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David Harvey e la follia del capitale

di Giovanni Di Benedetto

“Una condizione della produzione fondata sul capitale è quindi la produzione di un cerchio della circolazione costantemente allargato […]. La tendenza a creare il mercato mondiale è data immediatamente nel concetto del capitale stesso. Ogni limite si presenta come un ostacolo da superare. […] Nei confronti di tutto questo esso è distruttivo e agisce nel senso di un perenne rivoluzionamento, abbattendo tutte le barriere che ostacolano lo sviluppo delle forze produttive, l’espansione dei bisogni, la molteplicità della produzione e lo sfruttamento e lo scambio delle forze della natura e dello spirito.”

(Karl Marx, Grundrisse. Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica)

David Harvey è uno dei più importanti studiosi di Marx. Nel suo lavoro si coniugano il tentativo ostinato, pedagogico si potrebbe dire, di rendere, per quanto è possibile, immediatamente comprensibile la teoria di Marx e la convinzione che la ricerca marxista, per essere davvero produttiva, debba lavorare in campo aperto, superando gli angusti vincoli della tradizione e gli steccati dell’ortodossia e dello specialismo disciplinare. Il taglio peculiare dell’interpretazione di Harvey è costituito dall’interesse per il modo in cui l’accumulazione del capitale si dispiega entro le coordinate geografiche dello spazio e quelle storiche del tempo. Questi tratti caratteristici del suo lavoro, che lo rendono particolarmente efficace nell’illustrare tutta l’eterogeneità e la complessità del capitalismo, possono essere agevolmente rilevati nell’ultimo libro pubblicato in Italia da Feltrinelli, Marx e la follia del capitale (2018).

Il titolo, come è ovvio, non è casuale. La critica dell’economia politica riesce a produrre, lì dove fallisce la teoria economica mainstream, non solo un di più di conoscenza ma anche gli strumenti concettuali in grado mettere il pensiero e l’azione nelle condizioni di trascendere l’unidimensionalità asfittica e totalitaria della globalizzazione capitalistica. Il flusso generale del capitale come valore in movimento non può essere rappresentato da un circolo perfettamente chiuso, che rimanderebbe a una condizione di equilibrio astratto e niente affatto concreta, ma soltanto da una spirale in costante espansione. Risiede infatti in questa tensione costante e bulimica, volta a fagocitare risorse naturali, forze lavoro e mezzi di produzione, il generale impazzimento che sembra condurre il processo di riproduzione su scala allargata del modo di produzione capitalistico, e con esso tutti noi, verso il disastro.

Il capitale, infatti, si caratterizza per una vocazione totalitaria che tutto assorbe e piega in funzione dell’accumulazione del profitto. Forse anche per questo motivo la grande aspirazione di Marx, secondo Harvey, era quella di rappresentare il capitale nella sua totalità. Nei tre libri de Il Capitale, adottando prospettive differenti, Marx analizza il processo di valorizzazione, di realizzazione e di distribuzione, sottolineando come i contraddittori momenti si articolino come differenze all’interno di un’unità nella quale si presuppongono e si relazionano reciprocamente. “La totalità qui non è quella di un singolo organismo come il corpo umano, ma una totalità ecosistemica con molte specie di attività che competono o collaborano, con una storia evolutiva aperta”(57). Il grande merito di Marx consiste nell’avere elaborato una teoria del cambiamento storico in grado di tenere conto dell’insieme dei rapporti che costituiscono una formazione sociale capitalistica. “Tecnologie, rapporto con la natura, rapporti sociali, modo di produzione materiale, vita quotidiana, concezioni mentali e quadri istituzionali – sono in rapporto, entro la totalità del capitalismo, in un processo di evoluzione continua alimentato dalla circolazione continua del capitale che funge, per così dire, da motore della totalità” (118-119).

Al fine di evitare perniciosi fraintendimenti, questa rappresentazione del capitale come motore della totalità va meglio chiarita. Harvey precisa infatti come Marx debba essere letto senza privilegiare un’unica causa in grado di determinare la trasformazione sociale: “Marx non può e non deve essere letto come un teorico della “pallottola singola”, anche se molte rappresentazioni del suo lavoro lo considerano tale. (…) Nell’ampio lavoro di Marx non esiste un motore primo, ma un groviglio di movimenti spesso contraddittori in e tra diversi momenti, movimenti che devono essere svelati ed elaborati” (119). È evidente che costruire una teoria in grado di tenere insieme un tale approccio multidisciplinare era un compito improbo che Marx non è riuscito a portare a termine. E, in fin dei conti, si può forse ammettere che un tale obiettivo sarebbe stato al di sopra anche delle sue pur straordinarie capacità.

Tuttavia, il filosofo di Treviri una cosa l’aveva chiara, ossia il fatto che “quell’ecosistema organico che costituisce il capitale era attraversato da instabilità che avrebbero potuto produrre crisi, con grande probabilità e in modi complicati”(57). La crisi non interviene mai come un fattore estrinseco allo sviluppo proteiforme del capitale ma è, al contrario, un elemento di natura endogena che esprime l’intima e autodistruggentesi natura dialettica del valore in movimento. L’analisi marxiana della forma di valore, del suo rapporto con il lavoro socialmente necessario da un lato e con la forma di denaro dall’altro, dimostra che il fattore dell’instabilità e della crisi è necessariamente immanente alla rotazione complessiva del capitale. Marx vuole mostrare come il denaro sia una forma di manifestazione necessaria del valore e dunque che il valore si manifesta soltanto nel denaro. Ridurre la teoria del valore a una semplice teoria del valore lavoro significa disconoscere il pregio della sua opera.

