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giubberosse

La vittoria impossibile

di Enrico Tomaselli

Quello che sta accadendo sul terreno in Ucraina è ormai abbastanza evidente a tutti e persino i media propagandistici occidentali cominciano a far filtrare la realtà. In qualche modo, bisogna cominciare a preparare le opinioni pubbliche a quel che verrà.

In questo momento, le forze armate russe si stanno concentrando soprattutto sul fronte ovest del Donetsk, con l’obiettivo di liberare la restante parte dell’oblast ancora sotto controllo ucraino. Si tratta di una fase necessariamente più lenta, perché lungo questa linea del fronte si trovano a dover conquistare i vari nodi di una linea fortificata, predisposta già dagli anni della guerra civile con le repubbliche autonomiste; villaggi e città sono trincerati, ed è necessario snidare i militari ucraini combattendo casa per casa, strada per strada. Anche se il lavoro dell’artiglieria e delle forze aerospaziali è possente ed efficace (secondo fonti ucraine, stanno bombardando le posizioni ucraine 700-800 volte al giorno, sparando da 40 a 60 mila colpi), sta poi alle truppe di terra conquistare i centri abitati, e ripulirli da sacche di resistenza, prima di poter procedere oltre. Oltretutto, le forze armate russe operano in condizione di inferiorità numerica, laddove invece – di norma – gli attaccanti dovrebbero essere in numero superiore, se non soverchiante, sui difensori.

Immediatamente dopo questo, il secondo fronte su cui prima o poi i russi riprenderanno l’iniziativa è quello sud. Qui l’esigenza primaria è quella di ricacciare indietro le forze ucraine, così da recuperare una profondità sufficiente che impedisca agli ucraini di colpire le città di Donetsk e di Kherson, e soprattutto la centrale nucleare di Enerhodar.

Quest’ultima, ancorché la più urgente sotto il profilo della sicurezza, è anche la parte più complessa da conseguire. La centrale, infatti, si trova sulla riva sud di un ampio bacino idrico, creato dal fiume Dniepr nella sua corsa verso il mar Nero, e che è troppo ampio per pensare ad una operazione anfibia – che sarebbe esposta al fuoco di artiglieria. L’unico modo per ripulire la sponda nord, è aggirare il bacino stesso, o venendo da est, oppure risalendo da ovest. Nel primo caso sarebbe necessario superare il fiume Dniepr, ed è presumibile che gli ucraini facciano saltare i ponti ancora intatti.

C’è, inoltre, una terza possibilità, che potrebbe essere avallata da alcuni indicatori, ovvero una imminente offensiva verso la città di Kharkiv, a nord del Donbass. Questo settore, che non fa parte degli oblast del Donbass, ha registrato ultimamente un intensificarsi degli scontri, e soprattutto del fuoco di artiglieria russo. Inoltre, si segnala una intensa attività di droni ricognitori americani Puma PQ-200, segno che il comando NATO teme un’iniziativa nell’area.

Un eventuale attacco a Kharkiv avrebbe del resto svariate ragioni: costringerebbe gli ucraini a spostare velocemente truppe nel settore (ed è nota la difficoltà ad effettuare manovre rapide, per le forze armate di Kyev), sguarnendone altri; in caso di sfondamento, consentirebbe ai russi una manovra di accerchiamento convergendo verso sud (una tattica ampiamente usata dalle forze di Mosca); consentirebbe di allontanare la minaccia dell’artiglieria ucraina che colpisce la zona di Kursk; costituirebbe un colpo assai duro al morale ed alla capacità di resistenza dell’esercito ucraino.

Per conseguire questi obiettivi, i russi comunque hanno fondamentalmente una finestra di 45/60 giorni massimo, prima che le condizioni meteo volgano al brutto; con la ripresa delle piogge, infatti, il terreno delle pianure si farà fangoso, rendendo difficile – o comunque più lenta e faticosa – l’avanzata, e favorendo al contrario le difese ucraine.

 

Vista da Kyev

Dal punto di vista di Kyev, la situazione è assai più complicata. Sul fronte est, le linee fortificate al confine del Donetsk stanno rallentando sì l’avanzata russa, ma molto meno del previsto. Se dovesse cedere anche quella più arretrata, la linea Slovyansk-Kramatorsk, c’è il rischio che le forze russe dilaghino verso ovest. A quel punto, sia Kharkiv a nord, che l’intero fronte sud, sarebbero seriamente a rischio.

Il problema maggiore, però, è la capacità operativa dell’esercito. Che in questa fase, se pure ha potuto aumentare considerevolmente il numero di uomini al fronte (Kyev parla di 700.000 mobilitati, il che fa presumere che almeno 400.000 siano schierati in prima linea, portando il rapporto con i russi intorno al 2:1), l’efficienza di combattimento sta calando rapidamente.

