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Obama, #Occupy e le fratture globali

Segmenti di classe e ansie di ricomposizione

di Michele Cento

Note e riflessioni provvisorie su politica di classe, movimenti e istituzioni a partire da La grande frattura, di Bruno Cartosio

Ai Repubblicani che in questi anni lo hanno accusato di promuovere una lotta di classefiscale, Barack Obama ha ribattuto che tassare le fasce più ricche della popolazione statunitense non ha a che fare con il class warfare ma con il National Welfare. D’altronde, invocareil benessere della nazione, il bene comune, è sempre stata una strategia per neutralizzare la lotta di classe condotta da coloro i quali sanno che quel comune non gli appartiene. In questo senso, guardando alle politiche della sua amministrazione, molti sarebbero inclini a dare credito alle rassicuranti parole del presidente. Eppure, nonostante Obama rispedisca puntualmente al mittente le accuse di evocare spettri del passato, le argomentazioni dei Repubblicani non possono essere semplicemente derubricate a becera propaganda politica. In La grande frattura (Verona, Ombre Corte, 2013) Bruno Cartosio soppesa attentamente quelle accuse, sebbene il suo intento non sia di costruire la rappresentazione immaginifica di un Obama class warrior. Né potrebbe essere diversamente per chi, come Cartosio, ha buona memoria dell’indecoroso salvataggio dei banchieri di Wall Street a cui il primo presidente afro-americano non si è di certo sottratto. Piuttosto, Cartosio sottolinea come, per la prima volta negli ultimi trent’anni, con Barack Obama si sia assistito a un timido tentativo di ricomporre la «grande frattura» che attraversa la società statunitense.

Si tratta della frattura che il movimento #Occupy ha sintetizzato con l’efficace formula The 99% vs. the 1% e che si traduce nel corpo vivo della società in un’allarmante crescita della disuguaglianza sociale. I numeri forniti da Cartosio sono impietosi: nel 2007, l’1% più ricco della popolazione possedeva il 34,6% della ricchezza complessiva, e il 19% immediatamente sottostante il 50,5%; vale a dire che una sessantina di milioni di individui al vertice della piramide sociale detenevano l’85,1% della ricchezza nazionale, lasciando al restante 80% degli statunitensi – circa 240 milioni di persone – poco meno del 15%. Dati che vanno poi letti in un contesto di generale riduzione dell’imposizione fiscale sui redditi più alti. Non vi è dubbio che l’eventuale elezione di Mitt Romney alla Casa Bianca avrebbe finito per aggravare un quadro già di per sé desolante. Il malcelato disprezzo di Romney, ex amministratore delegato del fondo d’investimento Bain, per quel 47% di americani che vivono di sussidi, dichiarato in un fuorionda durante la campagna elettorale, non depone certo a favore di un suo presunto impegno sui temi sociali. Resta però da interrogarsi sull’efficacia degli interventi di Obama per ricomporre quella grande frattura che in più occasioni ha annunciato di voler sanare. In altre parole, è lecito tirare un sospiro di sollievo dopo le elezioni del novembre scorso, come lo stesso Cartosio sembra suggerire, oppure non resta che allinearsi all’autista di Albuquerque che, interrogato circa le sue preferenze elettorali a ridosso delle elezioni del 2000, avrebbe dato la seguente ineffabile risposta: «perché dovrei votare per un milionario oppure per un altro milionario?».

