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Solidarietà a Jacques Sapir
di Alberto Bagnai
Mi ero sempre chiesto cosa fosse quell'"hypothèses" che compariva nell'URL del blog di Jacques Sapir: http://russeurope.hypotheses.org/, ma questo dubbio non era esattamente in testa alla lista delle mie priorità, e quindi non avevo mai approfondito.
Hypothèses, con Calenda, Revues.org, OpenEdition Books, è una piattaforma informatica inserita nel portale francese Open Edition, un progetto il cui scopo è quello di promuovere la pubblicazione e la discussione di risultati scientifici nell'ambito delle scienze umane e sociali secondo i criteri dell'open access. Tanto per placare subito i lettori fallaciati, chiarisco che qui Soros non c'entra molto: anch'io ho pubblicato in open access, tant'è vero che se cliccate qui potete leggere uno dei miei ultimi articoli. Quindi placate i vostri riflessi pavloviani: la open society è un'altra cosa, e andiamo avanti.
Il portale si articola su quattro assi: pubblicazione di riviste on line (Revues.org), pubblicazione di ebook (OpenEdition), una bacheca di eventi scientifici (Calenda), e un aggregatore di blog, appunto, Hypothèses. Quest'ultimo comprende 2408 blog, fra cui anche LEO (L'Edition électronique ouverte), blog di Open Edition che informa sugli sviluppi del progetto. Il 28 settembre questo blog annunciava che il Comitato scientifico di Hypothèses e quello di Open Edition sospendevano il blog di Sapir, aperto cinque anni or sono, a causa della pubblicazione di post privi di attinenza con il contesto scientifico e accademico del blog.
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2 Ottobre in Catalogna
di Leonardo Mazzei
Otto note sintetiche sul referendum per l'indipendenza
Ci sarà tempo per riflettere più a fondo sui possibili sviluppi della crisi catalana. Intanto però il referendum è alle nostre spalle e alcune cose già le possiamo dire.
1. L'autoritarismo centralista del governo di Madrid ha finito per rafforzare l'indipendentismo filo-eurista di quello di Barcellona.
Non era un esito difficile da prevedere. Aver mandato la polizia a disturbare il referendum, senza peraltro riuscire ad impedirlo, è stato un segno di grande debolezza, un atto repressivo figlio di una concezione parafranchista. Fondamentalmente un atto stupido, sia in considerazione del fatto che i sondaggi davano gli indipendentisti in minoranza, sia perché la contestazione della legalità del voto avrebbe potuto essere comunque sostenuta politicamente senza bisogno di ricorrere alla magistratura ed alla polizia. Ma la stupidità ha da sempre un certo ruolo nella storia. Vedremo alla fine quale sarà stato il suo peso stavolta. Intanto, però, la gestione della vicenda da parte di Rajoy ha regalato agli indipendentisti catalani un indubbio successo propagandistico.
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Lombardia e Veneto: referendum inutile? No, utilissimo…a loro!
di Pierluigia Iannuzzi
Tutti i partiti maggiori voteranno e spingono a votare “si” ma certa sinistra si ostina a predicare l’inutilità del referendum autonomista e l’astensionismo. Ma siamo davvero sicuri che sia così?
Chi non è leghista o grillino o piddino si trova oggi nella condizione (facile e comoda!) di sostenere che snobbare il referendum astenendosi sia il modo migliore per non legittimare un referendum consultivo inutile. I sostenitori dell’astensione ritengono il referendum inutile perché consultivo e ritengono la partecipazione con un NO dannosa perché la sconfitta del NO sarebbe inevitabile e legittimerebbe l’inesorabile vittoria del SI. Ma davvero possiamo pensare che tutti i partiti più forti in Italia e Lombardia abbiano deciso di sostenere un referendum se questo fosse davvero inutile? Davvero possiamo accontentarci di considerare tali partiti così sciocchi? Scusate, cari compagni (perché gli astensionisti sono spesso cari compagni!), ma non è credibile questa posizione. Credo invece che le valutazioni fatte dalle segreterie di tali partiti siano purtroppo opportunistiche. Assumersi la responsabilità di dire NO significherebbe confrontarsi con una bruciante ed inevitabile sconfitta determinata dalle diverse forze in campo in questa difficile fase storica. Ma la pochezza delle forze comuniste dipende, a sua volta, da anni di opportunismo elettorale e istituzionale che hanno determinato uno scollamento dalla classe di riferimento e, quindi, se consideriamo da leninisti la classe come l’elemento più avanzato, dalla possibilità di uno scientifico approccio alla realtà.
