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L’opposizione fiscale
Ovvero: il denaro è mio e lo gestisco io
A chi si interroga sugli orizzonti di una politica di massa nell’epoca della precarietà generalizzata non sarà sfuggita la proposta di sperimentazione politica comparsa in alcuni documenti recenti, più o meno rilevanti, che indicano le prospettive dei movimenti sociali in Italia. Si tratta di fare dell’opposizione alle tasse un terreno di sperimentazione, per sottrarla all’ambiguità e all’individualismo che ha caratterizzato questa pratica fino a oggi e trasformarla in una possibilità di riappropriazione di reddito. In parole povere la nuova linea di condotta pare essere: non paghiamo le tasse! Contro i finanziamenti delle grandi opere che gravano sulla fiscalità generale e la concentrazione della rendita nelle mani di pochi, riprendiamoci quello che è nostro! Non è chiaro perché tenersi venga chiamato riprendersi o riappropriarsi, ma questo è certamente un dettaglio. Bisogna invece capire che questa sperimentazione è al passo coi tempi, perché intreccia i bisogni di un ceto medio impoverito e dello stuolo di partite IVA che innegabilmente infoltisce le fila del nuovo precariato sociale.
L’opposizione alle tasse vanta grandi padri, come i rivoluzionari americani o il campione della disobbedienza civile Henry David Thoreau.
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Moneta e linguaggio
Christian Marazzi
È lecito chiedersi se la politica monetaria espansiva, in un periodo di “trappola della liquidità”, non sia di fatto una politica a tutto vantaggio del rentier, di colui che vive di rendite finanziarie e basta
È del 18 giugno la decisione della Federal Reserve, la banca centrale statunitense, di continuare a mantenere i tassi di interesse direttori prossimi allo zero e di ridurre di dieci miliardi di dollari l’acquisto mensile di obbligazioni del tesoro e ipotecarie.
Quest’ultima misura di politica monetaria, cosiddetta non convenzionale, era stata messa in atto oltre un anno e mezzo fa per stimolare la crescita economica americana grazie all’iniezione di quantità formidabili di liquidità. Si tratta di una strategia che con il passare del tempo ha influenzato le politiche monetarie di tutte le maggiori banche centrali dall’Inghilterra al Giappone fino anche alla Bce che, tra le varie misure per stimolare la crescita, ha recentemente annunciato di volere anch’essa perseguire una politica di allentamento quantitativo.
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Il populismo tecnocratico del «rottamatore»
di Lelio Demichelis
Renzi parla al popolo e lo raggiunge con le sue brevi frasi tempestive. I giornali e i notiziari televisivi moltiplicano e ripetono i suoi messaggi. Gli avversari vi si aggrappano, i comici ne fanno un successo. Ma ora è il momento di capire: si passerà dalle parole ai fatti?
L'Italia, paese di populisti e di populismi. Ne ha conosciuti ben tre (e mezzo), nel ultimi vent'anni, un record mondiale. Populismo: che è concetto classico della politica e della sociologia ma che tuttavia è un processo culturale prima che politico. E oggi economico prima che culturale e politico, nel senso che è appunto l'economia capitalista ad essere oggi un processo culturale prima che economico, producendo - prima delle merci e del denaro - le mappe concettuali, cognitive, relazionali, affettive necessarie per la navigazione nel mercato; trasformando quello che era il cittadino dell'illuminismo in lavoratore, merce, capitale umano - ovvero in mero homo oeconomicus. Tre populismi interi: Berlusconi, Grillo e Renzi. E il mezzo populismo della Lega. Tre padri politici invocati dal popolo perché lo sorreggano, lo portino da qualche parte, gli dicano cosa deve fare, perché questo stesso popolo si ritiene incapace (o non più desideroso) di assumersi la responsabilità di essere sovrano di se stesso.
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Fermo Immagine
di Alessandra Daniele
Da quando ha subito la millantata accelerazione renziana, la politica italiana non è mai stata così immobile. Da settimane non succede niente di concreto, solo vacue chiacchiere su quanti senatori non eletti possano danzare sulla capocchia d’uno spillo, e su come debbano essere scelti, a simpatia, a sorte, a cazzo.
Ogni residua parvenza di dialettica democratica è stata azzerata come neanche durante gli anni del berlusconismo imperiale, l’unico ruolo ormai concesso alla cosiddetta opposizione è quello di questuante che piatisce per un’udienza del sovrano – magari in streaming – durante la quale fingere di discutere cose già decise altrove da un pezzo.
Caduta così la maschera dell’intransigenza isolazionista, il Movimento 5 Stelle è pateticamente ridotto a mendicare appuntamenti sempre più mortificanti. Quello di giovedì scorso gli è stato rifiutato. Ma tanto Di Maio aveva judo.
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Cheney: presto un altro 11 Settembre, ancora più letale
Giorgio Cattaneo
Il primo passo è semplice, costruire un nemico: ieri l’Islam, oggi la Russia di Putin. La seconda mossa è scritta nella storia, da Pearl Harbor al falso attacco contro navi americane nel Golfo del Tonchino, casus belli per la guerra in Vietnam. L’avvertimento questa volta viene da un personaggio particolarmente inquietante come l’ex vicepresidente Dick Cheney, secondo molti analisti la vera “mente” della gestione politica degli attentati dell’11 Settembre, perfetti per avviare l’assedio strategico della Cina con l’occupazione dell’Afghanistan e quindi ipotecare il petrolio del Golfo grazie alla campagna contro le inesistenti “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein. E’ il “Daily Mail”, il 25 giugno 2014, a rivelare che, secondo Cheney, entro il 2020 molto probabilmente ci sarà un attacco terroristico di gran lunga peggiore rispetto a quello contro le Twin Towers, attribuito al “fantasma” di Bin Laden, già emissario della Cia in Afghanistan. In altre parole: starebbe per tornare d’attualità lo stesso copione del terrore, il pretesto per una nuova guerra.
