dietro le banche di mezzo mondo, la shockterapia dell’euro ebbe modo di consolidarsi nella sua accezione più devastante e fulminea.
Passi rapidi, anzi rapidissimi, che colsero di sorpresa milioni di cittadini europei. Di lì a poco l’Europa non sarebbe stata più la stessa.
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Sinistra, sovranità nazionale, socialismo*
di Mimmo Porcaro
Abbiamo organizzato questo convegno perché riteniamo che da qualche tempo, nell’ambito di una parte della sinistra, iniziano a presentarsi alcune idee nuove, o comunque inusuali.
La prima è che esiste un divario ormai insuperabile tra le esigenze dei lavoratori, e dell’intero paese, e le risposte dei gruppi dirigenti italiani, inclusi quelli di una sempre più sparuta sinistra, divisa tra subalternità e minoritarismo.
La seconda è che le ragioni dell’inefficacia della sinistra stanno anche nell’incapacità di affrontare alcuni nodi strategici decisivi, che io ora proverò ad indicare dandone, ovviamente, un’interpretazione personale che però so non essere del tutto diversa da quella dei nostri interlocutori.
1
L’epoca in cui viviamo è ormai chiaramente quella dello scontro tra potenze mondiali, e questo scontro determina e determinerà sempre di più i tempi e i modi dello stesso conflitto di classe. Di fronte ad un tale scontro non sembra più sufficiente invocare la pace, ma è necessario costruire, per l’Italia e l’Europa, una posizione di neutralità attiva che si identifica con un allontanamento dagli Stati Uniti e un avvicinamento ai Brics.
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Le pillole amare del Jobs Act
Andrea Fumagalli
1. Sarebbe troppo facile paragonare la promessa di 800.000 posti stabili di lavoro del Ministro Padoan (grazie al Jobs Act) con l’analoga promessa (di poco superiore) di un milione di posti di lavoro fatta da Berlusconi esattamente 20 anni fa. L’analogia non sta solo nei numeri ma soprattutto nella non corretta informazione (quindi mistificazione) degli strumenti che si vorrebbero utilizzare per raggiungere l’obiettivo dichiarato.
2. Berlusconi all’epoca aveva affermato che era sufficiente che un imprenditore su cinque assumesse una persona e immediatamente si sarebbero creati un milione di posti di lavoro. Una banale constatazione che aveva il suo appeal comunicativo (ed elettorale) se il futuro nuovo governo operava a favore dell’economia di mercato e della stessa attività imprenditoriale, in un contesto di espansione economica. E infatti l’argomentazione ebbe il risultato sperato, mettendo in un angolo le scarse contro-argomentazioni dell’allora avversario Achille Occhetto. Peccato che nessuno (e men che meno Occhetto) aveva fatto rilevare che in Italia gli imprenditori non erano 5 milioni, ma solo 400.000 e quindi se uno su cinque (il 20%) assumeva una persona il massimo dell’occupazione possibile era di 80.000 unità. Per imprenditore si intende infatti colui che ha tre gradi di libertà (seppur vincolata): libertà di decidere come, quanto e a che prezzo produrre.
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C’è qualcuno che può rompere il muro del suono…
Clash City Workers
Così canta Ligabue nel suo ultimo pezzo, scritto proprio pensando alle tante proteste di questi anni… E così dobbiamo cantare anche noi. Perché in questo paese sta succedendo qualcosa. Qualcosa che, nonostante le televisioni di regime, nonostante non abbia ancora molta presenza mediatica, sta riuscendo a rompere il “muro del suono”.
Quel muro che troppo spesso consegna al silenzio la vita di milioni di persone che soffrono e lottano perché hanno perso un lavoro, perché il lavoro non ce l’hanno, perché lavorano troppo e male…
Sta succedendo qualcosa, dicevamo. Scioperi spontanei e tante vertenze attraversano il paese. A Torino migliaia di operai sono scesi in piazza, a Bergamo hanno contestato Confindustria e Renzi, a Terni hanno fischiato le dirigenze sindacali e bloccato le strade (abbiamo fatto riferimento solo a qualche esempio recente, attraverso il nostro sito raccogliamo ogni giorno testimonianze di centinaia di lotte – piccole o grandi – che fioriscono spontaneamente e che aspettano solo di essere messe in connessione). Per non parlare dei movimenti studenteschi che hanno preso le strade il 10 ottobre, il 16 in occasione dello sciopero della logistica, il 24 per lo sciopero del sindacato di base, o delle contestazioni al Governo che da Palermo a Milano sono arrivate a scontrarsi con le forze dell’ordine.