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Eccesso di risparmio causa della crisi economica?
di Andrea Pannone
Nel mio articolo pubblicato a febbraio 2017 su questa rivista affermo esplicitamente che l’ipotesi di un eccesso non temporaneo di risparmio sul volume degli investimenti privati, adottata da molti economisti per spiegare la persistente fase di debolezza dell’economia mondiale[1], sia teoricamente insostenibile nella realtà dei sistemi di produzione moderni. Per comprensibili ragioni di spazio, la dimostrazione formale dell’argomento era relegata nell’appendice dell’articolo stesso. Lo scopo di questo scritto è chiarire meglio i leciti interrogativi lasciati aperti da quella rapida trattazione (si vedano ad esempio alcuni dei commenti dei lettori alla fine del paper).
- 1. L’ammissibilità dell’ipotesi di eccesso di risparmio
Come noto, la relazione tra risparmio, produzione e investimento è uno dei fondamenti della macroeconomia. In un’economia chiusa con risparmio pubblico nullo (ossia con tasse uguali alla spesa pubblica) il risparmio (S) è la parte del prodotto totale (reddito) non destinata ai consumi privati (famiglie e imprese). Gli investimenti privati (ossia la variazione netta dello stock di capitale fisico a disposizione delle imprese, indicata con I) sono invece, insieme ai consumi privati, una componente della domanda totale del prodotto.
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La crisi europea e la sua ideologia
Riflessioni a partire da Slavoj Žižek
di Giorgio Astone
- Introduzione
Col termine ideologia si era soliti indicare, nel XX secolo, una congerie di credenze fasciate insieme, provenienti da campi eterogenei del sapere e del sentire e volte ad orientare un gruppo sociale o la società in toto. Eppure nella fase che stiamo vivendo, dove ormai appare inappropriato attribuire il termine «congiunturale» alla depressione economica e la crisi sembra diventata una caratteristica del nostro modo di vivere (ancor prima della crisi economica giungeva alle nostre orecchie, in elegie meste o marce trionfali, la formula di «fine della storia»), è presente un’ideologia? Difficile credere che aspetti caratteristici di questo frangente temporale ci orientino verso qualcos’altro: la tendenza a rivolgersi al passato si accompagna per la prima volta ad un’immaginazione futura che è sempre la stessa (il futuro che ci aspettiamo messianicamente è mutatis mutandis quello dell’evoluzione tecnologica sognato già nel dopoguerra e nel boom economico degli anni ’60). Sicuramente, e questo lo vedremo accompagnandoci alle riflessioni del filosofo sloveno Slavoj Žižek, emerge una nuova visione, un codice mentale che ci permette di adattarci sia nell’interpretazione della realtà socio-politica sia nella nostra stessa sopravvivenza in questo orizzonte. Ma è, l’adattamento, il modo migliore d’affrontare una simile condizione?
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La forza creativa della Costituzione*
di Paolo Ciofi
Il programma economico della Costituzione: un confronto con Giorgio Lunghini e Luigi Cavallaro. I problemi che nascono dallo svuotamento dello Stato nazionale e dalla possibilità reale di incidere dei lavoratori nella vita pubblica. La questione centrale della proprietà. Dall'impianto costituzionale emerge una visione culturale e politica che va al di là delle ricette di Keynes
Cosa vuol dire, nelle condizioni del mondo di oggi, lottare per l'applicazione della Costituzione del 1948, che fonda sul lavoro la nostra Repubblica democratica? Il tema, ignorato per anni e colpevolmente messo in sonno dai partiti subito dopo il clamoroso risultato del referendum del 4 dicembre 2016, che ha respinto la controriforma renziana orientata a deformare l'assetto costituzionale secondo gli interessi del capitale finanziario e di un'oligarchia di comando, è stato con efficacia riproposto all'attenzione del dibattito pubblico dall'Assemblea per la democrazia e l'uguaglianza, organizzata da Anna Falcone e Tomaso Montanari al teatro Brancaccio di Roma il 18 giugno scorso.
In questo nuovo contesto indubbiamente suscita interesse il saggio di Giorgio Lunghini e Luigi Cavallaro dal titolo La Costituzione come programma economico, pubblicato sul numero 4/2017 di Micromega in un almanacco di economia che esplicitamente propone di «tornare a Keynes». Una visione che, sebbene gli autori non lo dichiarino in modo esplicito, sul terreno politico inevitabilmente ci riconduce al compromesso socialdemocratico, e dunque alla pratica politica del riformismo.
