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Dugin contro la fine
La Quarta Teoria Politica. I
di Nicola Licciardello
Italia oggi così ubriaca per il crollo d’affluenze ai referendum, e per il crollo di Lega e 5 stelle alle comunali, da quasi dimenticare la guerra della gloriosa Ukraina, la carestia mondiale dovuta al sanguinario Putin, come pure i balletti di Ursula e il Drago. Mentre il quasi premio Nobel per la Pace Zelensky piange per le armi promesse e non mantenute, o per non saperle usare, i russi sparano su chi non è ancora scappato fuori dai velenosi rifugi del Donbas, tanto che qualcuno di “Storia Segreta” (Sinistra in Rete 14 giugno) si spinge a decretare che La guerra è finita e che la Russia ha vinto. Situazione tuttora virtuale, ma certo probabile e conseguenziale.
E se “Storia Segreta” non esita a indicare in due esponenti della lucidità ebraica, Carlo De Benedetti ed Henry Kissinger, gli autori che per primi hanno definito la presente guerra dell’Occidente contro la Russia un “errore strategico” – in primis per l’ovvia conseguenza di favorire un’alleanza Russia-Cina, poi per l’incompetenza valutaria (il rublo, agganciato all’oro, premiato sul dollaro) infine per l’eccessivo squilibrio geopolitico di un’Europa occidentale succube della Nato – c’è chi aveva previsto alla lettera gli attuali eventi bellici, in effetti da Putin assai posticipati rispetto al 2014: si tratta di Aleksandr Dugin, “tradizionalista” moscovita e grande ammiratore della storia d’Italia, di cui parla anche la lingua.
Nella Prefazione all’edizione italiana (2020) de La Quarta Teoria Politica (forse il suo trattato più organico) Dugin infatti mostra una conoscenza anche della filosofia italiana contemporanea. Di Massimo Cacciari, ad esempio, riferisce su quel problematico ma suggestivo Geofilosofia dell’Europa (1994) che ribadiva il destino di un’Europa Arcipelago[1], mentre di Giorgio Agamben elabora una geniale lettura ‘sincretica’, in cui la “vera natura politica della Modernità è la nuda vita del lager”.
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Recensione di “Contro la sinistra neoliberale” di Sahra Wagenknecht
di Leandro Cossu
…Unsere Parolen sind in Unordnung. Einen Teil unserer Wörter
Hat der Feind verdreht bis zur Unkenntlichkeit…
Bertolt Brecht
Baizuo, radical chic, gauche caviar. Ogni lingua ha oramai un’espressione per descrivere l’ideologia dei vincitori della globalizzazione: un guazzabuglio melenso di multiculturalismo, ambientalismo e identity politics che, dietro la maschera di una tolleranza benevola, nasconde la propria natura classista ed essenzialmente neoliberale. Ora, la critica a questo tipo di posizioni rischia di sfociare in un moralismo spicciolo (e nei casi estremi nella reazione) se si accetta di decostruire queste posizioni rimanendo nel campo morale e post-ideologico dell’avversario. Le domande da porsi, in realtà, sono diverse. Qual è la relazione tra questa narrazione e il sostrato economico? Quali sono i suoi meccanismi di propagazione ideologica? C’è un rapporto con lo scivolamento a destra di un elettorato che tradizionalmente si riconosceva nell’altra parte del quadrante politico?
Sahra Wagenknecht, già leaderdel gruppo parlamentare del partito Die Linke di Germania, prova a dare una risposta a queste domande nel suo libro Contro la sinistra neoliberale, uscito nel 2021 in tedesco e tradotto quest’anno in italiano per Fazi Editore (20 €), con una preziosa introduzione di Vladimiro Giacché. Il titolo, oltre a non rendere giustizia all’originale tedesco (cioè Die Selbstgerechten, letteralmente “i pieni di sé”, “gli autocompiacenti”) è fuorviante. Il libro è diviso in due parti: più o meno, una prima pars destruens, il cui oggetto di discussione è la figura, appunto, del liberale di sinistra; e una pars costruens, in cui a partire da alcuni nuclei problematici, l’autrice abbozza un programma per un partito che volesse riportare la parola sinistra, almeno in Germania, al suo significato tradizionale ed economico.
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La BCE all’assalto dei salari
di coniare rivolta
Parte I
La Banca Centrale Europea (BCE) ha annunciato, giovedì 9 giugno, una storica virata nella politica monetaria dell’area euro. Due sono i profili di questa manovra monetaria che invertono la rotta avviata con la crisi dei debiti pubblici degli anni Dieci: l’aumento dei tassi di interesse e la fine degli acquisti diretti di titoli pubblici da parte della banca centrale.
Dopo undici anni di ribassi continui, la BCE ha annunciato che a luglio tornerà ad aumentare i tassi di interesse. Tra i compiti fondamentali di una banca centrale c’è la definizione del cosiddetto costo del denaro, ossia il tasso di interesse che le banche commerciali pagano alle banche centrali per prendere a prestito il denaro di cui hanno bisogno per il loro regolare funzionamento. La BCE, fissando i tassi di interesse pagati dalle banche commerciali per le loro operazioni di rifinanziamento, riesce ad orientare i tassi di interesse che le banche commerciali faranno poi pagare allo Stato, ai cittadini e alle imprese per l’erogazione di prestiti. In prospettiva, la BCE ha anche annunciato che quello di luglio sarà il primo di una serie di aumenti dei tassi di interesse che, progressivamente, porterà il costo del denaro ben al di sopra degli attuali tassi negativi, e dunque fuori dalla zona di eccezione in cui si è mossa la politica monetaria emergenziale dalla crisi dei debiti pubblici alla pandemia.
Secondo l’ideologia della BCE, la politica monetaria ha il compito fondamentale di garantire la stabilità dei prezzi e mantenere l’inflazione attorno al 2%.
