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Grillo, e ora che si fa?
Francesco Santoianni
In fondo, questo calo elettorale del Movimento Cinque Stelle (pur facendo la tara con la relativa crescita del PD, che ha trasformato questo calo in una débâcle) era facilmente prevedibile. Per carità, nessun link a miei precedenti articoli. Sarebbe bastato riflettere sul suo progressivo calo nelle varie elezioni amministrative; alle sempre più asfittiche sue iniziative, al progressivo disimpegno dei suoi “militanti” (nonostante l’aumento degli “Attivisti certificati” che nessuno ha visto mai ma buoni per votare in Rete qualche candidatura o espulsione).
Il tutto comincia a ridosso delle elezioni febbraio 2013 quando, il riversarsi di una fiumana di persone cariche di speranze e aspettative, verso il Movimento Cinque Stelle fu visto da Grillo non come occasione per strutturare un Movimento democratico e articolato con il quale interagire con la società bensì come una minaccia alla sua Chiesa che avrebbe dovuto portarlo oltre la soglia del 51%”. Quindi, calo di saracinesca verso tutti quei movimenti di lotta, (per non parlare di intellettuali che non fossero disposti a mero vassallaggio), nessuna vera partecipazione a cortei o mobilitazioni e, sopratutto, caccia all’eretico tra le file del “Movimento”.
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Un risultato molto chiaro. Ma non definitivo
di Aldo Giannuli
Risultato netto e di non ardua interpretazione: Renzi ha vinto, il M5s ha perso, il centro non esiste più, la destra è in via di dissoluzione, piccole ma significative affermazioni di Lega e Lista Tsipras. Inutile cercare attenuanti o giustificazioni: i numeri parlano chiaro. Ora cerchiamo di vedere cosa c’è “dentro” questi numeri, cercando di tener presenti percentuali e voti assoluti anche se non completissimi (mancano solo 60 sezioni, per cui possiamo ritenere i dati definitivi, salvo piccolissimi discostamenti finali). In primo luogo, va detto che la forte astensione prevista c’è stata, ma si è distribuita in modo molto più disomogeneo del passato: è stata molto alta nel sud e nelle isole, mentre, al contrario i risultati più favorevoli alla partecipazione si sono avuti nei due collegi settentrionali ed, in parte, al centro.
E non si tratta di divari da poco: nelle isole ha votato il 42,7% e nel nord ovest il 66,3% con uno stacco di quasi 24 punti, nel sud il 51,7% e nel N. Est il 64.5 in uno stacco del 13%. E questo ha, ovviamente, avvantaggiato molto chi è forte nelle circoscrizioni con una maggiore partecipazione (il Pd) e, al contrario, svantaggiato chi è radicato in quelle dove si è votato di meno (M5s, Fi, Ncd).
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Tristi elezioni
Militant
Tutto, più o meno, come previsto. La centralità della nuova DC appariva probabile, sebbene non in questi termini, che non possono che peggiorare le nostre aspettativa per il futuro. Un sistema che si stabilizza, che si cementa attorno all’uomo forte e al partito asse del sistema politico-istituzionale. Niente di buono per le speranze antagoniste in Italia, che ora avranno di fronte un nemico molto più coeso dal risultato, che andrà avanti a spron battuto tacitando, con la forza se necessario, chiunque osi opporsi al suo liberismo europeista. Un M5S che, come ampiamente previsto, riduce i suoi voti, anche se meno di quanto potessimo aspettarci. Nonostante si confermi con numeri rilevanti, ci sembra abbastanza segnata la sua parabola discendente ora che da partito extra-istituzionale è divenuto partito presente in tutte le istituzioni, senza alcuna credibilità che non sia la capacità comunicativa del proprio leader. Ancora una volta, il dato significativo è l’astensione, oggi al 42% e che cresce di quasi 10 punti percentuale rispetto alle scorse europee. Un dato ormai costante, che sommato alle vittorie in giro per l’Europa delle forze anti-euro contribuisce a delineare due grandi campi contrapposti, eterogenei al proprio interno ma con obiettivi condivisi antitetici: da una parte le forze favorevoli alla stabilizzazione dell’Unione Europea, dall’altra le forze anti-UE.
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Il boom di Renzi riorganizza il blocco conservatore
di Pino Cabras
Il PD renziano rafforza la propria funzione: riorganizzare efficacemente il blocco sociale conservatore mentre crolla l'analoga funzione berlusconiana
L'Anna Karenina di Lev Tolstoj inizia con il ricordare che «tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo». L'Europa uscita da queste elezioni continentali è più che mai una realtà estremamente variegata, e probabilmente infelice. Il regime dell'austerity ha colpito in modi diversi i popoli europei, provocando reazioni molto differenziate. Queste reazioni sono state influenzate dalla maggiore o minore velocità della crisi, dalla diversa tenuta dei partiti tradizionali, dalla capacità di rassicurare gli elettori da parte dei partiti nuovi e di rottura, dalla traiettoria dell'azione dei rispettivi governi. In certi importanti paesi (come nel Regno Unito e in Francia) si sono affermati in modo clamoroso come primi partiti delle forze di netta rottura. In altri paesi (come in Germania, in Polonia e in Italia) ha funzionato una sorta di tradizionale "riflesso d'ordine" in favore del governo. Altrove, come in Grecia e in Spagna, si è rafforzato chi sta a sinistra del PSE. Ovunque si coglie una qualche tendenza netta, ma è dovunque peculiare.