Ad incidere sull’operatività delle forze ucraine sono diversi fattori. Il primo è, ovviamente, quello delle perdite (morti, feriti, prigionieri). Tra il 2015 e la fine del 2021, i paesi NATO hanno addestrato circa 60.000 militari ucraini e, sia pure a ritmi assai più ridotti, continuano ancora adesso. Ma è soprattutto tra questi soldati più addestrati che si sono registrate le maggiori perdite durante questi sei mesi di guerra, cosicché adesso ne restano troppo pochi, e troppo dispersi tra le varie unità. Ancor più significative, sotto il profilo dell’efficienza, le perdite tra gli ufficiali. Con reparti composti in misura crescente di coscritti, senza esperienza di combattimento e senza sufficiente addestramento, spesso inviati al fronte anche con scarso equipaggiamento, inevitabilmente l’incidenza di quelli esperti e preparati si diluisce, a tutto detrimento della capacità di combattimento dei reparti stessi. A ciò si aggiunge un crescente scoraggiamento, che fa aumentare le diserzioni e le rese di intere unità.

Un altro problema è quello degli armamenti. Gran parte di quello di epoca sovietica, sia già nella disponibilità ucraina sia fornito dai paesi NATO ex-sovietici, è ormai esaurito, e le forze armate fanno prevalentemente affidamento su armamento occidentale. Che però presenta a sua volta tre ordini di problemi: l’eterogeneità, la complessità tecnologica, e la quantità. Mentre i primi due si intrecciano negativamente con i tempi di addestramento sempre più stretti, la quantità (relativamente) scarsa, comunque insufficiente, ne rende il valore d’uso poco incisivo sul piano tattico; tra l’altro, e per la prima volta dall’inizio dei combattimenti, si sono fermati i trasferimenti di armi da parte dei paesi europei. La sempre maggiore incapacità di sviluppare manovre tattiche, per tutte le ragioni suddette, sta portando le forze armate ucraine sempre più verso forme di combattimento obliquo: i continui bombardamenti sulle città del Donetsk, gli attacchi alla centrale nucleare, al deposito di ammoniaca, e più di recente quelli sul territorio della Crimea (autorizzati dagli USA, ma che hanno più che altro un valore simbolico, visto che già da tempo gli ucraini colpiscono il suolo russo), sono tutte scelte tattiche – coordinate ed approvate dalla NATO – che rispondono ad una logica precisa. Stante appunto l’incapacità delle forze di Kyev di sviluppare una qualche forma di iniziativa militare, preferiscono distogliere parte della già insufficiente artiglieria dal fronte operativo (lasciando sguarnite del necessario appoggio le unità combattenti) per mettere in campo delle azioni che abbiano la parvenza di una capacità offensiva, che diano all’opinione pubblica americana l’idea che le armi fornite servano a qualcosa, e soprattutto nella speranza che queste continue provocazioni spingano la Russia a reagire in modo scomposto, distraendola dai suoi piani operativi ed incastrandola in una sorta di botta-e-risposta priva di efficacia strategica, ed in cui l’Ucraina recupererebbe un apparente ruolo di parità.

Ma la Russia sembra ben determinata a non cadere nella trappola, lasciando quindi l’Ucraina prigioniera del ruolo di fornitore di carne da cannone, per la proxy war NATO vs Russia.

 

Oltre il campo di battaglia

Ma, oltre il campo di battaglia, c’è la guerra nella sua interezza. Con le sue singolarità, e le sue incertezze.

Perchè, a ben vedere, questa è una guerra assai strana. Si può tranquillamente affermare che, sin dal primo momento – che non è certo il 24 febbraio 2022… – i suoi protagonisti sono stati tre: gli USA, la Russia e l’Ucraina. Gli Stati Uniti sono stati, sin da prima del golpe di piazza Maidan, il motore del processo che ha portato dapprima alla guerra civile nel Donbass, e dopo otto anni alla guerra guerreggiata con la Russia. Eppure, per quanto possa apparire assurdo, nonostante la guerra fosse l’obiettivo di Washington sin da allora, tutti e tre gli attori sono entrati in scena senza avere le idee chiare su cosa sarebbe accaduto.

Ovviamente, e più di tutti, è stata l’Ucraina a trovarsi in guerra senza immaginare neanche lontanamente come sarebbe andata a finire; perchè è chiaro che, a Kyev, si illudevano che la NATO, o comunque gli USA, sarebbero intervenuti seriamente per difenderli. E probabilmente gli è stato fatto credere, anche senza promettere nulla.

Non aveva le idee chiare la Russia, che – come dimostrato sia dalle richieste reiterate sino all’ultimo istante, sia dalla prima fase della guerra – pensava che una poderosa avanzata su più fronti, con i carri armati alle porte di Kyev, avrebbero spinto sia gli ucraini che gli europei a correre al tavolo delle trattative, costringendo gli americani a farlo a loro volta. Salvo poi realizzare che ucraini ed europei erano totalmente soggiogati dalla propaganda statunitense, ed ostaggio delle sue scelte politico-militari.

Ma paradossalmente sono andati allo sbaraglio anche gli USA!, che avevano come obiettivo strategico di recidere, in modo secco e duraturo, ogni rapporto tra l’Europa e la Russia, e secondariamente di logorare l’apparato militare russo e l’economia europea; ma che non si sono mai posti seriamente il problema di come gestire lo strumento scelto per conseguire questi obiettivi, cioè appunto la guerra.