Inoltre Harvey invita il lettore a considerare come in Marx si sviluppi l’analisi del valore inteso come un rapporto sociale col quale si definisce il tempo di lavoro socialmente necessario che viene impiegato nella produzione di un qualche bene da collocare in vendita sul mercato. “Mantenere la centralità del concetto di valore permette a Marx di indagare la natura della metamorfosi che converte il valore dalla forma di denaro alla forma di merce”(22) e gli consente, inoltre, di individuare nel processo della metamorfosi la possibilità della crisi. Ma, soprattutto, permette al Moro di riconoscere che nei luoghi della produzione non viene soltanto creato e ricreato valore ma viene anche perpetuato un rapporto sociale che si sostanzia nello sfruttamento della forza lavoro nella forma dell’estorsione di plusvalore: con una pungente ironia Harvey rammenta che “la produzione è il momento magico in cui si verifica quella che Marx chiama la valorizzazione del capitale”(24), a significare che il capitalista, visto che nella sfera della circolazione le merci vengono scambiate tutte al loro valore, fa di tutto per mantenere nascosto l’enigma della valorizzazione del capitale ossia della produzione di ricchezza. Marx svela tale enigma dimostrando che la forza lavoro è l’unica risorsa a creare un ampliamento di valore. Infatti “i capitalisti pagano ai lavoratori il valore della loro forza lavoro e poi li usano per produrre più valore di quello che essi ricevono vendendo la propria forza lavoro per un certo intervallo di tempo. La base della produzione e dell’appropriazione del plusvalore sta nello sfruttamento della forza lavoro viva nel processo di produzione ma, notate bene, non sul mercato”(38).

Il valore trova nel denaro la sua espressione materiale, la sua abbagliante rappresentazione, ma, proprio perché definibile come un rapporto sociale, esso si distingue innanzitutto per il suo contraddittorio carattere di immaterialità, un carattere, nonostante questo, gravato dalle indiscutibili e spettrali conseguenze materiali e oggettive. “Il materialismo storico riconosce l’importanza di forze immateriali ma oggettive di questo genere” (19) dice Harvey. La nozione di valore in Marx, scrive Harvey, ha la stessa valenza che possono avere concetti come quello di autorità politica, di prestigio sociale o di identità culturale, concetti a cui si ricorre costantemente anche se sono di difficile misurazione e decidibilità. “Marx è molto attento alle parole. Parla del denaro quasi esclusivamente come la “forma di espressione” o come la “rappresentazione” del valore. Evita scrupolosamente l’idea che il denaro sia valore incarnato, o che sia un simbolo arbitrario imposto per convenzione ai rapporti di scambio (idea diffusa nell’economia politica del suo tempo). Il valore non può esistere senza il denaro come suo modo d’espressione. Viceversa, per quanto autonomo possa sembrare, il denaro non può tagliare il cordone ombelicale che lo lega a ciò che rappresenta. Dobbiamo pensare denaro e valore come autonomi e indipendenti l’uno dall’altro, ma dialetticamente intrecciati”(61-62). In che modo, allora, deve essere considerato il rapporto tra il valore e la sua espressione in forma di denaro? Marx riconduce il problema ai rapporti sociali sottostanti che determinano il valore. Sotto questo rispetto non si deve dimenticare, come si è già detto, che Marx rimanda la determinazione del valore allo sfruttamento nella sfera della produzione, lì dove vige la proprietà privata, della forza lavoro. Se il centro del problema è l’estorsione di plusvalore determinata dall’erogazione di un pluslavoro (il lavoro alienato sottoposto allo sfruttamento), allora perseguire l’obiettivo di una liberazione del lavoro dall’oppressione capitalista significa cambiare i rapporti di produzione per permettere al lavoratori associati di impossessarsi del controllo dei mezzi di produzione e di emanciparsi dal dominio di classe. Da questo punto di vista, Harvey sostiene che, secondo Marx, pensare di risolvere il problema prospettando soluzioni che modificano esclusivamente la sfera della circolazione, ossia che riformano soltanto il sistema creditizio e quello monetario, è illusorio.

​Harvey, a conclusione del libro, scrive che “quel che Marx fa, nel Capitale come nei suoi altri scritti di economia politica, è suggerire una strada per penetrare in mezzo a tutte le confusioni del funzionamento quotidiano di un modo capitalistico di produzione e arrivare alla sua essenza - le sue leggi interne del moto – attraverso la formulazione di concetti astratti intrecciati in una (…) teoria dell’infinita accumulazione del capitale”(207). Il testo di David Harvey è un testo prezioso perché si propone di calare questo impianto teorico complessivo entro la dimensione spazio-temporale dell’esistenza quotidiana, dimostrando in tal modo la vitalità prodigiosa dell’opera marxiana.

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