Questa domanda attraversa il testo di Cartosio, di cui qui ci serviremo non tanto per farne una recensione, quanto piuttosto per sviluppare alcune note e riflessioni provvisorie su politica di classe, stato di salute dei movimenti e quadro dei rapporti che essi intrecciano con le istituzioni in una prospettiva che tenti di guardare dentro e oltre i confini statunitensi. L’alternativa tra istituzionalismo del male minore, pronto ad appiattirsi su un «qualcosa di sinistra» offerto dall’arco parlamentare, e anti-istituzionalismo di maniera, che diluisce differenze laddove invece esistono, non è d’altronde peculiarità esclusiva del «Nuovo Mondo». Per quanto diffusa, ci sembra però un’alternativa ingannevole, nella misura in cui non prende in considerazione la possibilità di agire lo spazio delle istituzioni da un punto di vista conflittuale e di classe. A tal proposito, torniamo ancora una volta al problema da cui siamo partiti: il class warfare fiscale. Cartosio cita un’intervista di qualche anno fa del multimiliardario Warren Buffett, in cui quest’ultimo ammette con apprezzabile candore che, «certo, c’è guerra di classe, ma è la mia classe, la classe dei ricchi, che la sta facendo. E la stiamo vincendo». A parere di Buffett, è la distribuzione dei carichi fiscali a rappresentare efficacemente il nuovo rapporto di forza esistente in società e il fatto che la sua aliquota fiscale sia minore rispetto a quella della sua segretaria costituisce la misura del potere politico ottenuto dalla sua classe. Il governo dei ricchi, la plutocrazia, sembra aver messo pianta stabile sul suolo americano. Non è allora il caso di sottovalutare gli indizi forniti da un così fiero class warrior. Buffett ci sta infatti suggerendo che il capitale ha reagito alle sconfitte degli anni Sessanta appropriandosi di quel «pubblico» che nella fase fordista-keynesiana del capitalismo sembrava essere spazio di conquista di un proletariato multiforme e in ebollizione. Le politiche economiche pubbliche non sono dunque evaporate insieme agli Stati, come la vulgata neoliberale dominante ha proclamato in nome di un mercato autoregolantesi, segno ineluttabile dell’imminente quanto presunta fine della storia. Piuttosto, esse sono diventate la leva attraverso cui il capitale ha pianificato un gigantesco trasferimento di ricchezza dalle tasche dei poveri a quelle dei ricchi: dal 99% all’1%. Questo non significa sottovalutare l’impatto delle ristrutturazioni aziendali, delle riorganizzazioni del sistema produttivo, dei provvedimenti antisindacali, della repressione poliziesca e dello smantellamento del welfare: tutte misure attraverso cui è stata gravemente colpita una classe operaia globale variamente declinata. Significa semmai riportare a galla i meccanismi carsici di uno «Stato sommerso» – come è stato di recente definito da Suzanne Mettler – che ha impresso su quella che un tempo veniva orgogliosamente chiamata middle class il marchio di una proletarizzazione inevitabile. Secondo Mettler, lo Stato americano contemporaneo agisce mediante una «mano invisibile» che s’insinua in molteplici aspetti della vita dei cittadini americani, perfino in quelle aree che apparentemente sembrano essere di esclusiva competenza del mercato: mutui abitativi, sanità, prestiti agli studenti universitari, per fare alcuni esempi. In questo senso, la sfuggente e nondimeno efficace presenza dello Stato non si esprime sotto forma della «visible governance» tipica del Welfare State, ma attraverso sovvenzioni e detrazioni fiscali che agiscono sotto traccia e gonfiano il debito pubblico a vantaggio di ceti abbienti che acquistano abitazioni di lusso, di assicurazioni sanitarie che lucrano sulla salute, di banche che concedono con studiata leggerezza prestiti a studenti indebitati a vita. Lo Stato sommerso è dunque il luogo politico-istituzionale nazionale in cui precipita la nuova configurazione dei rapporti di classe determinatasi sul piano globale, e proprio per questo costituisce un indicatore della forza accumulata da quella classe capitalista transnazionale di cui Buffett è un esponente di primo piano.

Addentrarsi nei meandri delle politiche fiscali significa allora fare luce sulle dinamiche di classe che si danno attorno alla costituzione del bilancio dello Stato, terreno di scontro ineludibile non solo per lobbisti e congressmen, ma anche per movimenti che non ignorano la dimensione istituzionale, assumendosi piuttosto il compito di confrontarsi con essa da una prospettiva politica autonoma. Di contro all’indifferenza ostentata da Romney verso la grande frattura, Cartosio sottolinea come le politiche di Obama a favore di una maggiore equità fiscale siano un tentativo di ricostituire un’unità politica del sociale frantumata da un neoliberalismo refrattario al concetto stesso di società e, al tempo stesso, messa alla prova dalla dura denuncia delle disuguaglianze prodotta dal movimento #Occupy. Prova ne sia l’accordo per scongiurare il fiscal cliff strappato da Obama a un Congresso recalcitrante, che prevede  un incremento del prelievo fiscale sui redditi superiori ai 250.000 dollari e sui profitti derivanti dagli investimenti finanziari, l’estensione dei crediti sui prestiti agli studenti e alle famiglie non abbienti, il prolungamento dei sussidi ai disoccupati.