Anche il risultato italiano è straordinariamente netto. Il PD renziano rafforza la propria funzione: riorganizzare efficacemente il blocco sociale conservatore nel momento in cui crolla l'analoga funzione berlusconiana, tenendosi all'interno una porzione ancora molto elevata del suo elettorato tradizionale proveniente da sinistra.
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L'affondo finale di Confindustria sul mercato del lavoro
Claudio Conti
Si usa dire che “dio confonde coloro che vuole perdere”. Se così fosse, i nostri industriali non avrebbero speranze. E in effetti non ne hanno.
Ma provano a sopravvivere facendo l'unica cosa che sanno fare. Che non è – come dicono dai loro giornali - “fare industria”. Loro sanno soltanto chiedere al governo di abbassare il costo del lavoro e cancellare le conquiste realizzate tra la fine degli anni '60 e i '70. Vanno avanti così da oltre 20 anni e hanno ridotto se stessi alla caricatura dell'industriale, impoverendo al tempo spesso il paese e i propri dipendenti. Ciò nonostante, insistono. E mirano direttamente all'abolizione del contratto a tempo indeterminato.
Il documento presentato ieri da Confindustria potrebbe essere agevolmente definito ridicolo sul piano economico, se non fosse anche criminogeno su quello sociale. La fotografia che restituisce, infatti, è quella di una produzione industriale che non può “competere” a causa del costo del lavoro troppo alto.
Sappiamo tutti – lo ammette anche l'Ocse – che i salari italiani sono i pià bassi dell'Unione Europea, superati all'ingiù negli ultimi anni soltanto da quelli greci e portoghesi. Di quale costo del lavoro stiamo parlando, allora? Si potrebbe accusare ancora una volta il famigerato “cuneo fiscale”, ovvero quel complesso di contributi (previdenziali, ecc) o tasse vere e proprie (Irpef, locali, ecc) che rendono “leggera” la busta paga netta rispetto alla “pesantezza” di quella lorda. Ma non è neanche così, perché anche in altri paesi concorrenti (ad esempio la Spagna) ci sono dinamiche di costo grosso modo simili.
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La “mossa” del referendum sull’euro
di Sergio Cararo
Suscita un misto di aspettative e delusione l’evocazione del referendum sull’euro. Lo ha fatto Beppe Grillo nello studio televisivo di Porta a Porta. Lo accenna molto di sfuggita la Lega resuscitata dalle televisioni alla vigilia delle elezioni europee. Non ne parla Tsipras. Lo esorcizzano come il diavolo Renzi, il Pd, la Confindustria e le banche. Berlusconi ha ormai ben poco da dire e promette dentiere agli anziani.
Eppure la questione del referendum in materia di trattati europei merita molta più attenzione e serietà di quanto le battute pre-elettorali lascino intravedere.
La materia è spinosa ma può aprire una fase interessante. Sul suo percorso ci sono diversi ostacoli che vanno superati.
Il primo sta nella Costituzione italiana. E’ una Costituzione più avanzata di quella europea che volevano imporci ma che, fortunatamente, è stata battuta dai referendum in Francia e Olanda. Ma la Costituzione italiana vieta i referendum in materia di trattati internazionali e leggi di bilancio. E’ la cambiale che la Repubblica ha dovuto pagare alla Nato e agli equilibri del dopoguerra.
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VADEMECUM: COSÌ USCIREMO DALL'EURO
Perché il nostro paese deve uscire dall'euro?
Come può riprendersi la sua sovranità?
60 RISPOSTE AI SOSTENITORI DELL'EURO-DITTATURA
Stampalo! Diffondilo!
Il Vademecum è stato elaborato da Leonardo Mazzei, Mimmo Porcaro e Beppe De Santis. Approvato l'8 maggio dal Comitato operativo nazionale del Coordinamento.
Non c'è quasi più nessuno che difenda l'Unione Europea (UE) così com'è. I suoi trattati, le sue regole, i suoi diktat, i suoi sacrifici sono ormai indifendibili.
E, tuttavia, la casta oligarchica che l'ha costruita e che la governa non intende fare marcia indietro. Ma è riformabile l'UE? Noi pensiamo di no. L'Unione ha infatti una natura ben precisa, che non è modificabile dall'interno. Questa è la ragione per cui ai tanti propositi di renderla "più democratica" e "più solidale", non segue mai alcun cambiamento concreto. Non a caso l'Unione Europea nasce con il Trattato di Maastricht, ed i suoi scopi sono chiari fin dall'inizio: creare uno spazio continentale in cui le politiche liberiste non abbiano più alcun freno; assegnare ogni potere ad una casta di tecnocrati al servizio dei centri decisionali di un capitalismo sempre più dominato dalla finanza; distruggere progressivamente ogni diritto ed ogni conquista sociale.