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Il ménage à trois della lotta di classe
Prologo e primo episodio
di B. A. e R. F.*
Diamo qui inizio a un nuovo «feuilleton»1, dedicato alla classe media nella lotta di classe. La classe media è l'oggetto di una sovrabbondante produzione nell'ambito della letteratura politica e sociologica borghese, ma è ampiamente trascurata dalla teoria comunista attuale. Cercheremo di rimediarvi. Dato che la questione è proteiforme, ci limiteremo al campo della classe media salariata (CMS) nel capitalismo odierno. Le sue lotte sono numerose, talvolta spettacolari e violente, e scoppiano ovunque nel mondo. Ma non è questa la ragione principale per cui pensiamo sia necessario affrontare la questione. La nostra preoccupazione centrale non è in effetti la quantità, ma la natura di queste lotte e il loro rapporto con quelle del proletariato. In definitiva, dalle numerose analisi parziali che dovremo sviluppare, speriamo di trarre una visione d'insieme del problema della CMS nel contesto di una rivoluzione comunizzatrice. I risultati ai quali perverremo devono essere considerati come provvisori e aperti alla discussione.
In un primo tempo, cercheremo di definire il campo e l'oggetto delle nostre investigazioni (episodio 1), di porre le basi per una teoria della classe media (episodio 2), e di servirci di questi risultati per analizzare il caso del movimento francese del 2016 contro la riforma El Khomri (episodio 3).
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Ricchi per caso? Un’agenda terapeutica per l’Italia
di Sergio Cesaratto
L’Italia si avvia alle elezioni politiche senza che alcuna formazione politica avanzi un progetto per il Paese, un’idea di dove esso debba dirigersi. Si va dalla continuità del “io speriamo che me la cavo” del PD al governo al vuoto programmatico del M5S, passando per l’incubo del ritorno berlusconiano. La sinistra vaga fra il cosmopolitismo e le trivelle. Lo scarso spessore politico e culturale dei gruppi dirigenti delle varie compagini è palese. Per esplicitare l’ordine di problemi che una politica all’altezza dovrebbe affrontare, torna assai utile la lettura del volume “Ricchi per caso” curato da Paolo Di Martino e Michelangelo Vasta (il mulino, 2017, 319 pp. 19€), due affermati storici economici. Il volume intraprende una sorta di percorso psicoanalitico delle ragioni profonde del drammatico passaggio storico, fra benessere e declino, che l’Italia sta da anni attraversando. Al centro dell’analisi vi sono infatti le istituzioni socio-politiche che costituiscono l’ossatura del Paese, la sua costituzione reale – spesso vero ostacolo alla realizzazione dei nobili intenti della Costituzione formale. In questo gli autori - sette nel complesso [1] - si rifanno a un importate filone della letteratura economica che vede nella qualità e appropriatezza storica delle istituzioni l’anima dello sviluppo economico.
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Lo spazio del politico nel mondo multipolare
Nuovi Stati, secessioni, sovranità
di Pierluigi Fagan
Politico, com’è noto, si riferisce alle questioni relative alla comunità o società che nell’Antica Grecia si chiamava polis e che oggi si chiama Stato. Non ha cambiato solo il nome, la polis greca era una città (o al più un’isola), la più grande e famosa, Atene, contava al suo massimo forse 130.000 abitanti ma non tutti erano soggetti politici di diritto. Oggi, uno Stato medio, secondo una brutale operazione che divide la popolazione terrestre per i poco più di 200 stati accreditati, conta poco più di 35 milioni di abitanti. Chiaramente, se la dimensione di Atene sosteneva ancora il concetto di comunità, lo Stato moderno contemporaneo verte sul concetto di società che, a sua volta, può basarsi o meno su una rete di comunità. Queste, possono a volte coincidere con etnie che i greci ritenevano una istituzione barbara, una istituzione imposta perché subita alla nascita[1].
Lo spazio del politico nel mondo, sembra attraversato da due correnti potenti. Da una parte, la popolazione mondiale è cresciuta di due volte dal 1950 e fra trenta anni, ad un secolo dalla data posta, risulterà cresciuta di tre volte. Fatte le debite proporzioni, per dare una approssimata idea della vistosità del fenomeno, è come se l’Italia, nel prossimo secolo, diventasse una nazione di 240 milioni di persone dai 60 che ne conta oggi.
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Storia, prudenza ed urgenza
di Ottone Ovidi
La storia con le sue vicende, le sue guerre, le sue rivoluzioni e controrivoluzioni, con le sue sconfitte e vittorie nazionali nonché con la lotta di classe affascina e ispira i cittadini tutti, ed è non solo un faro che illumina l’esistenza umana ma un riflettore intorno a cui ruota l’esistenza umana tutta e rende visibile anche quelle cose che possono sembrare nascoste o invisibili. Comprendere il carattere dialettico della storia significa leggerla come processo. La dialettica come processo storico ci permette di conoscere nel corso della storia stessa nuovi contenuti, nuovi oggetti. Nel momento in cui leggiamo la storia come processo dialettico ci appropriamo di questa come parte del processo dello sviluppo sociale e perciò questa stessa ci permette di capire che il cosa, il come e il fino a che punto della nostra conoscenza è determinato dagli stadi di sviluppo del processo della società.