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Occupare le fabbriche?
di Guido Viale
Occupare le fabbriche, come prospettato giorni fa dal segretario nazionale della FIOM? La manifestazione del 25 ottobre potrebbe essere un punto di partenza. Sarebbe, da un lato, una risposta forte a una politica che non contempla alcuna soluzione credibile per sostenere sia l’occupazione generale che quella delle aziende in via di dismissione. Dall’altro, gli impianti occupati potrebbero diventare un punto di riferimento per aggregare le tante forze disperse nei territori che si oppongono alla devastazione dell’occupazione, dei redditi, dell’ambiente, della scuola, dei beni comuni, dei servizi pubblici, della convivenza civile; di tutte le cose a cui ci obbligano a rinunciare i vincoli europei che Renzi ci impone.
Molte delle imprese medio-grandi in crisi sono il frutto di quegli investimenti esteri che per il Governo dovrebbero far “ripartire” l’Italia e che invece si sono rivelati e si stanno rivelando la fossa dell’apparato produttivo e dell’occupazione del paese: basta ricordare, accanto a quello della AST di Terni, nomi come Alcoa, Sevestal, Jabil, Nokia, Alstom, Maflow e, prossimamente, Ilva (dato che chi la comprerà lo farà solo per mettere i piedi in Europa, acquisirne il mercato e abbandonarla al destino che le è stato assegnato fin da quando ai Riva è stata data mano libera per spremere uomini, impianti e città fino al loro totale esaurimento. E la Fiat (ora FCA) non è da meno.
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La fortuna del socialismo nella Germania del novecento
Dibattito sulla storia dei rapporti tra capitale e lavoro
Peter Kammerer
1. Cantare
La parola “socialismo” è diventata incomprensibile. Porta con sé e comunica altre cose; ha cambiato contenuto. Che significato può avere la parola “produttori” in un mondo che conosce solo consumatori? L’espressione “proletario” è oggi ridicolizzata, ma sono scomparsi i soggetti, le masse che un tempo venivano così definiti? È ormai senza nome la parte dell’umanità che vive solo grazie a un lavoro dipendente? Dipendente da cosa e da chi? Il concetto di “socialismo” si è svuotato o, meglio, nel suo spazio abbandonato sono vagamente riconoscibili relitti di ogni genere e ad essere esposti in primo piano sono i suoi orrori.
Una condizione che mi ricorda il mio amore giovanile per il canto popolare tedesco. Dopo la guerra in Germania non c’erano più canzoni innocenti: ogni testo, ogni melodia era compromessa dal nazismo e dai suoi orrori. Come potevo cantare Muss i denn, muss i denn zum Städtele hinaus (“devo dunque lasciare questa città e tu, tesoro mio, rimani”) sapendo che gli ebrei rastrellati dovevano intonare questa canzone nella loro marcia verso la morte? Ci voleva il ’68 per far cantare nuovamente i tedeschi, ma preferivano Bandiera rossa e Bella ciao in lingua italiana. La mia voce era stata liberata già anni prima da Marlene Dietrich. Sentivo su un vecchio disco il suo Muss i denn, muss i denn registrato negli USA nel 1951 come “old german folk song”. E sempre dagli USA nel 1960 Elvis Presley, appena concluso il suo servizio militare in una piccola città della Germania, lanciava verso un successo mondiale la stessa canzone trasformata in Wooden heart.
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Il modello dell'Euroeccesso
di Thomas Fazi
Il surplus europeo delle partite correnti è il più grande surplus mai generato nella storia dei mercati finanziari globali. Un recente rapporto di Deutsche Bank spiega perché questo rappresenta un serio pericolo. Per l’Europa, ma anche per il resto del mondo
Per la Germania, il suo enorme surplus commerciale – il più alto al mondo – è un motivo di orgoglio nazionale. La dimostrazione della superiorità del suo modello economico. Ma, come ormai sostengono anche vari economisti tedeschi (vedi il mio recente articolo sul tema, Germania: il vero malato d’Europa), si tratta di una pericolosa illusione: il “miracolo” delle esportazioni tedesche non è tanto da imputare a una maggiore “produttività” o “efficienza” del sistema tedesco, quanto piuttosto a una ferrea politica di compressione dei salari e della domanda interna che ha permesso al paese di acquisire un vantaggio competitivo rispetto ai suoi partner europei. E al fatto che gli altri paesi del continente non hanno seguito la stessa politica salariale, ma hanno invece mantenuto un livello di domanda tale da poter assorbire le esportazioni tedesche, accumulando così ampi disavanzi commerciali. Anche in virtù di bolle speculative alimentate proprio dal settore finanziario tedesco, che hanno permesso ai consumatori di questi paesi di continuare ad importare prodotti della Germania.