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Il reale non è razionale ma piuttosto paradossale
di Roberto Paura
Il diario filosofico di Francesco D’Isa investiga e propone nuove soluzioni al paradosso dell’esistenza
Uno dei più influenti passi del pensiero occidentale risale allo pseudo-Dionigi, un autore del V secolo che si spacciava per quel Dionigi l’Areopagita che Paolo di Tarso aveva convertito per primo ad Atene. Nella sua Teologia mistica, lo pseudo-Dionigi aprì la strada alla cosiddetta teologia negativa, secondo cui tutto ciò che possiamo dire della Causa di tutte le cose (cioè di Dio) è ciò che non è:
“[…] non è parola né pensiero, non si può esprimere né pensare; non è numero, né ordine, né grandezza né piccolezza né uguaglianza né disuguaglianza né similitudine né dissimilitudine; non sta fermo, né si muove né riposa; non ha potenza e non è potenza; non è luce, non vive, né è vita; non è sostanza, né eternità né tempo; non è oggetto di contatto intellettuale, non è scienza, non è verità né regalità né sapienza; non è né uno, né unita né divinità né bontà; non è spirito come lo possiamo intendere noi, né filiazione né paternità; non è nulla di ciò che noi o qualche altro degli esseri conosce, e non è nessuna delle cose che non sono e delle cose che sono […]”
(pseudo-Dionigi, 2020).
Circa tre secoli prima, qualcosa del genere fu proposto anche da uno dei principali filosofi buddhisti, Nāgārjuna (ca. 150-200 d.C.), fondatore della scuola dei Mādhyamika, sostenitori della “vacuità” del Tutto. Secondo la loro tesi, non esiste nulla a cui possa essere conferito il concetto di essere come proprietà di per sé, poiché l’esistere è possibile solo in relazione a qualcos’altro. Ne consegue che il pensiero umano deve allenarsi a comprendere la non-sostanzialità attraverso “tanto una determinazione positiva (della negazione) quanto una determinazione negativa (della natura propria), essendo caratteristica propria del pensiero appunto il definire escludendo” (Torella, 2020).
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Menti raffinatissime
di Rosso Malpelo
L’età del disordine, ovvero chi semina vento raccoglie tempesta
La caduta di un impero, quando non avviene per una sconfitta militare, è spesso preceduta da una fase di estremo disordine. Un caos volutamente diffuso per l’incapacità di mantenere il controllo imperiale con strategie di ordine e stabilità che contemperino ed armonizzino i diversi interessi dei territori e delle popolazioni assoggettate con quelli del potere centrale. Quando viene meno ciò che è stato definito soft power, ovvero la pervasività culturale del potere imperiale attraverso meccanismi di seduzione del suo modello sociale e culturale, non resta che la forza bruta per assicurarsi la tenuta del potere su vaste aree e molteplici nazioni, i cui interessi soffocati e subordinati, creano faglie di scontro e divisioni all’interno dell’impero. Incapace di governare le forze centrifughe così generate, l’oligarchia imperiale risponde con il caos, ovvero con la diffusione della frammentazione e del disordine, nella convinzione suicida che sia più facile governare un insieme frammentario di elementi, caotico ed in conflitto tra loro, con la preponderante forza militare di cui l’impero dispone. E’ la teoria del martello di Abraham Maslow, “se l’unica cosa che hai è un martello inizierai a trattare tutto come fosse un chiodo”, meglio poi che i chiodi siano molti e piccoli anziché pochi e grandi.
Gli USA hanno raggiunto l’apice della propria parabola imperiale tra la fine degli anni Ottanta ed i primi anni Novanta del secolo scorso, ovvero dalla fase di decadenza e successiva dissoluzione dell’impero antagonista-nemico, cioè l’URSS. Si prospettò in quegli anni per gli USA un dominio assoluto del mondo e per un certo periodo di tempo andò esattamente così (vedere alla voce PNAC).
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Amministrative: come volevasi dimostrare
di Leonardo Mazzei e Moreno Pasquinelli
12 giugno: il divisionismo non paga
I risultati delle elezioni ci consegnano un’immagine fedele della società? Un po’ sì e un po’ no. Possiamo dire che le elezioni sono uno specchio deformante. Le urne consegnano una fotografia della situazione sociale, e come ogni fotografia consiste in un fermo immagine di qualcosa che invece è in movimento. Ancor più inaffidabile, questa rappresentazione della realtà, se il sistema elettorale è truccato, ovvero tende a premiare le forze di regime penalizzando quelle d’opposizione. A maggior ragione ciò è vero in caso di elezioni amministrative, dove fattori come vincoli clientelari, motivi localistici prevalgono sulle idee politiche.
Fatta questa premessa, posti i limiti metodologici di analisi puramente empiriche, la fotografia consegnata dalla urne ci è tuttavia utile per capire lo stato di salute di un dato sistema di dominio, il suo tasso di stabilità o instabilità, la forza egemonica della classe dirigente, la profondità del distacco tra chi sta in alto e chi sta in basso e, di converso, se esista un’opposizione e quanto questa sia consistente.
A livello macroscopico tre dati emergono con tutta evidenza. La crescita dell’astensionismo (fenomeno che raggiunge percentuali molto più alte proprio tra le classi subalterne); il doppio e fragoroso arretramento dei Cinque Stelle e della Lega salviniana (ricordiamo che essi uscirono vincenti nel marzo 2018, fatto che colpì a morte il sistema bipolare fondato sulla dicotomia centro-sinistra e centro-destra); il bipolarismo, che davamo per morto, sembra essere invece resuscitato (con la novità che sul fianco destro la forza trainante è adesso la Meloni, il cui successo premia tuttavia la sua opposizione alla ammucchiata pro-Draghi.
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A.G. Gargani: siamo solo al principio
di Ugo Morelli
“…l’unico modo fertile di ‘conservarsi in vita’
è quello di complicarla”
[Aldo Giorgio Gargani]
Con lo stile unico di chi la filosofia la vive e non solo la pensa e la scrive, ad Aldo Giorgio Gargani giocavano le lacrime dentro agli occhi, quando ci confidava, negli ultimi anni, un evento. Una sera, alla fine di un incontro, mentre il suo amato allievo Alfonso Maurizio Iacono usciva di casa, al momento del saluto, si era scoperto a dirgli: chiuditi bene il cappotto, c’è parecchio freddo stasera.