Il risultato di questo caos anti-clausewitziano, in cui la guerra diventa il proseguimento di una politica che ha chiari gli obiettivi, ma non come raggiungerli, è che dopo sei mesi l’unica cosa certa è che l’Ucraina è un paese finito.

La stessa progressiva scomparsa mediatica di Zelensky, che pure è stato oggetto di una delle più grandi campagne di comunicazione in occidente, non è dovuta soltanto alla sua sovraesposizione, e/o alla consunzione della sua immagine, quanto al fatto che era la sineddoche del paese; ed il paese non è più, neanche mediaticamente, un soggetto nel conflitto, ma meramente il suo terreno di battaglia, la sua carne da cannone.

 

Gli obiettivi, politici e militari, della Russia

Dal canto suo, la Russia sta ora perseguendo sistematicamente tutti i propri obiettivi, politici e militari. Sta riprendendo tutti i territori della Nova Russia storica, quindi l’intera Ucraina meridionale, dal Donbass ad est sino alla Transnistria ad ovest, e lo sta facendo col chiaro obiettivo di integrarli nella Federazione Russa; e con ciò, sta spostando ad ovest il limes con la NATO. Sta demilitarizzando di fatto l’Ucraina, il cui esercito è praticamente distrutto, e resiste solo in virtù dell’aiuto occidentale. E, quando cominceranno i processi contro gli ukronazi, darà una bella mazzata al nazionalismo tossico e venato di nazismo. In questo, il fatto più significativo è che il processo di integrazione procede spedito, e già da adesso, a combattimenti ancora in corso, segno inequivocabile che non sono conquiste soggette a possibile trattativa. Il punto è che, con l’avvio dell’Operazione Militare Speciale, ed ancor più con il cambio di strategia susseguente alla presa d’atto che l’occidente voleva la guerra, la Russia ha varcato il Rubicone. Tornare indietro non è nel novero delle possibilità. O si vince o si perde. Ed è precisamente questo l’atout di Mosca: la precisa consapevolezza della posta in gioco, e la determinazione a giocare sino in fondo, sono l’elemento che determina il vantaggio strategico russo. Mentre sul terreno la preponderanza militare ha facile gioco sugli ucraini, anche sul piano politico-diplomatico l’iniziativa è in mano russa. Che, oltretutto, può contare sulla compatta convergenza dell’intera leadership sui propri obiettivi.

Al contrario, a Washington questa compattezza non c’è assolutamente ed è aggravata dalla mancanza di una effettiva strategia militare, che non sia il mero alimentare il conflitto ad libitum. Una linea che non fa i conti con i dati reali, dalla netta supremazia russa sul terreno alla crescente stanchezza degli alleati europei, dalle dinamiche interne al regime ucraino alla difficoltà materiale di sostenere un ritmo infinito di forniture militari.

La questione, quindi, che dovrebbe preoccupare tutti i soggetti coinvolti, direttamente o indirettamente, e cioè USA e Russia innanzitutto, ma anche l’Europa, è precisamente: come se ne esce? Perchè uno dei problemi più grandi, delle guerre è che tendono ad avere vita propria: una volta messo in moto il meccanismo, non vanno quasi mai come avrebbero voluto coloro che le hanno avviate. E più passa il tempo, più cresce la possibilità che emergano variabili impreviste.

 

Nessuno può perdere

Il punto cardine è che entrambe i contendenti, USA e Russia, non possono né vogliono perdere.

Quindi, presumibilmente, nessuno dei due farà la prima mossa verso la fine delle ostilità. Sarebbe auspicabile che a farla fosse l’Europa, ma è troppo debole politicamente, divisa al suo interno e strutturalmente soggetta al dominio americano. Quando la crisi comincerà a mordere davvero, i singoli paesi cercheranno di sottrarsi alla morsa, ciascuno per proprio conto, senza alcuna visione comune e, soprattutto, senza una comune linea politica, capace di avviare un processo di pace. Per come stanno adesso le cose, quindi, l’ipotesi più probabile che possa portare quanto meno ad un cessate il fuoco è quella della partizione. L’esercito ucraino collassa, le perdite materiali ed umane ed il crollo del morale ne annichiliscono la capacità di combattimento e praticamente cessa di resistere all’avanzata russa. A quel punto, l’esercito polacco occupa la parte occidentale del paese, spingendosi verso la linea del fronte. Per evitare il contatto e lo scontro diretto Russia-NATO entrambe le forze armate si fermano, si crea una zona cuscinetto, una no-man’s-land sul modello coreano, e la guerra viene congelata. La Russia può rivendicare di aver conseguito i suoi obiettivi, la NATO rivendicherà d’aver fermato la Russia. Non ci sarà alcun trattato di pace, perchè la NATO non riconoscerà mai formalmente le conquiste territoriali russe.

Last but not least, la guerra rimane in stand-by, tenendo comunque impegnate le forze armate russe nel territorio ex-ucraino e funziona da ottimo deterrente a qualsiasi tentativo europeo di riallacciare rapporti commerciali con Mosca.

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