Resta ancora da chiarire se tutto ciò sia sufficiente per conservare almeno un briciolo di ottimismo. In realtà, sembra opportuno nutrire un po’ di sana perplessità attorno all’efficacia del disegno politico di Obama, destinato a scontare le contraddizioni intrinseche a uno Stato che si muove con scarsa destrezza nello spazio del capitalismo globale, da cui in ultima analisi originano le disuguaglianze. Inoltre, emergono sotto traccia, dall’analisi di Cartosio, altre allarmanti fratture che solcano il sempre più ampio strato di uomini e donne che vivono sulla soglia della povertà, o che quella soglia l’hanno già superata. Uno stato di indigenza registrato non solo più nei tradizionali ghetti degli afro-americani o nei quartieri dei latinos, ma che si insinua con sempre maggiore decisione anche nei suburbs dei bianchi, un tempo regno indiscusso dell’American beauty. Mentre le fila dei disoccupati, dei sottoccupati e dei precari, migranti e non, s’ingrossano sotto i colpi della depressione, non si verificano processi ricompositivi degni di nota. Insorgenze momentanee – se non estemporanee – hanno avuto luogo in questi anni, ma come spiegare, ad esempio, le annotazioni di Cartosio relative a operai, piccoli agricoltori e abitanti delle zone più povere del paese che votano per candidati repubblicani, il cui obiettivo è radere al suolo i residui del Welfare State e condannarli alla miseria permanente? Con le parole di Thomas Frank, riportate da Cartosio, si potrebbe forse dire che «la questione politica del nostro tempo è come mai le persone equivochino così tanto su quale sia il loro interesse di fondo». Certo è che non è sufficiente ridurre un popolo alla fame affinché scatti la scintilla della rivolta. Occorre piuttosto riflettere sul significato politico della classe, sulla necessità cioè di costruirla, di organizzarla e di animarla, pur nella consapevolezza delle «interruzioni» che la attraversano.

D’altronde il movimento #Occupy, che affiora di tanto in tanto dalla narrazione di Cartosio, sembrava nato proprio per dare una voce politica a quel vasto ed eterogeneo 99% colpito dalla crisi e saccheggiato dall’1%. Per quanto Cartosio riconosca a #Occupy il merito di aver sensibilizzato l’opinione pubblica attorno al tema della crescente disuguaglianza e favorito una svolta a sinistra della politica di Obama, il movimento sembra essersi sgretolato proprio a causa dell’incapacità di far interagire quell’eterogeneità che ne costituiva la forza propulsiva. A New York l’eccessiva condiscendenza verso le organizzazioni sindacali, sia pure venate da un certo radicalismo, come il SEIU, ha contribuito a dilapidare il capitale politico accumulato nelle strade della metropoli americane, che per un momento sono apparse come luogo di sintesi di segmenti di classe: lavoratori precari, migranti, donne, lavoratrici delle pulizie e dei fast food, studenti, attivisti politici provenienti da percorsi assai diversi. Collocati in un limbo istituzionalizzato, questi soggetti hanno perso la carica esplosiva originaria e sono defluiti in un generico 99% che chiede equità e giustizia, come se entrambe non avessero il loro arcigno volto di classe. L’oblio delle differenze e una certa ansia di ricomposizione ha segnato irreversibilmente la marcia di #Occupy dopo la May Day del 2012, quando decine di migliaia di persone sfilarono lungo la Broadway «scortate» di fatto dalle organizzazioni sindacali. Da allora la parabola di #Occupy ha intrapreso il suo cammino discendente: l’ansia di ricomposizione che invoca l’unità di «we the people» contro i plutocrati ha lasciato intatte le differenze sessuali, di razza e status giuridico che attraversavano il movimento, perché fare politica di classe significa inevitabilmente dover fare i conti con tali differenze, senza avere la pretesa di cancellarle con un colpo di spugna. Il limite di #Occupy è stato allora quello di cedere al richiamo della tradizione populista statunitense che, pur con tutte le sue lodevoli peculiarità rispetto a quella europea, non è in grado di mettere a valore le differenze ma solo di diluirle. Ciò non toglie che #Occupy abbia mobilitato segmenti dormienti di classe, ma ha lasciato largamente inevasa quella domanda di organizzazione politica e community organizing che, neanche un anno fa, l’anima di #Occupy Oakland Boots Riley indicava come prerequisito irrinunciabile per sviluppare un’insubordinazione reale.