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Il corpo è mio e non è mio
Ida Dominijanni
In ”Vite precarie”, un libro di ormai dieci anni fa, Judith Butler infranse il principio femminista della assoluta e intangibile sovranità individuale sul proprio corpo – ”il corpo è mio e lo gestisco io” – scrivendo che ”il corpo è mio e non è mio”, perché se è vero che ognuna ne è titolare e può deciderne, è altrettanto vero che ogni corpo è inserito in una rete di relazioni e di significati dai quali nessuna, nel deciderne, può prescindere. Affermazione tanto più rilevante in una pensatrice in cui, a torto o a ragione, si è voluto vedere il vessillo della possibilità individuale di scegliere liberamente perfino l’appartenenza a un sesso o a un altro. Ma si sa che a Butler è toccato lo strano destino di essere sbandierata finché sembrava una paladina dell’onnipotenza individuale e di esserlo molto meno da quando si è capito che non lo è affatto: cose che capitano ai pensieri complessi in tempi di alternative semplici semplici. Tipo quella fra ”femminismo moralista” e ”femminismo libertario” in cui la semplicità dilagante, la chiamo così per essere gentile, ha deciso di gettarci.
Le parole di Butler mi sono tornate in mente di fronte al derby femminil-femminista che si è scatenato di recente a seguito della ormai famosa foto con cui Paola Bacchiddu, addetta alla comunicazione della Lista Tsipras, ha pensato di squarciare il colpevole silenzio dei media sulla lista suddetta scraventando su Facebook e sul mercato mediatico elettorale una foto di se stessa in bikini banco lato B.
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Uscire dall’Euro? Il problema non è il se, ma il come
di Aldo Giannuli
Si è scatenata una campagna terroristica sugli effetti di un’uscita dell’Italia dall’Euro: inflazione alle stelle, mutui insostenibili che costringerebbero a vender casa, termosifoni spenti e tutti all’addiaccio, cure mediche proibitive, aziende fallite e via dicendo. Mi spiace notare che anche “Il Fatto” si sia associato a questa campagna che, vedo, ha convinto anche qualcuno dei più affezionati seguaci di questo blog, che accusa quanti sostengono l’uscita dall’Euro di essere totalmente ignoranti o sul libro paga di qualcuno (vecchio vizio pcista questo di accusare i propri avversari di essere ignoranti o venduti…). Il ragionamento è più o meno questo: l’Euro, giusta o no che fosse la sua nascita, ormai c’è ed uscirne provocherebbe una catastrofe economica senza precedenti, per cui teniamocelo perché è l’unica certezza che abbiamo.
Questo ragionamento sottintende che l’Euro sia destinato a restare in piedi, solo che lo si voglia. E questo è già il primo punto debole del ragionamento: ma chi via ha garantito che l’Euro sia destinato a restare in piedi?
L’Euro non è sorto dal nulla, ma da precise condizioni politiche ed economiche: la Germania doveva far accettare la sua riunificazione e Mitterand pensò che l’unificazione monetaria avrebbe reso più accettabile la cosa, peraltro si era in un periodo espansivo dell’economia europea e si sperava che la moneta unica avrebbe dato ulteriore spinta ai paesi meno forti, favorendo una dinamica virtuosa convergente delle diverse economie nazionali che, a sua volta, avrebbe spinto verso una celere unificazione politica.
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Uscita dall’euro e svalutazione
di Gennaro Zezza
Ho sempre sostenuto che all’Italia conviene uscire dall’euro e tornare ad una propria valuta nazionale non per gli eventuali vantaggi di una svalutazione della “nuova lira”, ma per riprendere il controllo sulla politica fiscale e sulla politica monetaria, e quindi sul costo di finanziamento del debito pubblico. In aggiunta, ho sempre sostenuto – ad esempio nei nostri rapporti sulla Grecia – che gli squilibri dell’area euro sono dovuti alla Germania, più che ai paesi periferici.
Mi sembra che il “dibattito televisivo” sull’argomento si concentri invece sull’entità della svalutazione della “nuova lira” in caso di uscita dall’euro, dove i sostenitori dell’euro prediligono l’immagine delle “carriole” di lire da usare per far la spesa, dopo una svalutazione della nuova lira del millantamila per cento.
Un indicatore che si può utilizzare per dare qualche conforto empirico all’entità di una svalutazione – certo non il più appropriato – è un indice dei prezzi dei Paesi della zona Euro. Nel grafico che segue riporto il valore di uno di tali indicatori, costruito a partire dai deflatori della domanda interna di fonte Eurostat.