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Rampini, parliamone
di Daniele Basciu
Non è la prima volta che Federico Rampini, su Repubblica, cita la Modern Money Theory. Lo fa anche oggi, qui: LINK.
Purtroppo, come già accaduto in passato, nell’illustrare che cosa sia la MMT ne interpreta alcuni punti fondamentali in modo non corretto. Così ( tra [ ] l’originale dell’articolo di F. Rampini)
[La MMT da` un ruolo dominante alla politica monetaria per trainare l’economia fuori dalla crisi]
No. La MMT illustra come l’unica politica efficace in situzioni di crisi legate a carenza di domanda aggregata sia la politica fiscale, e non quella monetaria. La carenza di domanda aggregata deriva da deficit troppo bassi.
Allora la domanda aggregata può essere ripristinata (fino al livello corrispondente alla piena ocupazione delle risorse materiali e dei lavoratori) dal monopolista della moneta (Governo che si avvale della Banca Centrale) ampliando il deficit con un taglio delle tasse (a spesa invariata), con un aumento della spesa pubblica (a tassazione invariata), o con un mix di taglio tasse + aumento spesa. Ciascuna di queste soluzioni amplia il deficit, quale delle tre adottare è semplicemente una scelta politica.
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Una discesa nel Maelström
Vittorio Capecchi
Quando Edgar Allan Poe incontra Vittorio Rieser
“Una discesa nel Maelström” è un racconto di Poe scritto nel 1833 e pubblicato nel 1841 ed è un racconto profetico sia per la diagnosi che per i rimedi suggeriti. La storia è quella del resoconto di un marinaio che si trova risucchiato con i resti della propria imbarcazione, suo fratello e gli altri componenti dell’equipaggio in un grande vortice perenne, il Maelström. Con le parole di Giorgio Manganelli che ha tradotto questo racconto per Einaudi ecco le “sensazioni di terrore, orrore e stupore” con cui il marinaio descrive la scena:
“l’imbarcazione sembrava sospesa , quasi per magia, a metà della discesa, sulla superficie interna di un imbuto di enorme circonferenza, di profondità prodigiosa, i cui fianchi, perfettamente levigati, sembravano ebano non fosse stato per la sconvolgente velocità a cui ruotavano, e la luminosità tetra e splendida che irraggiavano sotto i raggi della luna piena”. In quella discesa il marinaio incontra “una grande quantità di rottami galleggianti” e avverte tutto il fascino del lasciarsi andare verso i bagliori di quell’abisso “di luminosità tetra e splendida”.
Poi la personalità “scientifica” prende il sopravvento e il marinaio capisce che se vuole uscire dal Maelström deve rapidamente “fare inchiesta”. Osserva gli oggetti e i frammenti che girano nel vortice di acqua intorno a lui e riscopre una “legge scientifica”: gli oggetti a forma cilindrica sono risospinti verso l’alto mentre tutti gli altri oggetti con forme diverse finiscono risucchiati nel vortice.
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Equilibrismi ucraini
Militant
Da subito abbiamo voluto esprimere una posizione netta di denuncia dell’aggressione imperialista di USA, UE e NATO organizzata contro l’Ucraina. Non per improbabili nostalgie proto-sovietiche, quanto perchè si manifesta sempre più evidente la tendenza alla guerra che caratterizza la politica della UE. Ci sembra necessario prendere di nuovo parola sull’argomento, non tanto per quel che riguarda la cronaca della questione, anche se l’evoluzione di queste ore meriterebbe un’attenzione e una mobilitazione non ordinaria, quanto per distinguere, ancora una volta, i protagonisti della guerra in corso in Ucraina e contrastare le forzate analogie tra la piazza Maidan e la legittima resistenza del popolo e della classe operaia del Donbass e di tutta l’Ucraina. E’ sotto gli occhi di tutti, giornalai di regime a parte, che in Ucraina si sia instaurato un regime di terrore attraverso un colpo di stato, che con le elezioni del 25 maggio scorso ha tentato con il pieno appoggio degli USA e della UE di ridarsi uno straccio di legittimità formale. Abbiamo assistito, infatti, alle elezioni più farsesche e tragiche della storia recente. Tragiche perchè mentre nella zona occidentale si votava per l’oligarca di turno, scelto a Washington e Bruxelles, in un regime di terrore (la messa al bando di fatto del Partito Comunista Ucraino è l’esempio più eclatante), nella zona orientale del paese 1/3 della popolazione ucraina veniva sottoposta a bombardamenti aerei e di artiglieria.
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Il FMI peggio della NATO
di Comidad
Il quotidiano "la Repubblica" qualche giorno fa, a proposito dell'ultima sortita europea di Matteo Renzi, titolava trionfalmente: "vince la linea della crescita", con in sottotitolo una frase-ossimoro attribuita a Matteo Renzi: "chi fa le riforme avrà diritto alla flessibilità".