La legge dell’identità mediata di soggetto e oggetto, forma e contenuto, essere e divenire è la forma razionale, per altri versi l’unica forma possibile, di realizzazione della storia.
Il metodo storico non è qualche cosa di formale e preliminare, ma si identifica con l’unità tra teoria e prassi, e richiede di schierarsi dalla parte del soggetto che non rinuncia a fare coscientemente la propria storia.
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Rosatellum 2.0: l'unica cosa certa
di Leonardo Mazzei
Coalizioni o car pooling? A proposito della nuova proposta di legge elettorale targata Renzi-Berlusconi
Andrà davvero in porto l'ennesimo raggiro sulla legge elettorale congegnato dalla collaudata coppia formata dal Buffone di Arcore e dal Bomba di Rignano?
Al momento non lo sappiamo. A giudicare dallo schieramento che si è pronunciato a favore del Rosatellum 2 (Pd, Forza Italia, Ap e Lega) non dovrebbero esserci incertezze. A leggere invece le cronache di questi giorni qualche dubbio appare assai fondato. Non solo Renzi è più prudente del solito, ma i gruppi parlamentari del Pd sembrano divisi sia per motivi politici che per i diversi interessi di tanti deputati e senatori.
Certo, se il quartetto di cui sopra fallisse, a dispetto dei numeri di cui dispone, saremmo di fronte all'ennesimo sputtanamento di una classe dirigente che in materia detiene già molti record. Ma questo lo sapremo solo nelle prossime settimane.
Intanto cerchiamo di capire tre cose: come funzionerebbe la nuova legge qualora venisse approvata, quali scenari disegna, quale accordo politico la sostiene.
Rosatellum 2: al peggio non c'è limite
Da anni ormai, ogni nuova proposta di legge elettorale ha l'indubitabile pregio di far rimpiangere quella precedente.
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L’ordine del tempo è il suo governo
Il nuovo libro di Carlo Rovelli
Elia Zaru
Che cos’è il contemporaneo? Con questo titolo circa una decina di anni fa Giorgio Agamben pubblicava il testo della sua lezione inaugurale del corso di Filosofia teoretica 2006-2007 allo IUAV di Venezia. La risposta a una domanda tanto complessa può essere sintetizzata in questo modo: secondo Agamben, «contemporaneità» significa dislocamento, sfasatura, frattura. Pensare la contemporaneità significa scinderla in più tempi, introdurre nel tempo «una essenziale disomogeneità»1 in quanto «il contemporaneo mette in opera una relazione speciale fra i tempi»2. In questo senso, il concetto di «contemporaneità» non solo si discosta, ma si oppone a quello di «presente». Quest’ultimo, infatti, si configura solo in relazione alla successione determinata nella triade passato-presente-futuro, come un momento liscio e aconflittuale di questi passaggi diretti verso un avvenire; il «contemporaneo», al contrario, si mostra come divenire in grado di rompere questa continua transizione triadica.
La domanda con cui Agamben ha deciso di intitolare il suo intervento è parte di una questione ben più ampia: quella del tempo, del suo significato e delle conseguenze politiche che questo significato assume. Il «governo del tempo»3 è fondamentale nei meccanismi di produzione e riproduzione capitalistica fin dalla nascita del capitalismo stesso.
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Scuola e storiografia
di Fausto Curi
Su “La Repubblica” si è discusso di recente se sarebbe possibile, e se gioverebbe, diminuire di un anno gli studi della Scuola secondaria superiore. Fra i problemi affrontati, quello di riuscire, nel caso, a contenere in soli quattro anni un programma di Italiano che si è fatto sempre più folto e che giunga realmente fino ai nostri giorni.
Alberto Asor Rosa, che ha dato inizio alla discussione, ha giustamente respinto la riduzione del corso a quattro anni e ha sostenuto altrettanto giustamente che, per quanto riguarda la letteratura italiana, è necessario estendere la trattazione fino ad affrontare la condizione attuale delle Lettere.
