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manifesto

L’assedio al razzismo comincia tra i banchi di scuola

di Angela Davis

Femminismi. Un'anticipazione dal volume «Donne, razza e classe», edito da Alegre, che sarà in libreria dall'8 marzo

Tra le donne lavoratrici e le donne provenienti da facoltose famiglie di classe media erano sicuramente le operaie quelle che avevano più diritto a fare confronti con lo schiavismo. Sebbene nominalmente libere, le loro condizioni di lavoro e le loro paghe richiamavano automaticamente, per le condizioni di sfruttamento, il paragone con la schiavitù. Tuttavia, furono le donne abbienti a invocare nella maniera più letterale l’analogia schiavista nel tentativo di esprimere la natura oppressiva del matrimonio.

Durante la prima metà del diciannovesimo secolo l’idea che la secolare e consolidata istituzione del matrimonio potesse essere oppressiva era in qualche modo insolita. Le prime femministe potevano descrivere il matrimonio come una forma di «schiavitù» dello stesso tipo di quella patita dal popolo Nero innanzitutto per il valore scioccante del confronto, temendo che la serietà della loro protesta potesse altrimenti cadere nel vuoto. In tal modo però ignoravano che, identificando le due istituzioni, si affermava che la schiavitù in fondo non fosse peggio del matrimonio. Ad ogni modo l’implicazione più importante di questo confronto fu che le donne bianche di classe media sentivano una certa affinità con le donne e gli uomini Neri, per i quali la schiavitù voleva dire frustate e catene.

NEL TERZO DECENNIO del diciannovesimo secolo le donne bianche – sia le casalinghe che le lavoratrici – furono attivamente coinvolte nel movimento abolizionista. Le operaie contribuivano col denaro dei loro magri salari e organizzavano mercatini per raccogliere fondi, mentre le donne di classe media divennero agitatrici e organizzatrici della campagna anti-schiavitù.

Quando nel 1833 nacque la Philadelphia Female Anti-Slavery Society, sull’onda del congresso che dette origine alla American Anti-Slavery Society, un discreto numero di donne bianche manifestò il proprio sostegno alla causa del popolo Nero, fissando le basi per un legame tra i due gruppi oppressi (per la precisione la prima associazione femminile contro la schiavitù fu formata da donne Nere a Salem, nel Massachusetts, nel 1832). Quell’anno, in un evento ampiamente conosciuto, una giovane donna emerse come modello esemplare di coraggio femminile e di militanza antirazzista: Prudence Crandall era un’insegnante che sfidò gli abitanti bianchi della sua città, Canterbury, nel Connecticut, accettando nella propria scuola una ragazza Nera.

La sua presa di posizione inflessibile in quella controversia divenne il simbolo della possibilità di forgiare una potente alleanza tra la lotta per la liberazione dei Neri, già organizzata, e l’embrionale battaglia per i diritti delle donne. I genitori delle ragazze bianche che frequentavano la scuola di Prudence Crandall espressero la loro unanime opposizione alla presenza della studentessa Nera e organizzarono un boicottaggio ben pubblicizzato, ma l’insegnante del Connecticut rifiutò di capitolare di fronte alle loro richieste razziste. Seguendo il consiglio di Charles Harris – una donna Nera che aveva assunto nella scuola – Crandall decise di accogliere altre ragazze Nere e, se necessario, di trasformare la propria scuola in una scuola solo per Nere.

DA ESPERTA ABOLIZIONISTA la signora Harris presentò Crandall a William Lloyd Garrison, che pubblicava su Liberator – il giornale antischiavista – articoli sulla scuola. I cittadini di Canterbury si opposero facendo passare una risoluzione contro i suoi progetti secondo la quale «il governo degli Stati Uniti, la nazione con tutte le sue istituzioni di diritto, appartengono agli uomini bianchi». Senza dubbio parlavano di «uomini bianchi» nel senso letterale di maschi, perché Prudence Crandall non solo aveva violato il loro codice di segregazione razziale, ma aveva anche sfidato le norme tradizionali di condotta delle signore bianche.

«NONOSTANTE LE MINACCE Prudence Crandall aprì la scuola (…). Le studentesse Negre stavano coraggiosamente al suo fianco. E allora accadde uno degli episodi più ’eroici’ e vergognosi della storia degli Stati Uniti. I commercianti si rifiutarono di vendere i loro prodotti a Miss Crandall (…). Il dottore del paese si rifiutò di visitare i suoi studenti indisposti. Il farmacista negò le medicine. Al vertice di tanta bestiale disumanità, dei facinorosi ruppero i vetri della scuola, sporcarono di letame i muri e tentarono di incendiare in diversi punti l’edificio» (dal libro di Samuel Sillen, Women against Slavery, Masses and Maistream, New York, 1955).

Questa giovane quacchera dove trovò la sua straordinaria forza, e come sviluppò questa sorprendente capacità di perseverare in una situazione pericolosa, sottoposta a un assedio quotidiano? Probabilmente l’aiutarono i legami con i Neri la cui causa difendeva tanto ardentemente. La scuola continuò a funzionare fino a quando le autorità del Connecticut ordinarono il suo arresto. Ma, a quel punto, Prudence Crandall aveva ormai lasciato un segno nella sua epoca al punto che, nell’apparente sconfitta, emerse come un simbolo di vittoria.

GLI EVENTI DI CANTERBURY del 1833 eruppero all’inizio di una nuova era. Come la rivolta di Nat Turner, come la nascita del Liberator di Garrison o la fondazione della prima organizzazione nazionale contro lo schiavismo, annunciavano l’avvento di un’epoca di intense lotte sociali. La salda difesa del diritto allo studio anche per i Neri da parte di Prudence Crandall è stata un drammatico esempio – più potente di quanto si potesse immaginare – per quelle donne bianche che stavano soffrendo il travaglio di una nuova consapevolezza politica.