Da cui si evince quanto sia fallace l’idea che il “modello tedesco” possa rappresentare un modello per l’eurozona o per l’Europa nel suo complesso, poiché risulta evidente che esso può funzionare solo se c’è qualcuno che si fa carico di trainare le esportazioni, stimolando la domanda interna.
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Anacronismi: due Pd che mimano lo scontro accompagnando il declino del paese
nique la police
Cosa è più vecchio nella contrapposizione tra la Leopolda e piazza San Giovanni? Apparentemente, specie in trasmissioni a reti unificate, la manifestazione di piazza San Giovanni, il cui sapore vintage è consapevolmente alimentato da alcuni protagonisti. Ma anche qui occhio allo stile: il vintage è una ricombinazione del passato, una rilettura. Il passato passato, quello che dissolve le mitologie, se si assumessero ancora storiografi che lo leggono, ci racconterebbe storie diverse. Ad esempio, su chi ha realmente conquistato diritti durante l’autunno caldo e nelle stagioni in cui firmare i contratti nazionali significava ottenere davvero qualcosa. Ma il punto più importante qui è un altro: lo scontro Leopolda-San Giovanni non trova affatto la cordata di Renzi come novità, e carico di rottura e il resto come conservazione. O meglio, questo tipo dialettica la troviamo già chiara negli anni ’80, prima ancora dello scioglimento del Pci, in quella che convenzionalmente viene chiamata la sinistra italiana. La stessa mitologia di Apple, ostentata da Renzi in tutte le Leopolde compresa questa da premier, affonda le radici nell’epoca del primo desktop per ampie fasce di consumatori che è del 1981. E qui, magari, invece di fare il primo premier europeo in assoluto a fare da testimonial al capitalismo tecnologico californiano magari Renzi potrebbe sfogliare più attentamente il Financial Times, oltre che a farci le interviste, o farselo raccontare meglio: Iphone 6 e 6 plus, e i prodotti Apple in generale, sono inadatti per il vero mercato smartphone e tablet del futuro, quello indiano. Ma se Renzi ha lo stesso rapporto con l’iconologia statunitense di Alberto Sordi in Un americano a Roma, poco male. Ci si diverte.
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Giù nel Calderone? La nuova Guerra Fredda
a cura di: Ezio Bonsignore
“Le nazioni scivolarono oltre l’orlo, giù nel calderone bollente della guerra, senza la minima traccia di timore o di sgomento…”David Lloyd George, Primo Ministro del Regno Unito (1916-1922)
Tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014, con l’approssimarsi del centesimo anniversario dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, molti commentatori e analisti tracciavano dei paralleli tra l’intrico di rivalità imperialiste, opposti revanscismi e velenosi nazionalismi che portò l’ Europa al suicidio nel 1914, e il crescente rischio di conflitti tra i paesi rivieraschi del Mare della Cina Meridionale per il controllo delle preziose risorse naturali della regione. Questi paralleli partivano tutti dal presupposto che situazioni del genere riguardassero, appunto, soltanto dei paesi remoti ed “estranei”, mentre l’ Occidente poteva tranquillamente continuare a condurre il suo modello brevettato di imprese militari neo-colonialiste (vedasi “interventi umanitari”, “operazioni di appoggio alla pace”, “guerra al terrorismo”, “responsabilità di proteggere”), senza correre alcun rischio diretto.
Ma poi è venuta la crisi dell’Ucraina (più esattamente, “in” Ucraina) a ricordarci che pur se le cause profonde delle guerre “vere” risiedono sempre nelle rivalità strategiche, economiche e geopolitiche tra le Potenze, Lloyd George aveva ragione: la scintilla che dà fuoco alla polveri viene spesso fornita da gravi errori di calcolo, terribili passi falsi, totale incapacità di comprendere le motivazioni dell’avversario e di prevederne le reazioni e, soprattutto, arrogante convinzione della propria assoluta superiorità – hubris, per dirla con i Greci. Questo è ciò che avvenne ai paesi europei nel 1914, e questo è dove siamo oggi: sull’orlo del calderone bollente della guerra.
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Art. 18 e dintorni
di Giuliano Cappellini*
A quali condizioni del lavoro si riferiscono le riforme di Renzi?