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Piketty riscrive l’economia: i ricchi vinceranno sempre
di Stefano Feltri
Nel 2012, il premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz ha pubblicato il voluminoso saggio Il prezzo della disuguaglianza – Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro (Einaudi). Non se n’è accorto nessuno. Due anni dopo, un libro sullo stesso tema firmato da un economista praticamente sconosciuto, con il difetto di essere francese (tutta la ricerca di frontiera è anglosassone), è stato accolto come il contributo più importante degli ultimi decenni: Il capitale nel Ventunesimo secolo di Thomas Piketty continua a essere il primo nelle classifiche di Amazon, da quando è uscita la traduzione inglese (l’originale francese era passato quasi inosservato) non si parla d’altro, il Financial Times ne discute quasi tutti i giorni, nell’ultimo numero l’Economist gli dedica un articolo dal titolo solo in parte ironico Bigger than Marx, più grande di Marx.
Il barbuto studioso di Treviri, di sicuro, non si è arricchito con il suo Capitale, Piketty che si presenta come un erede più abile a maneggiare i dati e dalle convinzioni più solide, invece, è ormai una superstar del dibattito economico. È quasi con pudore che qualche giornale ha osato ricordare che di lui in passato si era parlato più per i maltrattamenti inflitti alla ex compagna, l’attuale ministro della Cultura francese Aurelie Filippetti, che per i risultati accademici.
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Il danno del denaro creato dalle banche
di Luciano Gallino
L’ARTICOLO di Martin Wolf uscito pochi giorni fa sul “Financial Times” (il 24 aprile) è a dir poco sensazionale. Gli si desse retta, il solo titolo – “Spogliare le banche private del potere di creare denaro” – basterebbe per mandare in soffitta le teorie, le istituzioni e le politiche economiche che prima hanno causato la crisi, poi l’hanno aggravata con le politiche di austerità. Non si vuol dire che di per sé l’articolo di Wolf arrivi a svelare delle novità fino ad oggi inimmaginabili. Da anni vari gruppi di studiosi e associazioni in Usa come in Europa sostengono che se non si limita il potere delle banche private di creare denaro dal nulla la prossima crisi potrebbe essere anche più devastante della precedente. Il fatto nuovo è che a dirlo è il maggior quotidiano economico del mondo, da sempre pilastro (bisogna ammetterlo: con dosi di pensiero critico che di rado si ritrovano nei suoi confratelli) della cultura economica neoliberale. I chiodi su cui batte Martin Wolf sono tre. Il primo è che la stragrande maggioranza del denaro in circolo viene creato dal nulla – perché lo stato glielo consente – dalle banche private nel momento in cui concedono prestiti, accreditando l’ammontare sul deposito del richiedente. Quando Mr. Jones o la Sig. ra Bianchi si vedono accreditare 100.000 sterline o euro sul proprio conto di deposito, grazie ai quali stipuleranno un mutuo, non un solo euro è stato tolto da altri depositi o dal capitale della banca. La somma è stata creata da un contabile con pochi tocchi sulla tastiera. Specifica Wolf: “Le banche creano depositi come sottoprodotto dei prestiti che concedono.”
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I miracoli (elettorali) della Troika
Alfonso Gianni
A quindici giorni dalle elezioni europee fanno capolino improvvisamente valutazioni più rosee sullo stato dell’ economia del nostro continente. L’ipotesi più semplice, neppure troppo maliziosa, è che si voglia artatamente spargere ottimismo sulle possibilità di uscita dalla crisi , proprio per contenere gli effetti di un diffuso euroscetticismo.
Il caso più citato è quello del Portogallo. Lo si è visto anche in una recente puntata del programma Ballarò. Il prossimo 17 maggio il paese lusitano uscirà dal “programma di assistenza”, approntato dalla Troika tre anni fa, che ha portato nelle casse esauste di Lisbona 78 miliardi di euro. Il fatto che ora il Portogallo possa tornare a rifinanziarsi sul mercato internazionale e che i tassi di interesse sui decennali siano scesi dal 10,6% del 2011 al 3,6% attuale, viene presentato come un successo delle politiche di austerity.
Il rigore quindi ha vinto? Niente affatto, se si leggono i dati della economia reale del Portogallo: il tasso di disoccupazione ha toccato nel 2013 il 16,3%, quello giovanile è superiore al 40%, il tasso di occupazione è tornato ai livelli degli anni Ottanta; 827mila persone sono in stato di disoccupazione, tra queste più di mezzo milione lo sono da più di 12 mesi, l’asticella che le qualifica come disoccupati di lunga durata. Il settore delle costruzioni è in piena crisi occupazionale.
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La cassetta degli attrezzi di Mario
di Mario Seminerio
(Questo è un post tecnico, spiacenti. Ma fate un piccolo sforzo, ci sono in ballo ricadute sulle vostre vite. Del resto, se date retta alle fiabe di Renzi, Grillo e Berlusconi, avete il dovere morale di leggere quello che segue)
Ieri il presidente della Bce, Mario Draghi, ha con alta probabilità attraversato il Rubicone della credibilità della istituzione che guida, affermando che il governing council della Bce è a proprio agio all’idea di agire il mese prossimo, a ratifica della “insoddisfazione per il percorso atteso dell’inflazione”. Bisogna solo attendere la pubblicazione delle previsioni macroeconomiche aggiornate per l’Eurozona e poi la Bce agirà, verosimilmente in presenza di ulteriore pressione disinflazionistica.