Conta molto poco in realtà la voce grossa che Renzi avrebbe esibito di fronte alla Merkel ed alla Commissione Europea, diretta da un personaggio ormai screditato e delegittimato come Juncker. In questo caso infatti la vera "flessibilità", la vera possibilità di deroga, rispetto ai "parametri europei" consisterebbe nel non fare le cosiddette "riforme", termine che, nel gergo del Fondo Monetario Internazionale, indica una serie di misure di privatizzazione e finanziarizzazione che vanno a vantaggio delle solite lobby, ma che, nel complesso, deprimono l'economia ed impoveriscono la popolazione, diminuendo drasticamente anche il gettito fiscale. La retorica renziana del "fare" si identificherebbe quindi con il fare guai. I media contrappongono il presunto attivismo di Renzi al presunto immobilismo di Letta, ma anche quest'ultimo di guai ne ha fatti parecchi, a cominciare dalla privatizzazione delle Poste, che attualmente rappresentano pur sempre il maggior datore di lavoro in Italia.
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Telemaco e l'eredità dell'euro... con beneficio d'inventario (cum grano salis)
Quarantotto
In margine al "discorso di ieri", svolto per l'apertura del semestre di presidenza italiana dell'UE, partiamo da questo commento al post di ieri, per focalizzare come la vulgata pop della crisi, recentemente evolutasi in modo "generico" (o meglio atecnico), non vada confusa con la "consapevolezza" effettiva della stessa, nei suoi integrali ed univoci legami con l'Europa della moneta unica.
Quest'ultima, a rigor di logica, costituisce null'altro che una eredità in pesante passivo, che qualsiasi Telemaco cum grano salis accetterebbe "con beneficio d'inventario"; cioè prendendone decisamente le distanze e non facendosi carico di debiti contratti da altri ("padri della Patria") e con un'imprudenza che ha fatto il gioco di creditori in ampia male fede (se non altro nel prestare, e nel non cooperare rispetto all'assolvimento delle obbligazioni che il trattato poneva, anche e specialmente, a loro stesso carico). Ecco il commento:
"Non so se finirà nei libri di storia .... vediamo come passa l'autunno. Il discorso di ieri dimostra che Renzi conosce benissimo dove sono i nodi del problema .... e ha cominciato a prendere le distanze dall'Europa e dalla Germania (a parole). Occorre vedere i fatti. Penso che una manovra recessiva nella legge finanziara 2015 potrebbe determinarne una fine prematura."
Vedi qual'è il problema?
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Tutti per la crescita, intanto negli States…
di rk
La vulgata neokeynesiana pro “crescita” ha su questa sponda dell’Atlantico il suo dogma incrollabile: gli Stati Uniti sono usciti dalla crisi grazie alla politica economica e monetaria espansiva dell’amministrazione Obama. Il suo profeta Paul Krugman, è vero, proclama in patria che la liquidità immessa non è ancora sufficiente per risollevare la middle class (anzi, ultimamente ha avanzato dubbi più “strutturali” ma i suoi adepti europei non sembrano aver preso nota). Nessuno comunque mette in dubbio che la strada giusta è quella.
Non importa che la “ripresa” Usa (tecnicamente, udite, data da metà 2009) sia stata a tutt’oggi la più lenta e asfittica del secondo dopoguerra; che i livelli di occupazione pre-crisi siano stati recuperati dopo cinque anni (!) ma con qualifiche e salari più bassi (vedi gli interessantissimi grafici pubblicati dal New York Times); che il livello di partecipazione al mercato del lavoro sia sul 60%, il peggiore da trentasette anni; che l’erogazione di food stamps sia a livelli storici; che la middle class sia in pieno deleveraging post-abbuffata da debito con riduzione dei consumi; eccetera, eccetera.
Con tutto ciò, negli ultimi mesi anche sul versante del Pil le cose paiono mettersi non bene. Inaspettato per gli esperti, il dato del primo trimestre ha segnato un -2,9% su base annua, il peggiore dal 2009.
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La bandiera rubata del papa progressista
di Sebastiano Isaia
Una parte della borghesia desidera di portar rimedio ai mali della società per assicurare l’esistenza della società borghese. Ne fanno parte gli economisti, i filantropi, gli umanitari, gli zelanti del miglioramento delle condizioni delle classi operaie, gli organizzatori della beneficienza, i membri delle società protettrici degli animali [già allora!], i fondatori di società di temperanza e tutta la variopinta schiera dei minuti riformatori (Marx-Engels, Manifesto del partito comunista).
Nell’intervista di ieri a Papa Francesco curata per Messaggero.it, Franca Ginasoldati non resiste alla tentazione di rivolgere al Supremo Vicario la solita rivelatrice domanda: «Lei passa per essere un Papa comunista, pauperista, populista. L’Economist che le ha dedicato una copertina afferma che parla come Lenin. Si ritrova in questi panni?»
Quindi: comunismo, pauperismo e populismo messi nello stesso evangelico sacco. Amen! Il povero Lenin trattato alla stregua di un qualsiasi amico dei poveri, lui che ancora giovanissimo e con qualche capello in testa sostenne a muso duro contro gli amici del popolo la tesi secondo la quale i contadini martirizzati dalle continue carestie avevano bisogno più di coscienza rivoluzionaria, che del soccorso della borghese filantropia e del conforto della religione.