In maniera lucida ed eloquente le sue azioni illuminavano ampi spazi di possibilità per la lotta di liberazione se le donne bianche avessero solidarizzato in massa con le proprie sorelle Nere. «Facciamo tremare gli oppressori del sud, facciamo tremare i loro apologeti del nord. Facciamo tremare tutti i nemici dei Neri perseguitati. Non ho bisogno di usare la moderazione in una causa come questa. Parlo seriamente, non mi sbaglio, non mi scuso, non torno indietro di un millimetro. Mi farò ascoltare».

Questa dichiarazione priva di compromessi era firmata da William Lloyd Garrison e comparve sul primo numero del Liberator. Nel 1833, due anni dopo, questo pionieristico giornale abolizionista si era creato un pubblico significativo formato da un ampio gruppo di abbonati Neri e da un sempre crescente numero di bianchi.

PRUDENCE CRANDALL e altri come lei erano fedeli sostenitori del giornale. Ma anche le operaie bianche erano tra coloro che concordavano facilmente con la posizione antischiavista militante di Garrison. Inoltre, una volta organizzatosi il movimento abolizionista, le donne di fabbrica portarono un decisivo supporto alla causa. Tuttavia, le donne bianche più in vista nella campagna contro la schiavitù erano quelle che non erano obbligate a lavorare per un salario. Erano le mogli dei dottori, degli avvocati, dei giudici, dei commercianti, dei proprietari degli opifici, in altre parole le donne della classe media e della nascente borghesia.

Nel 1833 molte di queste donne della classe media avevano probabilmente iniziato a rendersi conto che qualcosa nelle loro vite era andato storto. Come «casalinghe» in una nuova era di capitalismo industriale, avevano perso ogni importanza nelle loro stesse case, e il loro status sociale in quanto donne aveva patito una conseguente svalutazione. Nel frattempo avevano però guadagnato tempo libero da dedicare alla lettura, che consentiva loro di diventare riformiste sociali od organizzatrici attive della campagna abolizionista. A sua volta l’abolizionismo conferiva loro l’opportunità di lanciare una protesta implicita contro l’oppressione dei propri ruoli domestici.

Solo quattro donne furono invitate a partecipare all’assemblea di fondazione della American Anti-Slavery Society. Gli organizzatori maschi di questo meeting di Philadelphia decretarono inoltre che potessero partecipare solo nelle vesti di «ascoltatrici e spettatrici», senza quindi una piena partecipazione.

QUESTO NON IMPEDÌ a Lucretia Mott – una delle quattro – di rivolgersi coraggiosamente agli uomini dell’assemblea in almeno due occasioni. Nell’apertura dei lavori si alzò con baldanza dalla galleria (il posto per ascoltare da spettatrice) e argomentò contro una mozione che voleva posticipare l’incontro a causa dell’assenza di un importante uomo di Philadelphia: «I giusti princìpi sono più forti dei nomi. Se i nostri princìpi sono giusti, perché mai dovremmo essere codardi? Perché mai dovremmo aspettare chi non ha mai avuto il coraggio di sostenere i diritti inalienabili degli schiavi?».

Senza dubbio Lucretia Mott – che era anche pastore quacchero – stupì quel pubblico maschile, perché in quei giorni le donne non prendevano parola negli incontri pubblici.

Nonostante gli applausi del pubblico, che aprì i lavori seguendo la sua proposta, in chiusura dell’assembela né lei né le altre donne furono invitate a firmare la Déclaration of Sentiments Purposes.

FOSSE PER UN DIVIETO esplicito sulle firme femminli, o perché agli uomini non venne in mente di far firmare le donne, ad ogni modo si mostrarono molto miopi. Il sessismo impedì loro di coinvolgere nel movimento abolizionista un vasto potenziale di donne. Lucretia Mott, che non era affatto miope, organizzò l’assemblea inaugurale del Philadelphia Female Anti Slavery Society nei giorni successivi al congresso maschile. Era destinata a diventare una figura pubblica di primo piano del movimento antischiavista, una donna ammirata ovunque per il suo coraggio e per la sua tenacia di fronte alla furiosa teppa razzista. «Nel 1838 questa donna dall’aspetto fragile, vestita con gli abiti sobri e inamidati dei quaccheri, affrontava con serenità la folla tumultuante favorevole alla schiavitù che aveva distrutto col fuoco la Pennsylvania Hall con la connivenza del sindaco della città»


  • Il testo è estratto dal capitolo 2 («Il movimento abolizionista e l’origine dei diritti delle donne») del volume che sarà nelle librerie da domani 8 marzo (edizioni Alegre, trad. Marie Moïse e Alberto Prunetti, prefazione Cinzia Arruzza, pp. 304, euro 18) e sarà presentato il 10 all’interno di «Feminism», fiera dell’editoria delle donne, alle ore 12 (Casa internazionale delle donne, Roma). Uscito negli Usa nel 1981, il libro sviluppa un saggio scritto in carcere nel 1971, uno studio sulla condizione delle afroamericane durante lo schiavismo volto a riscoprire la storia dimenticata delle ribellioni delle donne nere contro la schiavitù. Racconta episodi tragici degli Stati Uniti, frutto di miti ancora in voga come quello dello «stupratore nero» e della superiorità della «razza bianca», ma anche momenti di resistenza, attraverso  alcune figure chiave della lotta per i diritti delle donne, delle nere e dei neri, e della working class americana.

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