Draghi, che dallo scorso meeting della Bce ha enfatizzato il ruolo del cambio nel determinare le condizioni monetarie complessive (il rafforzamento equivale a stretta), si trova da tempo alle prese con un serio dilemma. L’apprezzamento del cambio dell’euro è coerente, a livello qualitativo, con la presenza di un avanzo delle partite correnti dell’Eurozona. Difficile andare dai propri partner commerciali esteri e dire “scusate ma dobbiamo indebolire la nostra moneta perché esportiamo molto, anzi troppo”. Sarebbe il mondo alla rovescia, e determinerebbe anche minacce (e qualcosa di più) di ritorsione commerciale.
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Arriva il fondo di “redenzione” per il debito in eccesso
Ma tutto dipenderà dall’esito delle elezioni europee
Luigi Pandolfi
Che nell’ideologia del rigore oggi dominante nel processo di costruzione europea ci fosse una componente “moralistica”, per non dire addirittura religiosa, l’avevamo capito da un pezzo. Dietro la partizione dell’Unione in paesi “virtuosi” e paesi “spreconi” c’è sempre stata, al di là del dato economico e finanziario in senso stretto, un’idea del debito come “colpa”, da espiare anche al costo di veri e propri supplizi (Grecia docet).
Non fa difetto, in questo quadro, il lessico utilizzato per definire strategie, programmi, clausole e parametri in cui si sostanziano da qualche anno a questa parte le politiche di austerity. Ne è dimostrazione il nuovo strumento che potrebbe essere adottato per il conseguimento degli obiettivi del Fiscal Compact, il cui nome da questo punto di vista è molto eloquente: Fondo Europeo di Redenzione (ERF). Si avete letto bene: “redenzione”. E si, perché se il debito costituisce un peccato, la risposta può essere o quella della comminazione della pena o quella del perdono. Stando alla parola, in questo caso si dovrebbe pensare alla seconda ipotesi, ovvero ad una cancellazione, totale o parziale, del debito (rimetti a noi i nostri debiti…). Ma è proprio così? Vediamo di capirci qualcosa.
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Qualche osservazione sulla politica economica italiana
Paolo Palazzi
Mi riesce difficile, anzi impossibile capire le politiche che questo governo, e i passati governi intend o no mette re in essere per aumentare l’occupazione. I discorsi che si sentono fare, non solo da parte dei politici, ma anche da economisti importanti (o che si credono tali) sono che l’Italia ha bisogno di riforme, di abbassare il costo del lavoro, di aumentare i profitti e quindi gli investimenti, di aumentare la competitività e di diminuire tasse e spesa pubblica.
Provo brevemente a veder e una cosa volta. Le riforme, non si dicono quali siano le riforme che porteranno a un aumento di occupazione, se non quelle relative al mercato del lavoro e alla spesa pubblica e quindi ricadiamo nell e altre proposte. Abbassare il costo del lavoro? I l costo del lavoro è dato dal rapporto tra retribuzione diviso produttività. V isto che le retribuzioni nette hanno raggiunto un limite inferio re che a mala pena permette la sopravvivenza e che è in continu a decrescita a causa dell’inflazione e dell’aumento delle tasse , si ricade negli altri due punti: produttività e tasse.
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Il contratto a termine e la débâcle del Pd
di Piergiovanni Alleva
La soddisfazione con cui i partiti di centro destra hanno salutato l’ultima versione, uscita dalla Commissione del Senato, del Decreto sui contratti a termine e apprendistato è la miglior certificazione non solo degli ulteriori e quasi incredibili peggioramenti di una legge già pessima, ma della vera e propria banca rotta - non c’è altra parola - della rappresentanza parlamentare del Partito Democratico.
Con la sola meritoria eccezione dell’On. Fassina, i parlamentari del Pd si sono lasciati soggiogare da alcuni notissimi nemici storici dei lavoratori e dei sindacati, a cominciare dall’On. Sacconi.
Ed hanno infine accettato un testo normativo che mai i governi Berlusconi sarebbero riusciti ad ottenere a scapito dei lavoratori e di cui invece il «democratico» Renzi ed il «comunista» Poletti vanno invece addirittura fieri.
Ma occorre venire subito al merito, perché ognuno possa giudicare per proprio conto se questi giudizi drastici siano o meno fondati e per questo articoliamo almeno due punti.
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Il rapporto Nord-Sud e la Lega dei No Euro
Salvatore Perri
Premetto che da quando ho aperto il mio blog, l'ho fatto per cercare di contribuire all'interpretazione della realtà economica quotidiana attingendo al mio bagaglio di studi pregressi (che è quello facevo quando avevo l'opportunità di insegnare). Ho cercato di limitare al minimo gli interventi di carattere particolare, oppure prese di posizioni politiche su temi locali, perchè esiste il rischio che le mie considerazioni siano classificabili "per partito preso" e non sulla base del loro contenuto specifico.