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Dietro Juncker niente
Le presunte disponibilità della Merkel sulla flessibilità europea
Domenico Moro
Gli ultimi giorni sono stati contrassegnati dall’attivismo dei governi socialdemocratici europei, guidato dalla Francia di Hollande e, in parte, anche dall’Italia di Renzi. Lo scopo di tale attivismo è scambiare l’appoggio alla nomina del popolare Jean-Claude Juncker a Presidente della Commissione Europea con allentamento dell’austerità, in modo da permettere all’Europa di uscire dalla crisi in cui è sprofondata da sette anni. La novità, invece, sarebbe la disponibilità della Merkel ad accogliere queste richieste.
La realtà dei fatti è differente. La Merkel, come sempre, ha riaffermato che i trattati non possono essere rivisti. Ha solo ricordato che i trattati stessi, nella loro configurazione attuale, permettono certi margini di flessibilità. Al di là delle interpretazioni di certi mass media di nuovo non c’è nulla. La presunta flessibilità, che consiste in una dilazione dei tempi di rientro dal deficit eccessivo è stata già impiegata, ad esempio in Francia, senza che ne sia derivato alcun beneficio reale. Inoltre, secondo la Merkel (e su questo sono d’accordo tutti, compresi Renzi e Padoan), la flessibilità bisogna meritarsela, facendo le tanto decantate riforme. Queste non sono altro che controriforme di carattere neoliberista (deregolamentazioni del mercato del lavoro, privatizzazioni, ecc.), come quelle attuate in Italia da circa vent’anni senza alcun risultato positivo.
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Lavoro, classe e movimenti nell'Italia della crisi
di Diego Giachetti
Clash City Workers, Dove sono i nostri. Lavoro, classe e movimenti nell’Italia della crisi (La casa Usher, 2014). Scritto da un collettivo che si occupa di fare lavoro d’inchiesta e di analisi al fine di connettere e organizzare le lotte che sono in corso in Italia, quello che abbiamo tra le mani è un testo controcorrente rispetto allo stato attuale degli studi sulle classi sociali prodotti dal caravanserraglio mediatico della cultura neoliberista vestita di sinistra. Si può concordare con quanto affermano gli autori: da alcuni decenni la sinistra ha rinunciato alla capacità di analizzare seriamente la struttura di classe del Paese perdendosi dietro a «tatticismi politici, a suggestivi “immaginari”, a nuove narrazioni». Non altrettanto ha fatto la classe dominante la quale ha prodotto ricerche, analisi, sondaggi, dati e ragionamenti sulla struttura e la composizione delle classi subalterne. Essa infatti per governare ha bisogno di conoscere i sottoposti, mentre questi ultimi avrebbero bisogno di riconoscere se stessi per poter cambiare la loro condizione. La borghesia non si pone tormentate domande introspettive circa l’esistenza o meno delle classi sociali, né vaga alla ricerca delle classi perdute. Ha piena coscienza che esse esistono, misura con ricerche e classificazioni il loro peso economico e sociale, per concludere che esse sono qualcosa di naturale, che è sempre esistito. Certo i numeri, le serie statistiche, le quantificazioni sono spesso una delusione per le idee con le quali si ha, a volte, la pretesa di “intuire” il sociale e l’economico. Balza subito agli occhi, ad esempio, che concetti oggi in voga quali deindustrializzazione, residualità operaia, centralità del cognitario siano nei migliori dei casi semplificazioni, oppure proiezioni soggettive di chi scrive.
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Non c’è più la buona deflazione di una volta, signora mia!
La deflazione fa male? Se lo chiede un articolo di Michele Boldrin, Giovanni Federico e Giulio Zanella pubblicato su NoisefromAmerika . Secondo i tre economisti non si può giungere a questa conclusione, e quindi gli allarmi delle banche centrali sarebbero eccessivi, perché non vi sarebbero evidenze empiriche né una solida teoria alle spalle. Ma le cose stanno davvero così?
Le presunte evidenze empiriche
Boldrin, Federico e Zanella, per dimostrare che la deflazione non è generalmente associata alla contrazione dell’attività economica, riportano alcuni grafici nei quali sono plottati gli indici dei prezzi all’ingrosso e il PIL di alcuni paesi avanzati tra il 1850 e il 1900. Un’epoca in cui l’econometria neppure esisteva e le cui serie sono state ricostruite a posteriori, a partire dagli anni ’60, sulla base di notizie frammentarie circa la produzione del grano o l’estensione delle ferrovie. I grafici in effetti sembrano dare ragione agli autori.
Possiamo fidarci di questa ricostruzione? Ben poco. Il periodo che va dal 1873 al 1879 viene chiamato “Lunga Depressione” (non lunga espansione!) e durò, secondo i dati del National Bureau of Economic Research , ben 65 mesi (per fare un confronto, la “Grande Depressione” iniziata nel 1929 ne durò “solo” 43). Essa originò dal panico finanziario del 1873, partito da Vienna e poi contagiato in tutto il mondo industrializzato — tanto per ricordarci che la finanziarizzazione e la globalizzazione dell’economia non sono un’invenzione recente . Nel 1893 un secondo panico finanziario riportò l’economia in recessione.