Molto discutibile, invece, e quindi da non accogliere in silenzio, la proposta di Guido Baldi, già docente nei licei e nell’Università di Torino. Dice in sostanza Baldi, proponendo un esempio: se ,dalla trattazione del Petrarca, eliminassimo tutto tranne alcuni sonetti, la canzone “Chiare, fresche e dolci acque”, e un testo dell’umanista, riusciremmo a trattare non solo alcuni narratori nostri contemporanei, come Tabucchi e Del Giudice, ma perfino il vincitore del Premio Strega 2017.
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“In Germania ha vinto la protesta. L'UE è irriformabile, come non capirlo?”
G. Russo Spena intervista Vladimiro Giacché
Non lo definisce “vento populista”, preferisce chiamarlo più semplicemente “vento della protesta” anche quando si tratta di commentare le elezioni tedesche e il grande exploit dei nazionalisti dell'AfD. Vladimiro Giacché, economista e presidente del centro Europa Ricerche, ne è convinto: “Se l'Europa vira a destra è per precise responsabilità della sinistra che è stata in buona parte corresponsabile delle politiche neoliberali (mi riferisco in particolare ai partiti socialisti/socialdemocratici) e dove non lo è stata, non ha saputo affrontare le radici della crisi e mettere davvero in discussione l’assetto dell’Europa di Maastricht”.
* * * *
Il crollo (annunciato) della Spd e la vittoria dell'estrema destra dell'AfD, sono questi i due aspetti predominanti del voto tedesco?
Aggiungo il crollo della CDU e della CSU, le due forze che sostenevano Angela Merkel. Non si tratta di un dettaglio: la frana riguarda entrambi i partiti che un tempo determinavano la politica tedesca.
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Il Movimento è morto. Viva il Movimento!
di Claudio Messora
C’era una volta il Movimento 5 Stelle. Fatto di cittadini che prendevano decisioni tutti insieme, dopo avere scartato migliaia di scelte alternative, valutate attentamente una per una. Tutte le decisioni, non solamente alcune. La televisione era considerata complice del sistema e artefice del decadimento civico e culturale. I sondaggi erano l’antitesi della buona politica, perché la democrazia diretta, da cui le proposte politiche nascono, è già il migliore sondaggio che si possa sperare di avere. La demagogia ripugnava tutti. I protagonismi erano il Peccato originale, da cui era necessario pentirsi e da sublimare nella retorica del portavoce. Per l’esattezza: “cittadino portavoce” (e che i conduttori non si sbagliassero). Tutto era trasmesso in streaming. Due mandati erano “due legislature” (e non dieci anni). Le cariche interne ruotavano ogni tre mesi, tutte, così nessuno avrebbe potuto impadronirsi di una poltrona e diventare inamovibile. Tanto un portavoce era solo un segnaposto della volontà degli attivisti certificati: era sostituibile. Le riunioni a porte chiuse erano un’eresia blasfema, perché contrarie alla trasparenza e perché per definizione ponevano nelle mani di pochi il potere di elaborare strategie nascoste, che viceversa dovevano restare competenza dei molti. Democrazia diretta e strategie di palazzo sono infatti incompatibili a priori. Il titolo di “onorevole” era una macchia indelebile da cancellare con lunghi pellegrinaggi nei MeetUp di origine.
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Di percorsi abbreviati, alunni competenti e insegnanti efficaci
Cosa significa educare oggi?
di Rossella Latempa
La vecchia Scuola fa acqua da tutte le parti. E’ lontana dal mondo dell’impresa, ha gli insegnanti più vecchi d’Europa, è fondata su saperi teorici e astratti, è sostanzialmente “analogica e cartacea”. Per fortuna, le competenze, il digitale e l’innovazione la salveranno. Attorno alle competenze e alla necessità di innovare si è costruito un vero e proprio racconto. Bisogna garantire un set di “saperi utili per la vita” (competenze di cittadinanza), che assicurino flessibilità ed employability. Ciò che conta è imparare ad imparare, saper apprendere sempre, per risultare vincitori nello struggle for life. Cosa e come si insegnerà nella scuola del XXI secolo? Le distinzioni disciplinari perderanno significato. Basterà fornire i saperi essenziali e sviluppare le giuste skills per ricercare e selezionare informazioni in rete. Eppure, problem solving and finding, Inquiry based learning, sono maquillages anglofili su pratiche che risalgono all’Accademia di Atene e che qualsiasi insegnante consapevole utilizza con gli obiettivi e i linguaggi specifici della propria disciplina. La pedagogia “del successo” è quella che crea ambienti, attività, metodi di apprendimento focalizzati su competenze utili per la vita. Da questa visione fluida e protesa al futuro scompare l’orizzonte di senso. Perché, a quale scopo tutto questo, qual è la nostra destinazione. L’educazione è innanzitutto una pratica morale e politica. E come tale necessita di una definizione delle sue finalità, prima che della sua efficacia. Efficace per cosa?