L’assenza di un movimento politico all’altezza di tale domanda rende evidentemente tormentato il sollievo con cui Cartosio chiude il suo volume. In fondo, è lo stesso Cartosio a riconoscere che senza le lotte e le mobilitazioni del passato sarebbe stato impossibile, durante il New Deal e negli anni a seguire, «aprire lo scrigno del luogo di lavoro per introdurvi qualcosa di diverso dalle spietate impersonali leggi del mercato». Torniamo allora alla questione del rapporto tra movimento e istituzioni, consapevoli della non rappresentabilità della condizione precaria, migrante e operaia e quindi dell’impossibilità di delegare una reale politica di classe a un esponente centrista del partito Democratico americano. Qualche decennio fa Mario Tronti scriveva che la classe operaia americana ottenne tra gli anni Trenta e Quaranta una vittoria epocale, al punto tale da potersi permettere il lusso di smettere di lottare. Senza insistere sull’errore di prospettiva commesso, quella vittoria fu ottenuta facendo in primo luogo del sindacato CIO il «partito politico della classe operaia». È questo protagonismo «operaio» che latita oggi negli Stati Uniti, al netto di focolai di lotta che pure si danno nel tessuto vivo della società senza tuttavia riuscire a situarsi in un quadro politico più generale e coeso. Un protagonismo che non può essere trattato alla stregua di un automatismo che si attiverebbe una volta che la grande fattura tra ricchi e poveri viene palesata e l’inganno della classless society svelato.

Occorre allora concentrarsi sulla molteplicità di fratture che attraversano la società globale e, nello specifico, quella classe a cui sarebbe demandato il compito di abolire lo stato di cose presenti. Situandosi però sul piano della società globale si rivela insufficiente, per parafrasare ancora una volta Tronti, spostare con un tratto di penna Marx da Detroit a Wall Street. Per quanto quest’ultima rappresenti il simbolo della finanza mondiale, si rischia di rimanere abbagliati da un feticismo finanziario che fa della società che rappresenta lo stadio più avanzato dello sviluppo capitalistico, il destino che pende fatalmente su tutte le altre. Impariamo a lottare dai proletari americani e prenderemo il capitale europeo in contropiede, quando quest’ultimo raggiungerà lo stadio di sviluppo in cui attualmente si trovano gli Stati Uniti. Era in fondo questa l’idea di Tronti e ci sembra un’idea dura a morire.

Non è allora forse venuto il momento di abbandonare questo nostro American dream? Un sogno non è più reale solo perché è meno luccicante e patinato o, nella fattispecie, perché delinea scenari paradigmatici del conflitto anziché del consenso. Sbarazzarci di questo sogno è in effetti una terapia salutare, poiché ci permette di pensare Marx tanto a Detroit e Wall Street, quanto in India, in Cina, in Polonia, in Egitto o a Nardò. L’idea di un Marx globale non può essere però un espediente per risolvere il problema delle fratture interne alla classe postulando l’esistenza di un proletariato internazionale in progressiva e costante formazione. Fuori dal lessico trontiano, pensare a una classe operaia transnazionale non significa cedere all’ansia di ricomposizione, né ci dispensa dal rilevare le faglie che la attraversano, sebbene ci si assuma poi il rischio di costruire ponti e connessioni, consapevoli di quanto precarie esse siano. Venendo da una sconfitta epocale e stanchi di subire, vorremmo permetterci il lusso di adottare ricette semplici e preconfenzionate, che in un attimo rovescerebbero la situazione a nostro vantaggio. Come è noto, però, quelle ricette abbondano ai tavoli delle osterie dell’avvenire. Luoghi da cui i proletari si tengono volentieri alla larga.

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