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«L’austerità flessibile di Renzi è una conquista risibile»
Roberto Ciccarelli intervista Emiliano Brancaccio
Rigore. Intervista all’economista che denuncia la «precarietà espansiva»: «L’accordo con Merkel la peggiorerà». «Basterebbe guardare i dati dell’Ocse e del Fondo monetario internazionale per capire che non basta una debole mediazione sui parametri europei». Sul referendum no Fiscal Compact: «Sentiero impervio, ma può accelerare le contraddizioni in un quadro europeo insostenibile»
Flessibilità nel rigore. A questo risultato è giunto l’accordo tra Renzi e Merkel a Bruxelles. In realtà riguarda i soli cofinaziamenti nazionali ai fondi Ue esclusi dal conteggio del deficit e poco altro. Nulla del fiscal compact , né dell’austerità, sembra essere stato toccato. All’economista Emiliano Brancaccio chiediamo se Renzi è riuscito a trasformare il bastone del rigore nella carota dell’austerità flessibile.
«Renzi sta solo cercando di rinviare le scadenze e non si azzarda a toccare le regole — risponde Brancaccio — Durante la campagna delle primarie aveva più volte evocato la possibilità di cambiare i trattati. Ora si limita a chiedere un’austerità un po’ più “flessibile”. In sostanza, la trattativa verte su un mero rinvio di un anno o due degli obiettivi di pareggio del bilancio. Che la richiesta venga accolta è da verificare, visto che Commissione Ue ed Ecofin risultano tutt’ora ostili. Ma anche ammesso che Renzi riesca a spuntarla, otterrebbe solo un margine in più per il deficit di 0,2 punti percentuali. Una conquista risibile rispetto alla gravità della situazione».
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Aura d’Italia
Miguel Martinez
Ogni tanto, mi viene da scrivere una riflessione sperimentale, dove semplifico molto e compio sicuramente errori, ma mi serve per mettere in ordine esperienze e idee.
Quindi non prendete troppo alla lettera ogni parola, cercate di cogliere il senso generale.
Innanzitutto, la crisi sta cambiando il volto dell’economia italiana. Tra tante altre realtà, ha messo in crisi i pilastri della sinistra realmente esistente, istituzioni come la Coop e il Monte dei Paschi di Siena, con il loro contorno politico.
Contemporaneamente, diventa centrale la commercializzazione dell‘Aura d’Italia.
Aura di di Estrosi Creativi che Coniugano Modernità e Tradizione nel Solco tracciato da Leonardo e Michelangelo… con due aspetti paralleli e inseparabili: turismo e moda.
Il grosso ricade su tre luoghi-cartolina che tutto il mondo riconosce, cioè Venezia, Firenze e Roma.
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Il tramonto di un’avventura immaginaria
Roberto Donini
Karl Marx amava, nella sua passeggiata domenicale verso le alture londinesi di Hampstead, leggere e declamare Dante. “Segui il tuo corso, e lascia dir le genti”. Questo famoso verso del gran fiorentino rafforza il suo disinteresse verso la superficialità della opinione pubblica e chiude la prefazione alla prima edizione del 1867 aprendo la trattazione del libro I de “Il Capitale”: la merce, lo scambio, il denaro….
Marx, togliendosi dalla chiacchiera, si volge a ciò che è reale, che hegelianamente è anche razionale, cioè già illuminato da altri studi ma anche da “pratiche” (sociali e politiche) di uomini in carne ed ossa. Al contrario, lo spazio mentale di SEL, che in compendio, come il Bignami, riassume tutti i mali della sinistra anti-marxiana, è di volgersi all’inverso dal reale all’immaginario soggettivo, al dir delle genti.
In questi anni a partire dall’aver visto una “cosa” (un osso? un sasso?) di Occhetto, la mente di tutta l’ “intellighenzia” di sinistra, moderata o radicale, ha avuto questa fortissima inclinazione soggettivista, tanto evidente nella retorica assai demagogica del “dobbiamo fare” e di tutta la declinazione dei verbi di volontà a fronte di un’analisi infantile e manichea della realtà ridotta a “il grande male è Berlusconi”.
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Lo stato dell’economia
Sara Farolfi intervista Mariana Mazzucato
In Italia si è rinunciato da tempo a definire un piano di rilancio del sistema industriale. Le partecipazioni statali e la gestione spesso corrotta dei fondi pubblici ha condizionato, anche a sinistra, il dibattito sull’utilità dell’intervento pubblico a sostegno dell’industria.
Economista, docente di Scienza e tecnologia all’Università del Sussex, Mariana Mazzucato era in Italia lunedì scorso per presentare, in un convegno organizzato all’Università La Sapienza, il suo ultimo libro, Lo Stato innovatore, appena tradotto da Laterza.
Nel suo libro lei ripropone il tema dell’azione pubblica in campo economico. Un’idea di Stato dunque visto non solo come arbitro dei conflitti tra privati, ma attivo e trasformativo. Può farci qualche esempio?
Il vecchio modo di pensare lo Stato come soggetto che interviene per affrontare i fallimenti del mercato è sbagliato. Il punto sostanziale del libro è che per essere attivo lo Stato deve avere un approccio giusto – quello che definisco un framework mission oriented, che definisce gli obiettivi di lungo termine, concentra gli sforzi di ricerca, stimola gli investimenti pubblici e privati e apre la strada a nuovi prodotti — altrimenti si può essere attivi, come avviene in Inghilterra, ma solo limitando gli investimenti a politiche di incentivi o di detassazione.