* * * *
Il tema del tempo-scuola e quello delle pratiche didattiche “innovative” sono tornati al centro del dibattito pubblico in occasione della recente firma del decreto che dà il via alla sperimentazione di diplomi quadriennali, da parte del MIUR.
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Perché la storia
di Bruna Ingrao
Bruna Ingrao riflette sugli effetti della drastica riduzione dello spazio dedicato alla storia del pensiero economico e alla storia economica all’interno dei corsi universitari in economia. Ingrao sottolinea, in particolare, l’impoverimento che ne deriva per la capacità degli economisti di interpretare la complessità dei fenomeni economici e sociali e richiama l’attenzione sulla necessità di tornare urgentemente a valorizzare le due discipline e la loro capacità di sollecitare la curiosità attraverso la narrazione di uomini, eventi ed idee
Nelle università si è drasticamente ridotto, nei corsi di economia, lo spazio dedicato alla storia del pensiero economico e alla storia economica. In Italia, come a livello internazionale, si assiste alla progressiva scomparsa della storia nella formazione dell’economista. Scompare dai requisiti della formazione perfino l’introduzione alla storia delle idee economiche; si diluisce la conoscenza degli eventi economici nel tempo: i regimi monetari, le fasi dello sviluppo, le crisi finanziarie, l’innovazione tecnologica, l’evoluzione delle politiche economiche. Le due discipline, marginali o assenti nelle lauree triennali, sono quasi scomparse nella formazione magistrale e dottorale, quasi fossero un ornamento per l’arricchimento culturale degli studenti, non un pilastro della formazione cognitiva.
Un laureato in economia può uscire dal percorso formativo ignorando Smith, Walras o Schumpeter, senza nozione del dibattito passato su liberismo ed economia pianificata, senza saper distinguere tra liberismo e liberalismo, senza conoscere la prima rivoluzione industriale, la grande depressione, l’evoluzione dei regimi monetari, e così via. Ciò porta in prospettiva all’impoverimento culturale della figura dell’economista. Dobbiamo preoccuparcene? E perché? Intendo argomentare che è urgente ripristinare il ruolo della storia economica e della storia delle idee nella cassetta degli strumenti dell’economista, non solo per l’ovvia ragione di evitare l’ignoranza.
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Contrordine: la creative class non è più progressista
Sul “pentimento” di Richard Florida
di Lucia Tozzi
La classe creativa non è più il motore della civiltà democratica, e la concentrazione di hipster, nerd e omosessuali in ameni quartieri urbani non è più il segno di una prosperità in procinto di espandersi a macchia d’olio, ma un epifenomeno della crescente diseguaglianza e della segregazione che ha investito la popolazione globale.
Ma chi poteva ancora sostenere delle idiozie del genere, viene da chiedersi?
La risposta è Richard Florida, il più grande divulgatore di questi e altri (pochi) concetti simili, e insieme a lui migliaia di politici, amministratori urbani dei cinque continenti, l’intero arco della stampa mainstream globale, e un numero più grande di quanto non si voglia ammettere di accademici e studiosi nel campo dell’urbanistica e dell’economia urbana. Perciò, se all’indomani dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca appare un libro intitolato The New Urban Crisis, sottotitolato How Our Cities Are Increasing Inequality, Deepening Segregation, and Failing the Middle Class – and What We Can Do About It, e firmato Richard Florida, author of The Rise of The Creative Class, non bisogna prendere la cosa sotto gamba.
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Brexit per andare dove?
di Salvatore Perri
In un’intervista il capo economista della Bank of England[1] ha fatto pubblica ammenda per le previsioni “errate” rispetto ai possibili effetti della Brexit, attribuendo questi errori al diverso comportamento degli operatori rispetto alle ipotesi del modello. Cosa accadrà realmente con la Brexit nessuno può dirlo, dipenderà dall’esito degli accordi che necessariamente dovranno essere presi. Se gli accordi dovessero modificare le libertà fondamentali, la libera circolazione di persone, merci e capitali, le conseguenze non possono che essere negative, perché non ci sono ragioni economicamente sostenibili a supporto del contrario. Nel caso della “hard Brexit” ci sarà una perdita di benessere per tutti, ma i rischi maggiori li correrà proprio la Gran Bretagna.
Aspettative e Brexit
In primo luogo la Brexit vera e propria non c’è stata, questa constatazione ovvia non è stata sufficientemente considerata nel dibattito attuale, allora cosa avrebbero stimato gli esperti della Banca d’Inghilterra? Essi hanno considerato i possibili effetti reali che “l’annuncio” della Brexit avrebbe determinato.