Senza forzare la mano all’intimismo, che in nessun modo riguardava Gargani – prova ne sia la scrittura di Sguardo e destino [Laterza, Roma-Bari 1988], nonostante le incomprensioni e gli usi impropri che spesso non ne hanno riconosciuto il valore di straordinaria testimonianza filosofica – Iacono inizia il contributo all’importante e meritorio gruppo di saggi che la rivista aut aut [n.393; marzo 2022] dedica al filosofo suo maestro, con una nota personale. Quella nota assume uno spessore e una rilevanza che parla di Gargani e della sua ricerca per abitare quello spazio creaturale che si colloca irriducibilmente tra il pensiero e la vita. Oltre ogni cerimoniale della scienza e criticando ogni feticcio epistemologico. Posizione che molto gli sarebbe costata in termini di un’emarginazione e una distrazione per uno dei più importanti filosofi del ‘900, che tuttora persiste.
Abitare il rischio del pensiero, in modo vibrante e febbrile, è la distinzione del percorso di vita e ricerca di Gargani.
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Il mondo nuovo non verrà con un pranzo di gala
di Leonardo Masella*
Il conflitto in corso in Ucraina non è una guerra locale, sia pure nel cuore dell’Europa, ma è una guerra mondiale dell’imperialismo americano contro la Russia e la Cina, “una guerra a pezzi” come spesso negli anni scorsi l’ha definita il Papa, o a tappe, che ora sta toccando il suo punto più alto (finora), più cruento e pericoloso. Il passaggio da un mondo unipolare dominato dagli Usa e dal dollaro ad un mondo multipolare non è e non sarà un pranzo di gala, parafrasando Mao, per la rivoluzione. Questa in corso è una rivoluzione, una rivoluzione mondiale, un passaggio epocale, uno spartiacque della storia, dopo di che tutto ne uscirà cambiato. Ne usciranno cambiati gli Usa, finalmente ridimensionati ad una potenza più o meno come le altre, non più gendarme del mondo; ne uscirà cambiata l’Europa con la fine della Ue e forse con un nuovo polo europeo fra quegli Stati che saranno in grado di dire NO agli Usa; ne uscirà cambiata la Russia, più vicina alla Cina sia nei rapporti diplomatici e commerciali sia nel modello di economia mista pubblico-privato a direzione statale; ne usciranno cambiati i paesi che facevano parte del Patto di Varsavia i cui popoli torneranno ad avvicinarsi alla Russia dopo un ventennio di sbornia liberista, anti-comunista e anti-russa; ne usciranno cambiati i paesi del Sud del mondo sfruttati e oppressi da secoli di colonialismo; ne usciranno cambiate le classi sfruttate nel capitalismo sviluppato; ne uscirà cambiata la coscienza del mondo.
Chi vive dentro le fasi storiche di cambiamento non ne è mai pienamente consapevole. Noi non siamo pienamente consapevoli che stiamo vivendo una fase storica di cambiamento epocale, rivoluzionario, del mondo, una delle fasi più rivoluzionarie della storia dell’umanità. Un cambiamento di doppia grandezza e importanza.
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Tempesta perfetta o caos sistemico?
di Alessandro Montebugnoli*
Cambiamento climatico, fame e carestie, conflitti armati, iniquità globali. Ma l’imperativo non può essere combattere i sintomi, bensì le cause attraverso una nuova forma di egemonia multilaterale e cooperativa
La guerra in Ucraina va ad aggiungersi ai tanti conflitti armati sparsi nel mondo, e i conflitti si aggiungono alla crisi alimentare e a quella climatica. Ma gli effetti non sono additivi, bensì moltiplicativi, così che i paesi simultaneamente affetti da due o tre crisi fanno registrare livelli di denutrizione fino a 12 volte maggiori di quelli dei paesi affetti da uno solo. Tanto più elevati i livelli di diseguaglianza di un paese, tanto più frequenti le crisi multiple e più gravi gli effetti moltiplicativi. I fattori all’origine dell’attuale, spaventosa, crisi alimentare non vanno considerati in modo isolato: l’essenziale sta piuttosto nei processi di reciproco rafforzamento. Le crisi dipendono dalle condizioni di disordine globale, nel senso che queste ultime sono l’esatto opposto di un quadro idoneo ad affrontarne le cause, alle quali, piuttosto, lasciano campo libero. Se la responsabilità dell’invasione dell’Ucraina ricade sulla Russia di Putin, lo stesso non può dirsi del quadro delle relazioni globali nel quale quella scelta ha preso corpo. Ed è di questo che occorre ragionare.
Iniquità globali
È cosa nota che la seconda metà degli scorsi anni Dieci ha segnato una pesante battuta di arresto sulla strada della lotta contro la fame. E così, anche, non siamo certo i primi a osservare che la guerra in Ucraina è venuta a esacerbare un problema già presente in forma acuta. In modo particolarmente incisivo, per esempio, lo ha fatto il direttore esecutivo del World Food Program, David Beasley: “Conflitti, crisi climatica, Covid 19 e costi crescenti del cibo e dei combustibili avevano già creato una tempesta perfetta – e adesso abbiamo la guerra in Ucraina, ad aggiungere una catastrofe in cima a una catastrofe”.
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Agamben. Tutto è reale
di Gianluca Solla
Non credo di essere il solo ad aver sempre amato nei libri di Giorgio Agamben la finezza con cui gli argomenti vengono prima posti e poi svolti, mediante riferimenti spesso sorprendenti. Da Walter Benjamin, di cui è stato curatore in Italia, Agamben pare aver appreso al meglio l’arte di coltivare percorsi all’apparenza marginali, ma che finiscono per andare al cuore delle questioni. Non sorprende, in un certo senso, che un lavoro teorico di tale finezza abbia spesso scontato un’accoglienza fredda, nonostante la sua ottima collocazione editoriale. Questa non-accoglienza, modesta quanto i suoi detrattori, ha significato dover passare dalla ricezione all’estero prima di ricevere attenzione nelle discussioni nella lingua in cui quei lavori erano originariamente scritti.