Tuttavia quando ho sentito Salvini dire che vuole "liberare il Sud", io, da persona genuinamente ed orgogliosamente meridionale, che ha studiato la storia economica italiana, che ha dovuto vivere all'estero nel periodo più fulgido dei governi leghisti, discendente diretto di un Cavaliere di Vittorio Veneto (che l'Italia l'ha dovuta liberare veramente) ho avuto un moto di ribellione incontrollabile perchè quando è troppo è troppo.
Non aspiro ad insegnare la storia a chi non è interessato a conoscerla, ma almeno quattro fatti stilizzati in croce per Salvini potrebbero esser utili, anche se dubito che possano stare su una felpa.
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Lista Nato alle europee
di Manlio Dinucci
Mentre nella campagna elettorale ferve il dibattito tra sostenitori e oppositori dell’Unione europea, pochi si accorgono che il futuro dell’Europa dipende più da Washington che da Bruxelles. L’amministrazione Obama ha già varato il suo programma per l’Europa, le cui linee sono esposte dal segretario alla Difesa, Chuck Hagel.
Di fronte all’azione della Russia in Ucraina – egli esordisce – gli attuali membri della Nato devono dimostrare che sono impegnati nell’Alleanza come lo erano i suoi fondatori 65 anni fa. Il primo modo per rafforzarla è accrescere la spesa militare. Con la fine della guerra fredda – rileva Hagel – si è diffusa tra gli alleati europei la sensazione che fosse finita la loro insicurezza, dovuta alla politica aggressiva di alcuni stati (leggi l’Urss e i suoi alleati): un mito infranto dall’azione della Russia in Ucraina.
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Ancora sui "Piedi storti"
Ovvero come le cause del declino italiano siano endogene
Claudio Martini
Il precedente post (che riprendeva a sua volta questo articolo) ha sollevato qualche perplessità. Qualcuno ha avanzato una risposta alla domanda che ponevo -perché la Germania è strutturalmente più competitiva dell'Italia-, ma i più hanno sostanzialmente respinto la mia argomentazione. Probabilmente ho spiegato male ciò che intendevo. Per rimediare prenderò a prestito uno scritto di Vladimiro Giacché. Con Giacché dovremmo andare sul sicuro: ha scritto l'ottimo Anschluss, ed è membro del comitato scientifico di A/simmetrie. Si tratta dunque di un autore al di sopra di ogni sospetto. Se non credete a me crederete a lui.
Vi segnalo dunque questo breve, ma denso saggio del 2004. Erano i tempi in cui Giacché, in altri scritti, affermava:
punto da cui partire è questo: l’orizzonte europeo non è una dimensione che si può scegliere o meno; è un contesto necessario e quindi anche un nuovo campo di possibilità.
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Primo Maggio con la BlackRock
Gaetano Colonna
"Penso che probabilmente il maggior cambiamento cui stiamo assistendo è la crescita dell'impatto della politica sul mondo degli affari. Si tratta di un cambiamento progressivo che non è mai stato così grande. Possiamo testimoniare che oggi in Cina, in Europa, negli Stati Uniti è in atto un braccio di ferro fra il mondo degli affari, che è in cerca di messaggi forti e di leadership forti, e un po' più di coerenza da parte dei governi, rispetto a quello che i governi realisticamente possono offrire. Il ciclo di vita dei politici è davvero troppo breve. L'insicurezza sui politici, rispetto alla loro carriera, ha avuto un impatto molto serio. I governi non stanno agendo abbastanza prontamente"(1).
Non sappiamo se Matteo Renzi conosceva queste significative parole del fondatore, presidente e amministratore delegato di BlackRock, Larry Fink, quando lo ha incontrato a cena due giorni fa, al margine del Global Leadership Summit del maggiore fondo di investimento del mondo, di cui ci siamo spesso occupati sulle colonne di clarissa.it, indicandolo come uno dei punti di riferimento globali fra i masters of the universe, la classe dirigente della finanza mondiale che regge le sorti reali del pianeta.
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Buddhismo e Socialismo: un fondamento condiviso
di Manuel de Palma
Con il presente articolo, non voglio tanto riflettere sul rapporto storico tra buddhismo e regimi socialisti – spesse volte purtroppo conflittuale – quanto sulla possibile concordanza tra una visione del mondo buddhista e una socialista.