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Intolleranza e disattivazione politica. Le democrazie “off shore”
di Vincenzo Ruggiero*
L’intolleranza verso il dissenso costituisce una delle principali manifestazioni della crisi della politica di oggi, che ostacola la possibilità di azione collettiva, nega lo spazio per la mediazione tra le istituzioni e il popolo e impedisce poi ai settori sociali di rappresentarsi come agenti della propria storia (Balibar, 2016 ). In questo senso, la stessa nozione di cittadinanza è “sotto attacco e ridotta all’impotenza”, mentre i sistemi democratici assumono una forma “pura”, cioè diventano capaci di affrontare esclusivamente la propria logica e i meccanismi della propria riproduzione (ibid : 12). individui e gruppi, di conseguenza, vengono espulsi dal loro posto nel mondo (Sassen, 2014).
Mentre riducono le opportunità di forme di azione partecipativa, le democrazie contemporanee espandono allo stesso tempo la sfera della delegazione. Così, il processo elettorale diventa sempre più influenzato da interessi privati espressi attraverso l’iniziativa di donatori e di lobbisti. Sollecitare delle tangenti si dice ora “raccolta fondi” e la corruzione stessa è “il lobbismo”, mentre i lobbisti delle banche determinano o addirittura scrivono la legislazione che dovrebbe andare a regolamentare loro stesse banche”(Graeber, 2013: 114).
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Materialismo dialettico e “vernalizzazione”
La scoperta fondamentale di Lysenko
di Eros Barone
Solo la dialettica ci salverà.
J. Gabel, La falsa coscienza.
1. Darwinismo vs lamarckismo
Trofim Denisoviĉ Lysenko (1898-1976) è stato ed è tuttora un classico bersaglio della polemica anticomunista che, prendendo spunto dall’assunzione imperativa delle sue teorie biologiche da parte del potere sovietico nel periodo che va dal 1948 al 1964, ne ha fatto il prototipo, a caso invertito, del processo intentato dal potere ecclesiastico contro le teorie astronomiche di Galileo. Come è noto, Lysenko, ispirandosi al progetto di una nuova genetica elaborato dall’agronomo Ivan Mičurin (1855-1935) con l’intento di superare le posizioni dei «nipotini» di Mendel, respingeva la genetica classica basata sul principio secondo cui tutte le caratteristiche degli organismi sono il risultato di geni ereditari, sostenendo l’idea secondo cui è invece l’ambiente che conduce allo sviluppo di caratteristiche adattative (come, ad esempio, la cecità nelle talpe che vivono costantemente al buio), caratteristiche le quali possono essere trasmesse alle generazioni successive. Questa teoria dell’evoluzione, originariamente propugnata dal celebre naturalista francese Jean-Baptiste Lamarck agli inizi del XIX secolo, collimava perfettamente con la concezione filosofica del materialismo dialettico incentrata sulla priorità dell’influenza esercitata dall’ambiente sulla costituzione e sul comportamento dell’individuo.
La disputa tra gli assertori delle conquiste della teoria genetica e i seguaci dell’ipotesi di Lamarck aveva, del resto, in Unione Sovietica origini lontane.
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Illusioni partecipative
Il populismo della/nella rete nell’era della post-verità
di Gioacchino Toni
«Ritengo che la fortuna dei movimenti d’opinione che chiamiamo populismi sia in gran parte dovuta alla diffusione della comunicazione digitale e quindi al prevalere dei soggetti digitali sugli esseri umani reali. Proprio per il fatto di essere attivo soprattutto nella dimensione virtuale questo tipo di attore ha caratteristiche uniformi, modulari, che integrano quelle eterogenee degli esseri sociali reali. Così, indipendentemente dalla professione, dalla posizione sociale, dall’educazione e così via, i soggetti digitali tenderanno a provare le stesse paure, a manifestare le stesse ossessioni, a essere sensibili agli stessi messaggi politici. Le differenze degli attori sociali reali sono integrate nell’uniformità delle loro versioni o estensioni digitali» (A. Dal Lago, Populismo digitale, pp. 73-74).
«La ‘post-truth politics’ appare come un processo di deterioramento degli spazi di discussione della sfera pubblica in cui, soprattutto quelli online, sembrano luogo valido solo per il rafforzamento delle proprie credenze pregresse. [Si tratta di una] degenerazione che va tutto a vantaggio delle forze populiste [che] hanno saputo trasformare il web in un luogo utile per il consolidamento del loro macroframe, che ha bisogno di massicce dosi di sfiducia e di una dinamica fortemente conflittuale per poter crescere e affermarsi» (G. A. Veltri, G. Di Caterino, Fuori dalla bolla, p. 11).