Un’altra caratteristica speciale dei suoi libri – penso in particolare al ciclo di Homo sacer – è sempre stata l’idea di costruire delle parti che si trovano a occupare una posizione eccentrica, ma strategica, rispetto al resto del libro. A queste sezioni, redatte in uno stile differente, viene solitamente affidata una funzione difficile da definire, ma essenziale rispetto all’argomento trattano. Accade così per i passi del progetto Homo sacer indicati da un alef (ℵ), che costituiscono come delle aperture improvvise di prospettiva rispetto a quanto il discorso andava sviluppando. O si pensi al Prologo iniziale di L’uso dei corpi (Homo sacer IV/2), dedicato alla figura di Guy Debord e alla sua vita, in un certo senso eterogeneo e, al tempo stesso, perfettamente calibrato rispetto alle finalità della ricerca (poi Debord non tornerà più all’interno di tutto il testo, se non en passant un’unica volta).
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Gott mit uns
di Lanfranco Binni
Non c’è tempo per un presente che rifiuta la storia e i suoi processi lunghi, complessi e contraddittori. I poteri senza storia di un capitalismo totalitario che assolutizza l’unico presente di un modo di produzione malthusiano e dei suoi devastanti miracoli finanziari, in un mondiale cortocircuito di imperialismi, guerre economiche e territoriali, stanno producendo il naufragio delle magnifiche sorti e regressive della globalizzazione occidentale. La guerra statunitense alla Russia in territorio europeo, una pragmatica resa dei conti con l’ex Unione Sovietica (conti aperti dal 1917), per la conquista delle sue materie prime, per il dominio militare ed economico dell’intero continente europeo di cui anche la Russia fa parte, sta producendo risultati inattesi e pericolosamente prevedibili. La guerra ucraina, dopo otto anni e 100 giorni di aggressioni Nato (non solo ad abbaiare) sul fronte orientale dell’Europa, sta producendo un nuovo Afghanistan “nel cuore dell’Europa”, per una guerra di lunga durata “sul campo”, con l’obiettivo di ridisegnare un preteso nuovo ordine mondiale a guida statunitense; sullo sfondo, la guerra (per ora) economica con la Cina (conti aperti dal 1949), i cambiamenti climatici in atto e inarrestabili, le epidemie connaturate allo “sviluppo” estrattivista, la crisi profonda (senza opportunità) del neoliberismo e delle sedicenti liberal-democrazie occidentali.
Pesi e misure
Sul piano geopolitico la tendenza in atto è alla guerra globale come continuazione dell’economia: c’è uno stretto legame tra la guerra economica (sanzioni, dazi e affini) e le atomiche «tattiche» di nuova generazione, tra il mercato globale delle armi e le politiche di guerra occidentali e atlantiste sul fronte sud (Siria, Libia, territori occupati della Palestina, fino al Niger), sul fronte est ai confini della Russia, sul fronte sud-est (Afghanistan, Iran) e sul fronte indo-pacifico.
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Olocausto e memorie anticoloniali
di Enzo Traverso
Comprendere un genocidio significa anche desacralizzarlo e confrontarlo con altre forme di violenza di massa. Per contestualizzare il nazismo bisogna coglierne l'eredità materiale e culturale col colonialismo
Una nuova «disputa tra storici» (Historikerstreit) sull’Olocausto sta scuotendo la Germania. La prima si era svolta oltre trentacinque anni fa, durante la Guerra fredda, quando il paese era ancora diviso e molti avevano un’esperienza diretta del nazismo e della Seconda guerra mondiale. Contro lo storico neoconservatore Ernst Nolte, che deplorava il fatto che la Germania rimanesse prigioniera di «un passato che non passa», Jürgen Habermas voleva fare la memoria dell’Olocausto un pilastro della coscienza storica tedesca.
L’interpretazione apologetica di Auschwitz come semplice «copia» del Gulag – secondo Nolte i crimini bolscevichi erano il «prius logico e fattuale» del totalitarismo moderno e quelli nazisti la reazione di un paese minacciato – aveva indubbiamente un significato politico durante la Guerra fredda. Nel ventunesimo secolo, però, è diventata largamente superflua anche per i neoconservatori. La Germania appartiene all’Occidente non più come avamposto geopolitico di un mondo bipolare, ma come uno dei suoi attori chiave, soprattutto come motore dell’Unione europea.
Nato dopo un lungo, complesso e tormentato processo di «elaborazione del passato», il Memoriale dell’Olocausto che sorge oggi nel cuore di Berlino offre una prova tangibile di come il nazismo sia diventato parte integrante dell’autorappresentazione storica tedesca. Tuttavia, serve anche ad altri scopi. A conclusione di un lungo processo di «superamento del passato» (Vergangenheitsbewältigung), la Germania è finalmente attrezzata per assumere la guida dell’Ue: al di là della sua egemonia economica, ha le carte in regola anche dal punto di vista dei diritti umani.
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Il Capitale sorvegliante. Il neo-panoptismo globale
di Emiliano Bazzanella
Introduzione
Questo breve scritto racconta una storia. Quella di un capitale che non costituisce nella una essenza uno stock, un insieme di prodotti collettivi; e quella di un capitalismo il quale invece controlla, accumula e gestisce i capitali, cambiando sempre forma e metamorfizzandosi in figure sempre inattese e sorprendenti. L’ultimo capitolo di questa storia, almeno per il momento, riguarda il cosiddetto “capitalismo della sorveglianza”, surveillance capitalism. Come afferma Shoshana Zuboff che ha divulgato questa terminologia, si tratta di qualcosa di unprecedented, qualcosa di inaudito: non si capitalizzano più cose, oggetti, prodotti, monete, banconote, bensì informazioni personali che riguardano i nostri sentimenti, i nostri desideri, le nostre emozioni, i nostri comportamenti (behavioural data). Si tratta invero di un’informazione subdola poiché ciò che viene captato e capitalizzato sono informazioni per così dire collaterali del nostro vissuto, una sorta di “rumore informativo” di cui siamo per lo più inconsapevoli e che viene analizzato, profilato e ridisegnato nostro malgrado. E così avviene che quando navighiamo in rete, abbiamo l’impressione di conoscere cose già note o quantomeno famigliari, mentre se desideriamo comperare qualcosa pare di trovarci innanzi al commesso virtuale perfetto, che conosce già i nostri gusti e le nostre preferenze.