Diverse personalità autorevoli nel mondo del buddhismo si sono occupate di questo tema, tanto che è nato un fenomeno assai particolare chiamato “buddhismo socialmente impegnato”; se tuttavia queste persone si sono occupate del rapporto tra etica buddhista ed etica socialista, io vorrei tentare di dimostrare come la metafisica buddhista reca in se stessa i semi di una visione del mondo socialista. Sappiamo infatti che un concetto fondamentale della metafisica buddhista è quello di vacuità (Śūnyatā): tutto ciò che esiste è vuoto di esistenza propria. Questo concetto può suonare strano a un orecchio occidentale e ricordargli l’incubo – sempre più reale – del nichilismo che attanaglia la sua società: nessuna cosa esiste, dunque non esiste nessun valore e l’unico metro di misura consiste nella forza bruta del potere d’acquisto. Siamo tuttavia ben lontani da tutto ciò, poiché vacuità non significa non esistenza, bensì non esistenza intrinseca.
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Lo Stato fascista non è l’unica forma possibile di stato d’eccezione in uno scenario capitalista
H. Wilno intervista Alain Bihr
Pubblichiamo dal sito del Npa l’intervista di Henri Wilno ad Alain Bihr, sociologo, autore di numerosi studi sulle classi sociali e il pensiero marxista. Ha pubblicato alcuni saggi sul Front national e il negazionismo, editi anche in italiano(L’avvenire di un passato. L’estrema destra in Europa: il caso del Fronte Nazionale francese, Jaca Book, 1997). Recentemente ha pubblicato “La logica misconosciuta del Capitale”, Mimesis, 2011. Il suo ultimo libro si intitola i Rapporti sociali di classe, pubblicato in francese da Editions Pages deux. Con lui, ritorniamo alla questione dello Stato, sullo sfondo la crescita dell’estrema destra. Segnaliamo che in corso di traduzione un saggio più ampio su questo tema. A breve verrà pubblicato sul sito.
Per te, non c’è un pericolo di destra nell’Europa di oggi. Tu scrivi che lo scenario fascista “appare piuttosto come storicamente datato e obsoleto”. Puoi spiegare il perché?
Di solito si è concordi nell’affermare che è impossibile comprendere i movimenti e i regimi fascisti che abbiamo conosciuto nell’Europa degli anni 1920-1940 al di fuori della fase storica dello sviluppo capitalistico in cui si sono manifestati. Io penso che si debba considerarli indissociabili da questa fase.
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Strappare alle banche private il potere di creare moneta
di Martin Wolf
Martin Wolf sul Financial Times porta avanti la discussione sulla moneta, già iniziata qui, affrontando uno dei maggiori tabù: il potere immenso di creare moneta oggi è concentrato nelle mani del sistema bancario, e la cosa non funziona
Il gigantesco buco nel cuore delle nostre economie di mercato ha bisogno di essere tappato.
Stampare banconote contraffatte è illegale, mentre la creazione di moneta privata non lo è. L'interdipendenza tra lo Stato e le imprese che dispongono di questo potere è la fonte di gran parte dell'instabilità delle nostre economie. Si potrebbe - e si dovrebbe – metterci un freno.
Ho spiegato come funziona due settimane fa (qui tradotto da noi, ndt). Le banche creano depositi come conseguenza dei loro prestiti. Nel Regno Unito, tali depositi costituiscono circa il 97 per cento dell'offerta di moneta. Alcuni obiettano che i depositi non sono soldi, ma solo debiti privati trasferibili. Eppure il pubblico considera i soldi falsi delle banche come denaro elettronico: una fonte sicura di potere d'acquisto.
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Ancora i test INVALSI
di Renata Puleo*
Nei prossimi giorni l’INVALSI, l’Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema Scolastico, avvierà la procedura annuale di testing sulle competenze in Lingua Italiana e Matematica degli alunni delle II e V classi di scuola primaria (ex elementare).
L’Istituto, Ente di Ricerca con personalità giuridica, soggetto a parziale vigilanza da parte del Ministero, delle cui indicazioni politiche “tiene conto”, agisce in modo autonomo nelle scelte tecnico-scientifiche, ossia nella modalità di costruzione e svolgimento delle prove.
L’INVALSI utilizza, per la somministrazione e per la correzione, gli insegnanti in servizio nelle scuole. Poiché si tratta di una procedura censuaria (rivolta a tutta la popolazione scolastica delle fasce individuate) e non a campione, i fini non sono di ricerca e di indirizzo, ma di controllo. Ciò si evince anche dal fatto che vengono continuamente ribaditi gli obblighi contratti con l’Europa per l’effettuazione di tale verifica delle competenze e dell’efficacia dell’insegnamento, nonché quelli sanciti dalla normativa vigente (Regolamento sulla Valutazione) e da alcune sentenze di Tribunali Amministrativi, su cui tornerò fra poco.
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Economicidio: tre libri e un crimine
Scritto da Daniele Trovato
I libri, scrisse qualcuno, sono amici che ti presentano altri amici, creano percorsi di conoscenza, reti di relazioni tra idee, fatti e passaggi, ci si ritrova, leggendo, ad aver imparato dalla somma delle letture più di quanto si cercasse in ognuna di esse.