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Catalogna: comunque vada, Madrid ha già perso
di Marco Santopadre
Pochi giorni fa era stato lo stesso primo ministro spagnolo ad annunciare l’incrudimento della repressione con una frase alla quale pochi media internazionali hanno dato risalto: “Non costringeteci a fare ciò che non vogliamo fare”.
Il governo di Madrid avrebbe potuto tentare di bloccare la road map indipendentista proponendo una via d’uscita di tipo politico. Rajoy avrebbe trovato una sponda entusiasta nei socialisti e nella stessa Podemos se avesse proposto a Barcellona una riforma del grado di autonomia della Comunità Autonoma Catalana (quella stessa negata solo pochi anni fa). Così facendo i nazionalisti spagnoli avrebbero aperto delle consistenti crepe nello schieramento indipendentista catalano, agganciando quella parte del PDeCAT che farebbe volentieri a meno del muro contro muro e preferirebbe continuare a galleggiare in una situazione – l’autonomia all’interno dello Stato Spagnolo – che ha fatto a lungo le fortune dei liberalconservatori di Barcellona.
Una parte consistente, anche se forse non maggioritaria, dello schieramento nazionalista catalano è stato infatti condotto ad abbracciare la rivendicazione del distacco da Madrid da anni di mobilitazione popolare e dalla pressione di una sinistra indipendentista e radicale che ha vissuto una forte crescita negli ultimi anni.
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Federico Caffè e la crisi del welfare state
Michele Cangiani
A dieci anni dall’esplosione della Grande Crisi quali sono gli spazi possibili per un intervento pubblico. Un volume collettivo appena uscito per Asterios analizza i vari scenari
Federico Caffè, trent’anni fa, individuò le tendenze della trasformazione neoliberale, ma non poteva immaginare quanto oltre, nel tempo e in profondità, essa sarebbe andata. Solo in seguito si è dovuto prendere atto che il “pensiero unico” (Ramonet 1995) aveva tolto l’ossigeno all’auspicabile controtendenza basata sulla “public cognizance”.
Le vicende finanziarie – della finanza privata, ma anche di quella pubblica (dalle manovre sui tassi d’interesse ai debiti spesso contratti per favorire affari privati o soccorrere banche in difficoltà) – hanno continuato a provocare cambiamenti reali della struttura economica e sociale fino ai nostri giorni, approfittando anche della crisi, iniziata nel 2007 proprio come crisi finanziaria. Caffè considerava le “sovrastrutture finanziarie”, Borsa compresa, piuttosto come causa di “inquinamento finanziario” e di costi sociali che come metodo efficiente di finanziamento delle imprese (Caffè 1971, p. 671). Questo atteggiamento ha reso, in seguito, più acuta e radicale la sua critica del dominio della grande finanza internazionale nell’epoca neoliberista. Egli sottolinea il problema dell’aumento dell’attività finanziaria, del rischio insito nelle sue distorsioni e anche semplicemente nel gonfiarsi del credito.
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33780 battute contro la teoria della classe disagiata
di Valerio Mattioli
Sei in volo verso Berlino o per la precisione verso Neukolln, che come tutti sanno è il quartiere dove le cose succedono. O forse stai andando a Peckham? Magari Ménilmontant? Poble Sec? Miera Iela? Mariahilf, Exarchia, Bairro Alto? Comunque: è uno squallido volo Ryanair con partenza da Ciampino, ma tuo nonno si poteva permettere al massimo un biglietto del tram per la gita fuori porta della domenica, quindi lo sai bene che quel tuo low cost da pezzenti vale tanto quanto un posto in prima classe. Ti aspetta un mondo di cocktail esotici miscelati da estrosi bartender tatuati, dotte disquisizioni sul rapporto tra Captain America: Civil War e guerra al Terrore, concerti indie per elettronichetta innocua e chitarrine intimiste, apericenacoli con focus su affinità & divergenze tra Lena Dunham e l’adattamento tv del Racconto dell’ancella, e pettegolezzi di quarta mano su Semiotext(e) che chi se ne frega che pubblica Paolo Virno (anche perché chi cazzo è costui?), l’importante è sapere chi scopa con chi perché hai visto I Love Dick? ecc ecc. Ti aspettano giorni di arte, di stile, di IPA, di spunti per sei o sette longform e di tanta, tanta Cultura.
Solo che a un certo punto ti viene in mente che altro che business class: il volo da Ciampino partiva alle 5 del mattino, per poco non sei dovuto restare in piedi per quanto era affollato, e quando è arrivato a destinazione ti ha lasciato a un aeroporto a dodici ore dal centro.
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