Ci sono vari ingredienti in questo processo: un discorso sulla proprietà in senso ristretto ed allargato (che cos’è la proprietà e di chi sono i dati che vengono sorvegliati e sottratti?), un discorso sul carattere narcisistico, psicotico e “panoptico” della nostra società (cioè basato sul volere “vedere-sapere” tutto e, simmetricamente, sull’essere-visto e l’essere-saputo dall’Altro), un discorso che riguarda il grande inganno di questo nuovo capitalismo che, sotto il mantra di una nuova libertà e uguaglianza conquistate grazie ad internet, nasconde nuovi focolai di potere e nuove sperequazioni.
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Marx, marxismi e decrescita
di Paolo Cacciari
Il problema che il mondo ha di fronte, dicono il pensiero femminista e quello ecofemminista, va oltre il capitalismo. In ogni caso, per cambiare l’ordine delle cose oggi non basta mettere in discussione il valore economico in una società di mercato: si tratta di immaginare, prendendo spunto da movimenti e pensieri diversi, un’economia ecologica post-crescita. «La possibilità che un futuro sempre più artificiale, distopico e autoritario non si realizzi – scrive Paolo Cacciari – non dipenderà tanto dal fatto che il capitale potrebbe implodere sbattendo nei “limiti planetari” della biosfera, ma dalla nostra (dell’umanità) capacità di opposizione, di ideazione, di progettazione e sperimentazione di sistemi socioeconomici diversi…». Abbiamo bisogno di costruire ponti tra l’ecologia politica e l’eco-marxismo. Appunti verso un prezioso seminario su Marx, marxismi e decrescita.
* * * *
“Non aduliamoci troppo tuttavia per la nostra vittoria umana sulla natura. La natura si vendica di ogni nostra vittoria. (…) Ad ogni passo ci vien ricordato che noi non dominiamo la natura come un conquistatore domina un popolo straniero soggiogato, che non la dominiamo come chi è estraneo ad essa ma che noi le apparteniamo con carne e sangue e cervello e viviamo nel suo grembo: tutto il nostro dominio sulla natura consiste nella capacità, che ci eleva al di sopra delle altre creature, di conoscere le sue leggi e di impiegarle nel modo più appropriato”
Engels (1876).
In preparazione dell’incontro di settembre a Venezia (www.venezia2022.iy), il prossimo venerdì 17, il gruppo dei Pensionati critici di Mestre ha organizzato un seminario su Marx, marxismi e decrescita (Decrescita e marxismi – Verso Venezia 2022 | 7-8-9 settembre 2022).
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Cronache della nuova globalizzazione
di Vincenzo Comito
Biden sta cercando di stringere patti economici e commerciali che escludono la Cina, sia nell’area dell’indo-pacifico che in America Latina in una logica a blocchi contrapposti. L’Ue cerca di fare altrettanto nei Balcani. Ma le interrelazioni sono tali e tante che la separazione non sarà mai netta
Un quadro in movimento
Alcune vicende recenti sembrano per molti commentatori segnare la crisi, se non la fine, della globalizzazione: da una parte le sempre più pressanti e ormai quasi parossistiche iniziative statunitensi per cercare di frenare l’ascesa economica, finanziaria, tecnologica, militare, politica della Cina, dall’altra lo scoppio della guerra in Ucraina con il corredo di sanzioni da parte occidentale e i problemi che ne derivano a livello mondiale, infine la stessa rigida gestione del Covid da parte di Pechino. A questo ultimo proposito è stato anche coniato il termine di “deglobalizzazione” dopo quello di reshoring, che sta a significare il ritorno in patria o nei paesi più vicini o più amici degli insediamenti produttivi e delle catene di fornitura che erano stati prima portati soprattutto in Asia, fenomeno che ha caratterizzato il mondo per molti decenni. Ma il senso e lo sbocco delle vicende in atto sembrano piuttosto complicati ed aperti a diversi scenari.
Come è noto, Donald Trump aveva a suo tempo posto dei dazi su molte merci cinesi, bloccato l’esportazione di prodotti e tecnologie nel campo dei chip, aveva chiesto alle imprese americane di chiudere i loro impianti in Cina. Si era parlato più in generale di un decoupling (scollegamento) degli Stati Uniti – e possibilmente di altri importanti attori occidentali – dalla Cina.
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Rosa Luxemburg e la crescita
di Bruna Bianchi(*)
Esiste un patrimonio enorme, per quanto non sempre visibile, di riflessione delle donne sulle origini e sulle forme del patriarcato, ma anche sulla relazione tra patriarcato e guerra, tra patriarcato e devastazioni delle risorse naturali. Un complesso e ormai robusto pensiero ecofemminista ha preso forma e azione in molti angoli del mondo e trova ispirazione, tra l’altro, nelle straordinarie riflessioni di Rosa Luxemburg. In questo prezioso breve saggio ne dà conto Bruna Bianchi per mostrare come la guerra resti una prosecuzione dell’economia con altri mezzi. “Solo il riconoscimento dell’interconnessione tra tutti i rapporti di dominio, solo l’abbandono di un modo di pensare che separa le relazioni di potere tra uomini e donne, tra umani e mondo naturale, tra umani e animali, tra metropoli e colonie, potranno condurre a una strategia di pace efficace…”. Un grido contro lo smarrimento.