Se nel nostro paese gli imprenditori si fossero conformati da molto tempo ad una prassi di rispetto della dignità del lavoratore e, dunque, non usassero l’arbitrio nei licenziamenti individuali, si potrebbe pensare che l’articolo 18 è una norma obsoleta che potrebbe essere cancellata, non foss’altro che per rispetto ad una categoria (gli imprenditori) di cittadini coscienziosi. Ma la realtà è un’altra ed il degrado raggiunto nei rapporti reali di lavoro dovrebbe essere ormai monitorato da un’apposita indagine conoscitiva parlamentare, sia perché l’ultima1 si riferisce alle condizioni del lavoro subordinato di circa 50 anni fa, sia perché senza un’indagine conoscitiva, la riforma Renzi che cancella l’art. 18 sembra rispondere solo ad una paranoia ideologica.
Spunti per ricomporre un quadro da una lista largamente incompleta
Volendo, tuttavia, ricostruire il quadro delle condizioni di lavoro nel nostro paese, i molti ma dispersi dati su quelle odierne e anche le evidenze empiriche, per la grande varietà dei casi che presentano, suggeriscono che sarebbe meglio non cercare definizioni sintetiche, categorie tipologiche cui assegnare delle cifre statistiche.
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L’economia politica della promessa
Marco Bascetta
Il lavoro gratuito è uno dei pilastri che consente l’accumulo di profitti e rendite nell’università, nei media, nell’editoria. Tutto in cambio del miraggio di un futuro migliore
Tra la politica e la promessa vi è un rapporto di immediata contiguità quando non di pura e semplice sovrapposizione. Un programma politico, nel crepuscolo della rappresentanza e nella stagione del leaderismo rampante, non è in fondo altro che una sequenza di promesse disposte lungo un percorso che dovrebbe condurre alla loro realizzazione. Ma se ci spostiamo sul terreno dell’economia, mantenendoci fedeli ai suoi principi, è un’altra dimensione a occupare il centro della scena: quella della scommessa, della previsione sul futuro. Un’attesa di guadagno, di espansione, di crescita che comporta però una buona dose di azzardo. Un rischio che corrisponde a un valore. Quanto maggiore è il rischio tanto maggiore sarà il guadagno se le cose dovessero andare per il verso giusto. È in riferimento a questa dimensione, sviluppata oltremisura dal capitalismo finanziario, che è stata coniata l’espressione capitalismo-casinò.
Anche se, contrariamente a quanto accade nelle case da gioco, a pagare la «malasorte» e ad accumulare i guadagni raramente saranno le stesse persone. Tuttavia, quando la scommessa economica viene spesa sul mercato politico prefigurando la riconquista della «competitività» e del benessere, il rilancio dell’occupazione, dei consumi e dei redditi, si ritorna per via diretta al linguaggio della promessa. Le incertezze dell’azzardo scompaiono d’incanto per lasciar posto alla rassicurante sicumera della politica, impermeabile a qualsivoglia indicatore negativo. L’ottimismo è un dovere patriottico anche se non sempre condiviso dai mercati. Come che sia, in politica così come in economia, la promessa agisce da fattore produttivo di consensi, di investimenti o di entrambi. La vendita del futuro rende denaro immediato.
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Il Dottor Stranamore nel deserto
di Piotr
Capire il nuovo puzzle della guerra in Medio Oriente: un gioco pericoloso come lo era l'invasione tedesca della Polonia, stavolta con ISIS e altri giocatori

Prima morale: attenzione, molta attenzione, all'uso di dicotomie come "progresso/reazione", "fascista/antifascista", "civile/incivile" e così via.
Dopo questi preliminari passiamo al dunque.
Con tutti i loro bombardieri supertecnologici, e fuorilegge secondo il diritto internazionale, i bombardamenti degli Usa "contro l'ISIS" hanno come bilancio: alcuni edifici preventivamente evacuati dagli jihadisti, alcune distese di deserto, 14 jihadisti, numerose infrastrutture siriane e un numero molto alto di civili. Thierry Meyssan ha calcolato in base alle cifre ufficiali, che parlano di 300 jihadisti uccisi, una media di 13 missioni aeree (tredici!) e un numero imprecisato di bombe e missili per uccidere un singolo jihadista. Il tutto su un terreno dove è praticamente impossibile nascondersi.