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La CGIL e i migranti
Ovvero il sonno dell’ombelico genera mostri
Che i sindacati e i sindacalisti siano abituati a guardare il proprio ombelico non è certo una novità; forse più innovativa è la pretesa che anche altri lo guardino. È questa la novità proposta da Piero Soldini, responsabile nazionale per l’immigrazione della CGIL, in una recente intervista circa il rapporto tra il suo sindacato e i lavoratori migranti. Velata dall’apparente colpevolizzazione del ruolo della CGIL nel rappresentare i lavoratori migranti all’interno del direttivo nazionale del più grande sindacato italiano, alla fine di queste dichiarazioni giunge la richiesta di far capo al loro ombelico. Ma procediamo con ordine e ampliamo il quadro.
Negli ultimi decenni il lavoro migrante è aumentato esponenzialmente, al pari delle forme di lavoro che lo sfruttano. Lo Stato non si è tirato indietro dal legiferare in materia, tutelando legalmente lo sfruttamento e garantendo centralità al povero datore di lavoro, altrimenti preda dei flussi economici globali (la Bossi-Fini). Il sindacato, dal canto suo, ha spostato sempre più lo sguardo sulla propria organizzazione e sulle lotte intestine che lo attraversano, divenendo sempre più spesso rappresentante dei suoi stessi funzionari. Un sindacato i cui sindacalisti si tutelano dal loro stesso sindacato… non è una presa per il culo, è così. È questo, in sintesi, il processo di «ombelicalizzazione sindacale». Ma, appunto, fin qui nulla di nuovo.
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Il cambiamento produttivo italiano nell’integrazione economica della UE
Militant
Da anni sui quotidiani e organi vari di discussione politico-economica si fa riferimento allo straordinario potenziale artistico dell’Italia colpevolmente non sfruttato, nonché all’export quale strumento principale su cui l’economia italiana dovrebbe puntare per stimolare la crescita. Una discussione apparentemente innocente o di buon senso, ma che in realtà nasconde obiettivi assolutamente pragmatici e in linea con la nuova specializzazione produttiva interna all’Unione Europea. La struttura produttiva italiana sta cambiando da anni. Lo smantellamento progressivo dell’industria manifatturiera – e più in generale di ogni suo mezzo di produzione effettivo – non è un caso della storia, e neanche una necessità data dalla competizione mondiale, ma un preciso obiettivo perseguito dalla struttura economica europea. Per capire questo passaggio è utile guardare agli Stati Uniti. Nessun singolo Stato degli USA ragiona in termini di autosufficienza economica, ma tutti hanno adattato con il tempo la propria economia alle necessità della struttura produttiva generale. Così abbiamo Stati in cui si ritrova una concentrazione manifatturiera, altri in cui è centrale la specializzazione tecnologica, altri ancora destinati al turismo, soprattutto interno. Ogni singolo Stato degli Stati Uniti non durerebbe un giorno senza l’integrazione economica derivante dai rapporti con il resto dell’Unione.
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Le conseguenze economiche di Mario Draghi
di Jan Toporowski*
Il presidente della BCE Mario Draghi ha annunciato il 5 giugno tre misure che dovrebbero rilanciare l’economia europea e invertire il declino dell’inflazione, ora appena lo 0,5% nella zona euro.
La Banca centrale europea ha portato il tasso di interesse sulle riserve depositate presso la Banca a -0,1% (in altre parole, alle banche commerciali sarà addebitato lo 0.1% sui depositi delle loro riserve presso la BCE), diventando la prima banca centrale importante ad imporre tassi di interesse negativi. Alle banche commerciali saranno offerti 400 miliardi di euro di credito, a condizione che esse li prestino alle imprese. Dovrebbe essere poi introdotto uno schema per rendere più semplice [alla BCE, ndr] comprare asset-backed securities (ndr: titoli aventi dei crediti a garanzia, si veda: http://www.borsaitaliana.it/notizie/sotto-la-lente/assetbackedsecurities.htm ). Nel frattempo cesserà la sterilizzazione degli acquisti di titoli di Stato da parte della BCE (cioè, la BCE non venderà titoli a lungo termine per assorbire le riserve con cui paga i titoli di Stato). Queste misure hanno eccitato il mercato per un poco e l’Euro si è leggermente svalutato, dopodiché le cose si sono stabilizzate nuovamente.
Quali saranno le conseguenze di tali misure? Possono invertire la deflazione dell’economia europea? Siamo così abituati alla pretesa dei banchieri centrali e degli economisti monetari secondo cui la politica monetaria determina il ciclo economico che pochi ricordano oggi che la banca centrale non funziona all’interno del sistema di produzione e di scambio nell’economia.
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Agamben: Il fuoco e il racconto
Andrea Cirolla
In occasione di un’intervista rilasciata a Enzo Siciliano nel 1974, in qualità di ospite del programma Rai «Settimo giorno», Giorgio Colli dichiarò che «in Nietzsche, la distinzione, o se vogliamo l’opposizione, tra filosofia e arte cade, cioè il suo tipo di espressione è un’espressione unitaria in cui si può parlare al tempo stesso di pensiero e di arte, di espressione artistica».
È un discorso che può valere per lo stesso Colli, e pure per un altro Giorgio: Agamben, che nel saggio conclusivo de Il fuoco e il racconto(libro di cui qui è già apparsa un’anticipazione) pare approfondirlo, laddove evoca un tema a sua volta evocato da Michel Foucault nelle sue ultime interviste. Il tema, o meglio l’idea, si riferisce a una «“estetica dell’esistenza”, del sé e della vita concepiti come un’opera d’arte». Ma non si fraintenda la cura di sé – di ciò si parla, parlando di estetica dell’esistenza – in senso estetizzante; la sua sfera di pertinenza è la sfera etica, e dunque ha la felicità come scopo ultimo. Un problema nasce dalla consapevolezza che del sé non c’è traccia sostanziale: «Il sé, in quanto coincide […] con una relazione riflessiva, non può mai essere sostanza, non può mai essere un sostantivo».