* * * *
Nel 1915, nello scritto Juniusbrochüre, così scriveva Rosa Luxemburg a proposito dello sconcerto suscitato scoppio della guerra in Europa:
Per la prima volta oggi le bestie feroci, liberate dall’Europa capitalistica contro tutte le altre parti del mondo, hanno fatto di un balzo irruzione nel bel mezzo dell’Europa. Un grido di raccapriccio è risuonato per il mondo, quando il Belgio, la piccola e graziosa gemma della civiltà europea, quando i più venerandi monumenti culturali della Francia settentrionale sono caduti fragorosamente in pezzi sotto il cozzo di una cieca forza di distruzione. Il “mondo civile” – il quale aveva tollerato che questo imperialismo votasse alla più spaventosa fine decine di migliaia di Herero, […] che a Putumayo una banda di cavalieri di industria europei per dieci anni martoriasse a morte quarantamila esseri umani […];
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Ventinove tesi
di Michele Castaldo
Da La crisi di una teoria rivoluzionaria
A dicembre del 2018 pubblicai La crisi di una teoria rivoluzionaria, un libretto breve e conciso, dove cercavo di spiegare le ragioni della crisi di una teoria che si richiama al marxismo. In appendice declinavo 29 tesi che qui pubblico nel tentativo di smuovere un dibattito ormai impantanato in schemi e ideologismi nel quale si dimenano gran parte dei militanti di sinistra, anche i migliori, cioè i più onesti, quelli che non rincorrono arrivismi nel sottobosco del potere politico, oppure quelli dediti a carrierismi e leaderismi in sette chiesastiche. Non mi nascondo: è un sasso nello stagno. La fase è complicata e una riflessione si impone.
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Il moto-modo di produzione capitalistico è un insieme di rapporti degli uomini con i mezzi di produzione e di leggi oggettive che hanno come epicentro il mercato e la concorrenza a cui gli uomini sono incapaci di sottrarsi.
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Il soggetto è il movimento storico divenuto modo di produzione capitalistico, con classi e interessi fra le classi che sono complementari e contrastanti al contempo.
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Questo movimento generale cui gli uomini sono arrivati dopo secoli di sviluppo è la conseguenza di rapporti di produzione precedenti superati da nuove forze produttive.
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Detto movimento sta entrando in una crisi generale non per l’opposizione di una classe al suo interno, ma perché ha saturato il processo di produzione e riproduzione semplice e allargato, con una sovrapproduzione sia di merci che di mezzi di produzione privi di sbocchi.
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In virtù di tale meccanismo il moto-modo di produzione capitalistico è destinato ad avviarsi verso il caos generale senza alcuna possibilità di correggere le leggi che lo regolano.
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Armi letali: il gran ballo dei diritti umani e la macelleria della guerra
di Sandro Moiso
“La società non esiste. Esistono soltanto gli individui” (Margaret Tatcher)
“A Fort Branning, la sede della scuola di fanteria e delle truppe corazzate dell’esercito statunitense, i soldati che vengono «preparati e formati per combattere e vincere» le guerre devono anche frequentare il corso di diritti umani. L’obiettivo del corso è di «inculcare negli allievi che i valori democratici, la legislazione internazionale sui diritti umani e il Diritto Internazionale Umanitario sono doti di comando essenziali nelle forze armate” (Nicola Perugini e Neve Gordon – «Il diritto umano di dominare»)
”NATO, Keep the progress going!” (Amnesty International – Manifesto per il “Summit ombra per le donne afghane”, Chicago 2012)
Nel 2012, poco dopo che Barack Obama aveva pubblicamente dichiarato di essere intenzionato a richiamare tutte le truppe americane di stanza in Afghanistan entro il 2014, nel centro di Chicago (città dove nel mese di maggio dello stesso anno si sarebbe tenuto un summit della NATO per mettere a punto i dettagli della exit strategy) erano comparsi manifesti che esortavano la NATO a non ritirare le proprie truppe dal tormentato paese centro-asiatico.
Su quei poster era scritto:”NATO, Keep the progress going!” (NATO, occorre portare avanti il progresso), stabilendo così un chiaro collegamento tra l’occupazione militare e il progresso. Sotto il titolo, poi, si annunciava un “Summit ombra per le donne afghane” che si sarebbe tenuto durante lo stesso summit della NATO. A differenza, però, di quanto si potrebbe pensare tale iniziativa non era sponsorizzata da qualche fondazione repubblicana o dalla lobby delle armi ma da Amnesty International, la più nota tra le organizzazioni per i diritti umani presenti al mondo.
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Niels Bohr: 100 anni dalla rivoluzione dell’immaginario
di Emilia Margoni
“In certi momenti, una sensazione di conflitto tra irrealtà diverse mi faceva chiedere se tutto quel dramma giocato tra forze fantastiche […] non fosse una specie di sogno semillusorio creatosi in gran parte nella mia mente” (Howard P. Lovecraft, I racconti del Necronomicon, Newton Compton, Roma, p. 120). Così, Lovecraft segna quel salto imprevisto con cui la mente razionale del calcolo e della ponderazione prende atto che qualcosa sfugge, che si danno vie d’accesso a dimensioni subliminali in cui la distinzione tra realtà e irrealtà è poco più che analogica. Né stupisce che sorsero dubbi e leggende più che urbane sull’esistenza del Necronomicon, che possiede l’invidiabile virtù di essere un libro mai scritto, eppure citato, commentato, ricco di genealogie. Il punto, però, non sta nell’esistenza dell’oggetto-libro, quanto nella sua capacità, da oggetto inesistente, di produrre sia realtà sia dubbi intorno ad essa.
D’altro canto, è questa la dinamica portante dell’intera produzione letteraria del genere horror: la progressiva perdita di quel solido piano d’appoggio che siamo soliti definire “reale”. Ma pensare che simili fascinazioni riguardino il solo campo della letteratura è un malinteso che varrà qui la pena segnalare. Basterà far cenno al fascino che la fisica esercita oggi, e in misura crescente, sul grande pubblico: quel che in essa ne va non è il reale né l’irreale, ma un “conflitto tra irrealtà diverse”. E proprio questo conflitto è stato al centro della più che decennale polemica tra Niels Bohr e Albert Einstein, due divinità ctonie del campo in questione – un confronto serrato e a più riprese, che non ruotava attorno a come la teoria dell’uno spiegasse qualcosa meglio di quella dell’altro, ma come la teoria dell’altro, secondo l’uno, portasse a concepire un universo del tutto irreale.
