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sinistra

Ancora i test INVALSI

di Renata Puleo*

Nei prossimi giorni l’INVALSI, l’Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema Scolastico, avvierà la procedura annuale di testing sulle competenze in Lingua Italiana e Matematica degli alunni delle II e V classi di scuola primaria (ex elementare).

L’Istituto, Ente di Ricerca con personalità giuridica, soggetto a parziale vigilanza da parte del Ministero, delle cui indicazioni politiche “tiene conto”, agisce in modo autonomo nelle scelte tecnico-scientifiche, ossia nella modalità di costruzione e svolgimento delle prove.

L’INVALSI utilizza, per la somministrazione e per la correzione, gli insegnanti in servizio nelle scuole. Poiché si tratta di una procedura censuaria (rivolta a tutta la popolazione scolastica delle fasce individuate) e non a campione, i fini non sono di ricerca e di indirizzo, ma di controllo. Ciò si evince anche dal fatto che vengono continuamente ribaditi gli obblighi contratti con l’Europa per l’effettuazione di tale verifica delle competenze e dell’efficacia dell’insegnamento, nonché quelli sanciti dalla normativa vigente (Regolamento sulla Valutazione) e da alcune sentenze di Tribunali Amministrativi, su cui tornerò fra poco.

Nel corso degli ultimi anni, in Italia, è maturata contro questa pratica valutativa una opposizione vivace e variegata, fra insegnanti di ogni ordine, studenti e genitori. Opposizione manifesta, mediante lo sciopero (indetto dai Cobas nei giorni della prove), l’obiezione alla somministrazione, la controinformazione. Opposizione a carattere sotterraneo, con la falsificazione dei dati da parte di studenti, somministratori e correttori, assenze il giorno delle prove, la messa in ridicolo sui social networks della stupidità di alcuni items, ecc. Con maggior enfasi proprio in questi giorni, la protesta è vivace in Usa, patria del testing soprattutto durante la presidenza Reagan, in Francia, in alcuni paesi latino-americani, come si legge sui principali quotidiani stranieri. Chi protesta sottolinea come l’effetto secondario, di ritorno, sulla didattica, non sia certo una maggior efficacia nel rapporto insegnamento-apprendimento, ma il fenomeno del teaching to test, anche test like teaching. Nei paesi anglosassoni così si definisce un insegnamento che prepara a rispondere ai quesiti a scelta multipla, spesso dipendente dal mercato librario scolastico (quaderni operativi, testi di preparazione alle prove, manuali per gli insegnanti, ecc). Ricattatoria appare anche la convinzione della valutazione come test to job: avrà un lavoro più o meno qualificato chi supererà le prove a test, dunque meglio che ne impari la dinamica fin dalla scuola di base.


Sostanzialmente l’opposizione più avvertita si muove su tre piani.

Uno tecnico in cui la critica ai test, alla metodica quantitativo-statistica, è frutto della loro dimostrata fallacia come strumento di valutazione di comportamenti umani complessi (sta accadendo anche nella clinica medica).

Il secondo piano concerne l’aspetto giuridico, il rapporto fra legalità e legittimità. Un docente che dipende dal Ministero può essere obbligato a svolgere un’attività non retribuita per conto di un Ente, anche se dotato di statuto di autority? Alcune sentenze dei TAR, seguite al ricorso di docenti obiettori a cui erano state comminate sanzioni disciplinari dai Dirigenti Scolastici, sostengono di sì: “in forza di legge”, gli insegnanti sono tenuti a svolgere la valutazione, come obbligo di servizio. Quello che, per poca conoscenza o malafede, sembrano ignorare i giudici, è che tutti i docenti valutano gli alunni per obbligo legato all’ufficio di docenza (verifiche periodiche, compilazione dei documenti di valutazione formativi e finali). Inoltre, lo scarto legalità-legittimità si gioca anche sul piano etico, dei comportamenti: se, un insegnante nell’esercizio della funzione attribuitagli dalla Costituzione (fonte primaria rispetto a qualsiasi altra norma), ritiene che una procedura arrechi danno agli alunni e alla sua dignità, può e deve astenersi dal metterla in atto.

Il terzo piano è quello ideologico-politico: a chi serve una valutazione delle competenze condotta in questo modo? Per saperlo basta leggere i memorandum, le missive ed molti altri documenti che la BCE e la troika (BCE, CE, FMI) hanno, negli ultimi anni, inviato al Governo italiano perché controlli la qualità del sistema scolastico, al fine dichiarato di risparmiare sui costi e di orientare la formazione delle giovani generazioni alle esigenze del mercato (è consultabile la documentazione online e nei testi di letteratura economico-politica pubblicati di recente). Perfino qualche giornale come Il Corriere, alcuni intellettuali certamente non “comunisti”, hanno commentato negativamente l’orientamento dell’INVALSI, stigmatizzando il disinteresse di una prova censuaria per i curricula, gli stili dei docenti (che da anni lo Stato non si preoccupa di formare), i contesti socio-culturali. Sono dubbi che abitano anche la coscienza di chi crede nel mercato e nelle virtù del capitalismo.

Anche l’amministrazione Obama ha dovuto riconoscere il fallimento del programma No Child Left Behind, basato sulla pratica del testing che avrebbe dovuto garantire una efficacia e una trasparenza tali “per cui nessun bambino sarebbe rimasto indietro”.

La questione non riguarda dunque il merito, ma una sorta di scrematura delle nuove generazioni atta a selezionare le élites e a rendere ottusi e obbedienti coloro che occupano le zone basse della gerarchia sociale. Un problema di uguaglianza più che di uguale opportunità.

Forse è arrivato il momento di discutere seriamente di valutazione nel nesso fra insegnamento/apprendimento nell’educazione pubblica. Occorre farlo nelle scuole, attraverso i media, a livello politico, sindacale, economico. Magari a bocce ferme, con una moratoria imposta dal Governo all’attività dell’INVALSI.

 

*Ex Dirigente Scolastica

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