Non sarà sostanziale, eppure una traccia c’è. Anzi, a dire il vero non esiste altro. Perché il soggetto non è dato in anticipo, lo dobbiamo costruire noi, e per iniziare, ossia per individuarci, non possiamo che seguirne appunto la traccia, lavorando, scampando all’«abisso buio e senza fondo» cui è condannato colui che vuole entrare in un rapporto con sé anziché riconoscersi nella relazione che è in verità ogni soggetto: la relazione con sé.
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Integralismo 2.0 vs. umanesimo digitale
di Mika Satzkin
A Wall Street, il 65-70% delle transazioni è oggi compiuto da macchine. Complessi algoritmi selezionano dati, elaborano percorsi, tracciano mappe e infine decidono su quali territori inscrivere il proprio segno, garantendosi utili sempre crescenti. Se scoprono varchi nella rete, la penetrano senza lasciare traccia. In gergo tecnico, queste transazioni vengono definite high frequency trading. Il 2,3% degli “operatori” di Wall Street è composto da cyborg addetti a queste operazione, cyborg che si servono dell’intervento umano solo compiti grezzi e servili: accensione, spegnimento e manutenzione. Sappiamo tutti quanta parte abbia avuto il trading a alta frequenza nel produrre o amplificare le crisi di sistema che si sono prodotte dal 2008 a oggi.
Al contempo, nella rete milioni di esseri umani stanno usando un computer. Lo usano come mezzo, ignorando però il fine che li orienta. Il loro orizzonte di senso è una filiera digitale: Wikipedia, Facebook, Istagram. La loro azione è “lavoro”, solo che nessuno la chiama più così.
Per generare un valore tangibile, queste reti sociali-digitali hanno bisogno che moltissimi individui partecipino al loro gioco senza che abbiano piena consapevolezza di quello che stanno facendo. Ma, esattamente come accade nella finanza iper-speculativa, invece di espandere l’economia creando più valore quantificabile, l’ascesa di queste reti sta arricchendo solo una ristretta élite di tecnocrati.
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Trappola della liquidità o trappola del risparmio?
Andrea Terzi*
La difficile e ostinata crisi dell’economia e della politica europea ha conosciuto nelle scorse settimane due passaggi significativi.
L’esito delle elezioni del 25 maggio ha messo all’ordine del giorno la “fine dell’austerità”. Nella consultazione si sono affermate invero due posizioni assai differenti: quella che domanda un indebolimento delle istituzioni europee tout court a beneficio delle singole identità nazionali e quella che invece sollecita un cambio di marcia della politica economica europea. Ma comunque la si guardi, l’attuale mix di politiche strutturali e austerità perde consenso, ed è ragionevole sperare in un cambio di rotta che tuttavia richiede un non facile cambio di prospettiva (tema che ho affrontato in Salviamo l’Europa dall’austerità[1]).
L’altro passaggio rilevante è stato il pacchetto di provvedimenti che la BCE ha annunciato il 5 giugno, accolto con un misto di compiacimento e perplessità. A mio parere, si tratta soltanto del seguito dell’azione che la BCE ha già intrapreso da oltre due anni e con la quale si propone di riportare i tassi del mercato monetario là dove la BCE li vuole (e cioè prossimi allo zero) e di normalizzare il sistema bancario dell’eurozona. La frammentazione del mercato interbancario sta gradualmente regredendo, ma rimane oggetto d’attenzione della BCE. Se l’azione avrà successo, sarà come aver slegato le gambe alle banche: che poi si mettano a correre, a camminare, oppure restino ferme, dipenderà poco o nulla dalla BCE.
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Marx e Keynes: ritorno al futuro per risolvere la crisi
di Carlo Formenti
Cosa penserebbero Marx e Keynes dell’economia finanziarizzata e marchiata da spaventosi tassi di disuguaglianza che caratterizza questo indigesto inizio di secolo? In quale misura potrebbero utilizzare le categorie analitiche da loro inventate per capire cosa sta succedendo al nostro mondo? Penserebbero di avere sbagliato tutto o troverebbero una qualche conferma, ancorché parziale, alle loro diagnosi e previsioni? Infine, se fosse loro concesso di dialogare, come giudicherebbero le rispettive teorie: le riterrebbero almeno parzialmente confrontabili o del tutto alternative e incompatibili?
Domande oziose, risponderebbe un qualsiasi economista: la scienza – già perché anche l’economia, in barba ai suoi imbarazzanti fallimenti, pretende ancora di essere una scienza – non si fa con i se né con gli esercizi di immaginazione, ma analizzando e interpretando numeri e fatti concreti. Eppure esiste almeno un economista che queste domande ha deciso di porsele e ha pure coraggiosamente tentato di rispondervi. Si chiama Pierangelo Dacrema, insegna Economia degli Intermediari Finanziari all’Università della Calabria ed ha appena pubblicato, per i tipi di Jaca Book, "Marx & Keynes. Un romanzo economico".
Romanzo economico!? Suona strano vero? Del resto, volendo mettere a confronto Marx e Keynes senza trascinare il lettore in una noiosissima successione di dissertazioni astratte sulle rispettive tesi, non restava altra via se non quella dell’immaginazione letteraria.