In questo caso ci riferiamo a tre saggi divulgativi di taglio (socio)economico scritti e pubblicati in anni diversi e facenti riferimento a vicende apparentemente distanti nello spazio e nel tempo: Shock Economy di Naomi Klein, Il tramonto dell’Euro di Alberto Bagnai e Anschluss di Vladimiro Giacché. Soltanto quando se ne è ultimata la lettura (a distanza di anni tra il primo e gli ultimi due) e si è avuto il giusto tempo per ragionarla, improvvisamente i pezzi del puzzle sembrano prendere il loro posto, svelando in questo caso una strategia, un metodo e la sua applicazione sistematica nella storia del capitalismo degli ultimi quarant’anni.
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Il miraggio del pareggio
Riccardo Realfonzo*
Con la manovra economica descritta nel Documento di Economia e Finanza (DEF), il governo riconosce che il pareggio di bilancio strutturale (cioè al netto del ciclo economico) non potrà essere conseguito il prossimo anno. Prevede dunque di posticipare di un anno, al 2016, il raggiungimento dell’obiettivo[1]. Perciò, il ministro Padoan ha scritto alla Commissione Europea e il Parlamento ha dato il suo placet, il tutto secondo quanto previsto dai trattati europei e dal principio del pareggio di bilancio introdotto di recente nella nostra Costituzione. La domanda è: saremo in grado di raggiungere l’obiettivo tra due anni?
Per farcene una idea, forse è bene ricordare che quando negli USA, nel 2011, la destra repubblicana spinse per introdurre nella Costituzione il principio del pareggio di bilancio, cinque premi Nobel e altri autorevoli economisti scrissero a Obama. Spiegarono che “inserire un tetto alla spesa pubblica peggiorerebbe le cose” e “chiudere il bilancio in pareggio aggraverebbe le recessioni”. Il pareggio di bilancio è dunque una “pericolosa camicia di forza” che “impedirebbe al governo di ricorrere al credito” quando ce n’è bisogno e “favorirebbe dubbie manovre finanziarie, quali la vendita di beni pubblici”. Obama ascoltò l’allarme dei Nobel e si guardò bene dall’inserire il pareggio in Costituzione.
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Proclamiamo la guerra ai Crucchi?
Francesco Santoianni
Francamente, da Luigi di Maio – il “politico più brillante del Movimento Cinque Stelle” – non mi sarei aspettato un altro passo verso la china nella quale il, pur sacrosanto, movimento contro l’Unione Europea sta incamminandosi.
Intanto, il suo post su Facebook:
“Il 25 aprile del 1945, dopo le insurrezioni partigiane a Genova, Milano e Torino, l’Italia pose fine all’occupazione tedesca. Festeggiamo ogni anno la Liberazione come il giorno in cui cacciammo le truppe tedesche dai nostri confini territoriali. A distanza di 69 anni abbiamo un altro problema: le guerre militari sono diventate guerre finanziarie. Ai cannoni si è sostituito lo spread. Ai fucili l’austerity. Alle bombe il Fiscal Compact.
Stiamo vivendo una nuova era delle guerre europee che affamano i popoli come nel ‘45, che distruggono le economie come durante le guerre mondiali. Ovviamente a vantaggio della Germania. All’epoca salimmo sui monti o sui palazzi e buttammo giù le bombe. Oggi quali sono i nostri strumenti di offesa per riemergere da questa guerra economico-sociale? Il 25 aprile oltre ad essere una festa, deve diventare l’occasione per riscoprire il nostro orgoglio nazionale, per ribellarci ai trattati sanguinari che hanno sottoscritto i nostri politici (scendiletto dei banchieri europei). Per informarci. Il nuovo partigiano è un cittadino informato. (…)"
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Patrioti please, non ribelli
di Leonardo Clausi
Ho sempre avuto problemi con il concetto di patria. Non mi ci sono mai riconosciuto, non appartiene alla mia cultura politica, lo trovo fastidiosamente retorico il più delle volte. Come altri, sono rimasto folgorato sulla via dell’internazionalismo: un concetto che oggi farà sorridere i custodi dell’ortodossia del “moderno” ma che in fondo ancora oggi obbedisce a dei criteri che rifiutavano una lettura bovina del divenire storico per arrivare direttamente all’essenza di cosa siamo come esseri sociali. Lo devo anche all’assidua lettura di uno storico come Eric Hobsbawm, il cui il formidabile L’invenzione della tradizione mostra come i fondamenti dell’idea di nazione non siano altro che la lenta e inesorabile sedimentazione di una serie di operazioni politico-culturali imposte dall’alto verso il basso, per legittimare, appunto, l’alto rispetto al basso.
Ma oggi è la festa della Liberazione. Un giorno in cui questo Paese, soprattutto negli ultimi vent’anni, si riscopre regolarmente diviso. Io mi pongo fra gli eredi di coloro che resistettero, e che oggi vengono dileggiati per questo. Mi laureai con una tesi sulla storia della Resistenza in una particolare regione italiana, l’Umbria. Nei documenti d’archivio che mi capitò di esaminare, i partigiani si autodefinivano patrioti, in opposizione alla definizione che di loro davano gli avversari nazifascisti.
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