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La mia militanza
Massimo Cappitti intervista Sergio Fontegher Bologna
Sergio Fontegher Bologna*: Io non ho imparato a leggere e scrivere a scuola perché c’era la guerra. Non so se fu per una scelta dei miei genitori o perché la scuola che avrei dovuto frequentare era stata trasformata in caserma. Ho fatto i primi tre anni delle elementari da privatista, con un’insegnante che era nostra vicina di casa, abitava sul nostro stesso pianerottolo. Il marito era un vecchio colonnello di artiglieria e lei un’ex maestra di scuola, per questo la chiamavamo “la colonnella”. Ho imparato a leggere e scrivere a casa di questa signora, in cucina, mentre lei preparava la jota o il gulasch. Alla fine di ogni anno mi presentavano a fare l’esame da privatista e ho cominciato ad andare a scuola in quarta elementare, quando la guerra è finita. Ho trovato nel diario di mia madre, ad esempio, che l’esame d’ammissione alla terza l’ho fatto dieci giorni dopo che c’era stato il peggiore bombardamento che ha avuto Trieste, in cui il nostro quartiere, l’epicentro, ha avuto 463 morti, quasi 1.000 feriti e 5.000 senzatetto.
Un’altra cosa da dire è che nella nostra casa non c’erano libri. Io non avevo una biblioteca perché i miei genitori avevano avuto un’infanzia e un’adolescenza durissime, mia madre aveva fatto la terza media, mio padre era riuscito a diplomarsi e a diventare un tecnico progettista. Ha tentato di fare l’università per corrispondenza senza riuscirci.
So ancora a memoria quali erano i titoli dei libri che avevo a casa, tipica letteratura popolare: Victor Hugo, Jack London, La vita delle api di Maeterlinck, La cena delle beffe di Sem Benelli, che non so cosa c’entrasse… però i miei genitori erano delle persone molto sensibili e aperte alla cultura.
* * * *
Massimo Cappitti: Quali sono stati i tuoi maestri e quali le letture che più ti hanno formato?
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Quale pace e quale guerra. Il discrimine tra "neutralità qualificata" e interventismo co-belligerante
di Quarantotto
Riprendiamo la pubblicazione dei post su questo blog per un intervento da me tenuto al Convegno "Fermare la guerra" svoltosi a Roma lo scorso 27 maggio 2022.
Al titolo originario andrebbe aggiunto un "sottotitolo" che origina dalle (brevi...per motivi di spazio; molto altro si potrebbe aggiungere) conclusioni di real-politik: si potrebbe formularlo come un rinvio alla consapevolezza che L'Unione europea sia, in un modo che non appare ben chiaro alla sua stessa governance, un paese oggetto, a sua volta, di un'apertura di ostilità, fatta per ora di costrizioni e di risposte non ben ponderate, e, un domani, di risvolti sulla crescita e la stabilità finanziaria al suo interno, che la porrebbero in una situazione di co-belligeranza, politicamente ed economicamente contraddittoria ed insostenibile, verso l'intero mondo "non occidentale"; e questo risalterebbe all'interno di una spiralizzazione conflittuale che non corrisponde affatto all'interessi dei popoli che vivono entro lo spazio dell'Unione economica e monetaria e del suo "mercato unico". https://twitter.com/nytimes/status/1533564338983903238?s=20&t=Pxx4e6XgDHYBCPIucAwm8Q
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1. Quale pace e quale guerra? - Convegno "Fermare la guerra"
Premessa - Fermare la guerra è una proposizione che dovremmo assumere nel senso più elevato ed umanistico: cioè, intesa come restaurare la pace. In astratto, la pace è la fine del conflitto tra Russia e Ucraina, come composizione dei rispettivi interessi contrapposti in un assetto stabile che consenta di risolvere ogni aspetto controverso che contrappone i due Paesi, ripristinando normali relazioni di diritto internazionale.
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Interesse individuale, cooperazione internazionale e benessere collettivo
La lezione di John Maynard Keynes
di Maria Cristina Marcuzzo*
Abstract: Questo articolo prende spunto da due episodi dell’opera di Keynes in cui egli fece un forte appello a una logica di cooperazione piuttosto che al perseguimento dell’interesse individuale. Il primo è legato alle conseguenze economiche del Trattato di Versailles del 1919 e il secondo alla restituzione dei debiti agli Stati Uniti alla fine della seconda guerra mondiale. Invece del principio di razionalità, che sta alla base del comportamento individuale ottimizzante, Keynes si appella alla “ragionevolezza”, da applicare alle situazioni in cui un comportamento apparentemente razionale (da un punto di vista astrattamente economico) può avere risultati che possono rivelarsi contro gli interessi individuali. La lezione di Keynes è che il perseguimento dell’interesse individuale da parte delle singole nazioni, dovrà cedere il passo alla costruzione di regole e istituzioni che sorveglino il libero flusso dell’iniziativa privata e la libertà dei mercati, andando oltre il punto di vista individuale per guardare al benessere collettivo.
Per introdurre il tema che ho scelto di affrontare, “Interesse individuale, cooperazione internazionale e benessere collettivo. La lezione di John Maynard Keynes”, inizierò ricordando tre episodi recenti.
Il primo ha come protagonista, Özlem Türeci che, con il marito Uğur Şahin, ha sviluppato il vaccino anti-Covid, con l’azienda farmaceutica da loro fondata in Germania, BioNTech, e l’americana Pfizer. In una recente intervista dello scorso marzo Özlem Türeci ha dichiarato – la cito – “quanto sia importante la cooperazione e la collaborazione internazionale”.
Il secondo episodio risale al maggio 2021, quando 25 leader di paesi e organizzazioni mondiali hanno espresso l’intento di firmare un “trattato internazionale sulle pandemie”, nella convinzione – si legge nella dichiarazione congiunta – che “le sfide possano essere superate solo affrontandole insieme, in uno spirito di collaborazione”. Il Presidente Draghi nel presentare il Global Health Summit di Roma del maggio 2021 ha riaffermato la necessità di una “stretta e costante collaborazione internazionale” per vincere non solo questa ma anche altre sfide future.