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S-VERGOGNAMOCI!!!!!!!!…………………………………………………………
la“campagna” estiva della coordinamenta
La vergogna è un sentimento che si prova quando si pensa di aver commesso qualcosa di sbagliato…e la domanda è: sbagliato rispetto a cosa, rispetto a chi?
Le scale di valori che si assumono a riferimento non sono neutrali, rispondono a scelte precise e, nella nostra società, a scelte di potere che vogliono far rispettare lo stato di cose presente, mantenere lo sfruttamento, la divisione in classi, la divisione in ruoli sessuati, l’autorità, la legalità, la “moralità”….
La sottomissione non si conquista solo con la coercizione e le punizioni, con il monopolio della violenza, con divieti, sanzioni e obblighi, ma passa anche attraverso l’interiorizzazione di questi divieti e di questi obblighi.
Indurre all’obbedienza con l’autocolpevolizzazione è più efficace.
Si spaccia per “normale” e per “naturale” l’esistente.
Veniamo spinte/i fin dalla nascita ad accettare e fare nostra una scala di valori che serve invece soltanto a perpetuare il dominio, in questo momento, inscindibilmente patriarcale e capitalista-neoliberista.
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Venghino siori! Venghino!
di Piemme
Sappiamo una cosa per certa, che il neoliberismo è quello stato in cui il capitalismo si manifesta nella forma che gli è più congenita, quella del demone che scatena tutta la sua crudeltà divorando tutto ciò che gli capita a tiro, come Saturno i suoi stessi figli. Credessimo alla filosofia della storia hegeliana, ci piacerebbe pensare che questo sia davvero l'ultimo stadio, il capitolo finale del ciclo biologico della bestia.
Piegata l'ondata operaia degli anni '60 e '70, posto fine al "ciclo keynesiano", il capitale si è dato ad una caccia sfrenata al profitto (suo impulso vitale), razziando ogni risorsa disponibile. Dal saccheggio di quelle del cosiddetto "terzo mondo" è passato all'estorsione su larga scala delle proprietà pubbliche e dei beni comuni negli stessi paesi imperialistici. Seppure in maniera e con ritmi diseguali a seconda delle nazioni, tutto il privatizzabile è stato privatizzato, a cominciare dalle banche centrali e dalla facoltà di emettere moneta, per sbranare poi ogni sorta di cespite statale, come pure i risparmi dei cittadini, erosi da una crudele politica tributaria .
In Italia questo processo ebbe inizio con il famigerato "divorzio" del 1981 tra Ministero del tesoro e Banca d'Italia, primo atto di quel processo per mezzo del quale lo Stato, se ora voleva spendere più di quanto incassava, doveva indebitarsi, non più solo coi propri cittadini, ma sui mercati finanziari internazionali, preda dunque dello strozzinaggio, più noto come "crisi del debito pubblico".
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Prodotto Interno Legale
Augusto Illuminati
Alberi della legalità, crociere scolastiche anti-mafia, allocuzioni quirinalizie, cerimonie in onore di Falcone e Borsellino a strafottere. È maggio, bellezza, mese mariano e di commemorazioni pelose, nonché di comizi elettorali in cui tutti i candidati si appropriano dei defunti e invocano per i rivali il 41 bis. Virtù e onestà tornano di moda.
A un’incerta primavera segue lo scoppio dell’estate e a giugno arrivano i nuovi episodi corruttivi dissipando le residue nebbie retoriche e additando la verità effettuale della cosa: mafia, camorra e ‘ndrangheta entrano nel calcolo del Pil, sommandosi al giro di tangenti che già ne faceva parte, tolta la parte spostata su conti esteri. Il presidente del Senato Grasso invoca l’applicazione alla corruzione della legge anti-mafia, ratificandone la virtuosa confluenza. Le grida si susseguono come i 22 livelli di controllo interno sull’Expo –più sono i controllori e i declamatori di virtù più alto è il costo della corruzione e più sale il Pil.
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Le ali del sacrificio
La ristrutturazione fredda di Alitalia
Chi pensa che i sacrifici umani abbiano fatto il loro tempo si sbaglia di grosso! Se cambia la forma non vuol dire che la sostanza si modifichi di conseguenza. Perciò, sappiate che il sacrificio umano esiste ancora, negli ultimi decenni è particolarmente in voga e si fa chiamare ristrutturazione aziendale, austerità, flessibilità, snellimento industriale, ricapitalizzazione. La morte non è più immediata, siamo più sadici che in passato e godiamo nel veder lentamente morire le persone. Un esempio? Quanti ne volete. Prendiamone però uno eclatante, il caso di Alitalia.
Il 9 giugno è stato ufficialmente annunciato un accordo che a breve condurrà all’altare Alitalia, compagnia nazionale italiana in deficit dall’inizio dei tempi, per celebrare il suo sposalizio con Etihad, azienda di voli appartenente ai ricchi emirati arabi, forse gli unici che in questi anni di crisi hanno visto aumentare in modo esasperato i loro patrimoni, grazie anche alle promozioni che hanno riguardato gran parte delle aziende occidentali a corto di liquidi. Questa nuova unione, che segue il fallito tentativo di rianimazione portato avanti dalla cordata di investitori nostrani, vedrà la compagnia araba versare ben 560 milioni di euro all’Italia che, nonostante tutto, attraverso la persona di Lupi afferma che Alitalia resterà una compagnia europea.
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