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Gli USA sospendono gli aiuti militari all’Egitto anti Isis

di Giovanni Giacalone

Prima l’articolo del New York Times dove l’autore, Declan Walsh (già espulso dal Pakistan nel 2013 per pubblicazione di notizie false), pubblicava testimonianze di alcuni ex funzionari dello staff di Obama che fornivano “prove inconfutabili sulla responsabilità ufficiale egiziana” nel caso Regeni, tirando in ballo “alti membri del governo del Cairo”. Il giornalista del New York Times si inoltrava poi su questioni interne al governo italiano tirando in ballo presunte collusioni tra Eni, esecutivo a Roma e mediazioni varie con l’Egitto.

Pochi giorni dopo emerge che gli Stati Uniti hanno deciso di bloccare 195 milioni di dollari di aiuti militari all’Egitto e di ritirare altri aiuti per un valore di 96 milioni.

Le motivazioni? La preoccupazione riguardo al rispetto dei diritti umani e alle nuove leggi che limitano le Ong, come confermato martedì dal segretario di Stato Rex Tillerson e da fonti del Dipartimento di Stato americano.

In poche parole, se l’Egitto non “rispetta i diritti umani” e non permette alle Ong di operare, i finanziamenti non saranno ripristinati. Una decisione che suona come un ricatto bello e buono, ma perché a Washington stanno così a cuore il rispetto dei “diritti umani” e l’operato delle Ong in Egitto?

 

Ong, un po’ di storia

Per rendercene conto bisogna fare un collegamento con il Caucaso settentrionale che a partire dal 1994 veniva infestato con il germe dell’islamismo radicale nel tentativo di destabilizzare l’intera zona, imporre un’ideologia (wahhabita) estranea a quel contesto etno-culturale e infiltrare di fatto la Federazione russa.

Come illustrano fonti russe, col tempo Mosca si rese conto che i jihadisti operanti nella zona caucasica erano finanziati e supportati dall’estero e molti dei flussi di denaro che finivano nelle tasche dei tagliagole passavano proprio attraverso le Ong.

Dunque il Cremlino passò all’azione e chiuse le Ong estere, molte delle quali accusate di finanziare il terrorismo. Una mossa tremendamente efficace, visto che soffocò i rifornimenti di “linfa vitale” ai jihadisti. In parallelo furono implementate operazioni coordinate di prevenzione e repressione del fenomeno terroristico che nel tempo permisero a Mosca di stabilizzare la zona neutralizzando il jihad importato.

Nei Balcani purtroppo le cose sono andate diversamente e infatti la situazione attuale è sotto gli occhi di tutti, con enclaves salafite che spuntano come funghi sia in Bosnia che in Kosovo. Enclaves che possono contare su un ingente flusso di denaro proveniente in molti casi tramite associazioni caritatevoli e Ong operanti in zona e con legami con i paesi del Golfo. Basta fare un giro a Sarajevo per rendersene conto.

 

L’Egitto anti-jihad

È chiaro che il governo di Abdelfattah al-Sisi, seguendo la strategia di Mosca e mettendo al bando l’attività delle Ong, taglia anche i canali di rifornimento a quell’islamismo radicale che colpisce nel Paese da quando il governo-regime di Mohamed Morsi è stato rovesciato, mandando su tutte le furie Washington.

Del resto la credibilità dell’amministrazione Obama per quanto riguarda l’Egitto era già stata da tempo messa in seria discussione visto che appoggiò fino alla fine il governo dei Fratelli Musulmani, andando contro la volontà del popolo egiziano, sceso nelle piazze per chiedere elezioni anticipate e stufo dei soprusi e delle violazioni dei diritti umani perpetrati dal governo islamista. Insomma, una sensibilità umanitaria a senso unico quella di Washington.

Sarà un caso che l’ex ambasciatrice statunitense al Cairo, Anne Patterson veniva immortalata a suo tempo assieme all’ex guida dei Fratelli Musulmani, Mohamed Badie e più avanti, durante un evento universitario negli Stati Uniti, mentre faceva il gesto delle quattro dita di Rabaa, simbolo della protesta pro-Morsi, assieme a una sostenitrice della Fratellanza? Sarà un caso il discorso di Obama all’università di al-Azhar che di fatto sdoganava i Fratelli Musulmani nel contesto politico dell’area? Sarà sempre un caso che nel gennaio 2015 il Dipartimento di Stato americano ospitava una delegazione di leader legati ai Fratelli Musulmani?

E che dire di Mohamed Elbiary, ex funzionario dello United States Homeland Security Department, poi costretto alle dimissioni in seguito ad alcuni suoi tweet in favore del Califfato, dei Fratelli Musulmani e contro i copti egiziani. Sotto l’Amministrazione Obama, Elibiary aveva fatto parte del DHS Countering Violent Extremism Working Group e del DHS Faith-Based Security and Communications Advisory Committee. Insomma, un personaggio che pubblica post a favore del Califfato inserito in un team anti-radicalizzazione? Sembra una barzelletta, ma non lo è purtroppo.

Tornando all’Egitto, è evidente come oggi il Paese ricopra un ruolo di primo piano nella lotta al jihadismo e all’estremismo islamista, sia di matrice wahhabita che della Fratellanza.

Il Cairo è inoltre un solido alleato del generale Haftar che in Libia usa il pugno duro contro l’islamismo che da anni sta gravemente destabilizzando l’area. L’Egitto e Haftar sono inoltre degli alleati essenziali per quanto riguarda il contrasto all’immigrazione clandestina che rischia di destabilizzare l’Europa. Serve dunque un Egitto forte, ma stranamente Washington sembra volerlo indebolire. Chissa perché gli Usa non tengono con paesi come Arabia Saudita e Qatar, le stesse posizioni che mantengono con l’Egitto? Petrol-monarchie che certamente non sono modelli di riferimento in quanto ai diritti umani ma che sono anche i paesi che esportano l’ideologia wahhabita e quella dei Fratelli Musulmani.

 

Mosca ringrazia

Il ritiro degli aiuti militari al Cairo è l’ennesimo passo falso di Washington. Alcuni ipotizzavano che con Trump la politica estera statunitense sarebbe cambiata, ma è logico che decenni di infiltrazione istituzionale non si sradicano in pochi mesi, come del resto illustrava la giornalista Germana Leoni von Dohnanyi: “La collusione fra lo Stato Profondo (Usa) e la Fratellanza Islamica non era un segreto per nessuno e andava ben oltre lo sdoganamento di Barack Obama all’Università di al-Azhar al Cairo. La Confraternita rischiava di piantare radici anche più profonde persino alla Casa Bianca”.

Fatto sta che la politica estera di Obama è stata fallimentare, forse la peggiore nella storia degli Usa. Un brevissimo bilancio? Supporto fallimentare alle cosiddette “Primavere arabe” (che di spontaneo avevano ben poco) con caduta in picchiata della Fratellanza Musulmana, passata in brevissimo tempo da organizzazione politica “sdoganata” a livello istituzionale a gruppo terrorista finito nella lista nera di numerosi paesi mediorientali. Perdita della Turchia, alleatasi con Mosca in chiave anti-Isis. In Siria Assad non solo non è stato rovesciato ma esce dal conflitto addirittura rafforzato. In Egitto è sempre maggiore l’influenza russa e Washington rischia così di perdere anche lo storico alleato che da sempre svolge un ruolo fondamentale per la stabilità dell’area mediorientale. Scelte sbagliate che hanno portato a un fallimento su tutta la linea e Mosca ringrazia.

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