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L’imminente frattura globale causata dallo scontro tra diversi ordini economici
Intervista a Michael Hudson
Il post che segue è la traduzione di un’intervista al prof. Michael Hudson pubblicata su The Unz Review. Un’altra analisi essenziale per comprendere gli avvenimenti epocali che stiamo vivendo e orientarci in un mondo che si fa sempre più complesso, oltre che “grande e terribile”. L’originale lo puoi trovare qui.
Prof. Hudson, è uscito il suo nuovo libro “Il destino della civiltà”. Questo ciclo di conferenze sul capitalismo finanziario e la nuova guerra fredda presenta una panoramica della sua particolare prospettiva geopolitica.
Lei parla di un conflitto ideologico e materiale in corso tra Paesi finanziarizzati e deindustrializzati come gli Stati Uniti contro le economie miste di Cina e Russia. In che cosa consiste questo conflitto e perché il mondo si trova in questo momento in un “punto di frattura” particolare, come afferma il suo libro?
L’attuale frattura globale sta dividendo il mondo tra due diverse filosofie economiche: Nell’Occidente USA/NATO, il capitalismo finanziario sta deindustrializzando le economie e ha spostato l’industria manifatturiera verso la leadership eurasiatica, soprattutto Cina, India e altri Paesi asiatici, insieme alla Russia che fornisce materie prime di base e armi.
Questi Paesi sono un’estensione di base del capitalismo industriale che si sta evolvendo verso il socialismo, cioè verso un’economia mista con forti investimenti governativi nelle infrastrutture per fornire istruzione, assistenza sanitaria, trasporti e altre necessità di base, trattandole come servizi di pubblica utilità con servizi sovvenzionati o gratuiti per queste necessità.
Nell’Occidente neoliberale degli Stati Uniti e della NATO, invece, questa infrastruttura di base viene privatizzata come un monopolio naturale che estrae rendite.
Il risultato è che l’Occidente USA/NATO è rimasto un’economia ad alto costo, con le spese per la casa, l’istruzione e la sanità sempre più finanziate dal debito, lasciando sempre meno reddito personale e aziendale da investire in nuovi mezzi di produzione (formazione del capitale).
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Riflessioni preliminari ad un programma politico
di Andrea Zhok
Quelle che seguono sono alcune riflessioni iniziali, senza pretese di rappresentare nessuno, che cercano di fissare gli estremi di una lettura filosofico-politica della contemporaneità. Si tratta di un abbozzo dove idealmente dovrebbero stagliarsi alcuni vertici di una figura tutta da disegnare e colorare.
1) Sul rapporto tra Stato e cittadino
La discussione tradizionale sui rapporti tra lo stato e il cittadino ha imboccato da tempo un vicolo cieco, dove si dibatte ciclicamente e sterilmente: se sia necessario espandere o restringere il perimetro dello stato, se abbiamo bisogno di “più stato” o di “meno stato”. Quest’impostazione oscilla tra i poli, posti erroneamente come antitetici, della “libertà” (individuale) e della “protezione” (centrale). Per disinnescare questa falsa partenza bisogna comprendere come nessuna soluzione che restringa lo stato garantisce maggiore libertà ai cittadini, e inversamente, nessuna soluzione che ne incrementi il perimetro garantisce maggiore protezione ai cittadini. Inoltre non è affatto vero che maggiore protezione debba implicare minore libertà, e viceversa. Libertà e protezione, lungi dall’essere in competizione si possono sviluppare bene solo in parallelo.
Altrettanto vago e inconcludente è il riferimento, così frequente negli anni passati a quelle formulazioni del “principio di sussidiarietà”, secondo cui “lo stato deve intervenire solo quando il privato non è in grado di operare” o secondo cui “lo stato deve intervenire solo dove la ‘società civile’ non è in grado di operare”. Queste sono altrettante formule vuote, che possono essere – e sono state – strumentalizzate in maniera completamente arbitraria.
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Ritorno alla vita*
di Raoul Vaneigem
Nota del traduttore
Essere il traduttore di un autentico essere umano in quest’epoca in cui la disumanità ha un potere sempre più delirante e mortifero – come documenta ampiamente lo spettacolo sociale che inquina e violenta la vita sul pianeta mettendo ormai in pericolo la sopravvivenza stessa della specie umana – è soprattutto il segno di un coinvolgimento manifesto nel progetto radicale di autogestione generalizzata della vita quotidiana che Raoul Vaneigem propone, affinandolo progressivamente, fin dall’epoca ormai lontana del maggio 1968. La mia amicizia complice con l’autore di questo scritto non è un segreto: l’ho sempre coltivata con affetto e chiarezza, insieme alla piena autonomia di pensiero e di azione di ogni individuo che condivida un progetto comune di re-umanizzazione e di emancipazione sociale.
Nella catastrofe che avanza, aumentano a dismisura le vittime del disastro finale della civiltà produttivista. Gli esseri umani le sono sempre più ostili, coscienti che il superamento storico della società spettacolare-mercantile è la conditio sine qua non affinché l’umanità possa sopravvivere al nichilismo capitalista. Lo Stato totalitario multiplo che, democratico o dittatoriale, gestisce dappertutto qualcuna tra le variegate forme della società dello spettacolo integrato è, di fatto, la soluzione finale di un produttivismo che ha ridotto gli esseri umani a schiavi dell’economia politica – teologia materialista moderna che serve da secoli le oligarchie di governo sempre conflittuali tra loro, ma tutte volgarmente e tragicamente sfruttatrici del lavoro e delle passioni degli esseri umani.
La fase terminale della barbarie patriarcale che fin dalla preistoria recente ha imposto la civiltà suprematista del produttivismo, riapre uno spazio alla civiltà matricentrica sconfitta e rimossa dalla memoria collettiva dall’imperialismo della società mercantile, guerriera, bigotta, devota alla merce sovrana e malata della peste emozionale dei suoi servitori volontari.
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