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Alienazione, reificazione e feticismo della merce
di Anselm Jappe
Al tempo della Seconda Internazionale (1889-1914), la teoria di Marx venne trasformata in un'ideologia centrata sulla "lotta di classe" e sulla rivendicazione di una diversa redistribuzione del plusvalore. Da allora, si è continuato ad usare le analisi di Marx essenzialmente con quest'obiettivo: ottenere una maggiore giustizia sociale. Nella sua formulazione classica, il soggetto storico di queste rivendicazioni corrispondeva alla classe operaia, assimilata essenzialmente, in questo caso, al proletariato industriale.
Negli ultimi decenni, tale schema è stato frequentemente applicato in una nuova forma, facendo riferimento ad altre figure dello sfruttamento e del dominio (i poveri del "Terzo Mondo", i "subalterni", le donne). Tuttavia, si può osservare che, in tutti questi casi, non è il vero e proprio contenuto della riproduzione capitalista ad essere messo in discussione, ma piuttosto l'accesso ai suoi risultati. Il valore ed il denaro, il lavoro e la merce non vengono lì concepite in quanto categorie negative e distruttrici della vita sociali. Eppure, era questo che Marx aveva svolto nel nucleo della sua critica dell'economia politica, così come lo aveva sviluppata, soprattutto nella prima sezione del Capitale.
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La razionalità dell'1%
Pierluigi Fagan
Il capitolo 91 del Capitale del XXI° secolo di T. Piketty, si sviluppa come ricerca sulle diseguaglianze specifiche dei redditi da lavoro. Piketty rileva che tali diseguaglianze hanno due caratteristiche: a) si sono prodotte vistosamente nelle società anglosassoni (Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Australia); b) si sono prodotte marcatamente a partire dagli anni ’80.
Questo 1% di super-retribuiti, incide per circa il 18% del totale monte redditi in USA e per circa il 15% nel Regno Unito. In Europa continentale e Giappone, questa incidenza è inferiore e soprattutto non è legata così marcatamente ad un trend temporale. Questi super-retribuiti, comunque meno super, che compongono l’1% delle élite del reddito europeo, esistono dagli anni ’50, poi flettono un po’ ed infine tornano a quelle percentuali dal 2000 al 2010. I paesi emergenti invece, sempre a livello di 1% più ricco, non arrivano alle percentuali di incidenza degli americani (ma il Sud Africa che ha una forte componente anglosassone, quasi), ma condividono la stessa dinamica temporale, ovvero il rapido e costante incremento a partire dagli anni’80.
Se passiamo dal centile (l’1%) al millile (l’1 per mille, quindi la cuspide dell’élite, ovvero lo 0,1%), tutte queste tendenze si confermano ed anzi, si acuiscono. Per il decile (il 10% più retribuito) l’incidenza totale delle loro retribuzioni, corrisponde al 47% del reddito nazionale negli USA, 30%-35% per Francia e Germania che era la stessa percentuale degli anglosassoni prima degli anni’80 cioè prima che iniziasse la divergenza.
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Partire dal lavoro per rimettere in moto l’economia
Luigi Pandolfi
Crisi, crescita, occupazione. E’ il trinomio che va per la maggiore nell’analisi della “situazione reale” oggigiorno. C’è da chiedersi, però: qual è l’effettiva relazione tra i tre termini? Viene prima la crescita e poi, di conseguenza, l’occupazione oppure è la stessa occupazione che può innescare processi di crescita? Ancora: c’è sempre una correlazione funzionale tra crescita ed occupazione oppure si può avere crescita senza occupazione? Domande non retoriche, che rimandano alla speciale situazione che ha generato la grande crisi in cui ancora siamo immersi ed a questa nuova fase del capitalismo nei paesi cosiddetti avanzati.
Se ci riferiamo, nello specifico, ai paesi Ue o, per ragioni di ulteriore omogeneità fiscale, a quelli dell’Eurozona, non c’è dubbio che diverse politiche pubbliche, espansive, avrebbero potuto, già nel breve periodo, favorire un incremento apprezzabile della ricchezza nazionale, quindi anche dell’occupazione. Ipotesi non scontata, tuttavia, soprattutto se ci si riferisce al recupero dei posti di lavoro persi negli ultimi anni[1] (jobless recovery). Ci sono fattori, come l’innovazione tecnologica, l’aumento della produttività del lavoro, le delocalizzazioni produttive, cambiamenti nella struttura produttiva di un paese indotti dalla stessa crisi, disallineamenti tra domanda ed offerta di lavoro, che, da questo punto di vista, potrebbero agire da freno ad una ripresa occupazionale anche in presenza di una crescita dell’economia.
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