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Roberto Fineschi, Marx e Hegel

di Alessandro Barile

Roberto Fineschi, Marx e Hegel. Fondamenti per una rilettura, Napoli, La scuola di Pitagora, 2024

Fineschi torna sul luogo del delitto, ripubblicando il suo noto Marx e Hegel, stavolta per La scuola di Pitagora. Le modifiche e le aggiunte alla prima edizione (del 2006) sono diverse, e ne dà conto l’autore nella Nota iniziale. Soprattutto viene ampliata la terza (e conclusiva) parte, con l’aggiunta di due capitoli, l’uno su Lenin e Hegel, l’altro e su Dal Pra e la dialettica, tratti da suoi lavori precedenti. È dunque questa un’edizione aggiornata, e non una mera riproposizione del suo vecchio libro. Una versione più chiara e compiuta, pur nella tecnicità del linguaggio e degli argomenti, che ne fanno un lavoro poco accessibile ai non esperti. Nonostante ciò, siamo in presenza di un contributo rilevante, con inevitabili selezioni e anche lacune, ma che discute il tema classico della filosofia marxiana – il suo rapporto con Hegel – con una capacità di sintesi che non cede alle lusinghe dell’intervento polemico o d’immediato uso politico.

Molte cose apprezzabili emergono dallo scavo filologico degli scritti marxiani. In primo luogo, si direbbe “ovviamente” dato l’autore e il senso del presente lavoro, il rapporto di continuità tra Marx e Hegel. Una continuità su cui incidono alcune discontinuità, precisazioni, incomprensioni del rivoluzionario di Treviri rispetto al filosofo di Stoccarda. Il rapporto di Marx con Hegel è segnato soprattutto dalla lettura che di questo ne danno Bruno Bauer e Ludwig Feuerbach.

Di qui i fraintendimenti sull’idealismo di Hegel, e quindi sul rovesciamento della dialettica hegeliana operata dal materialismo marxiano. Secondo Fineschi una più compiuta comprensione del metodo hegeliano consente al Marx maturo del Capitale di superare la stringente dicotomia tra idealismo e materialismo, almeno nel rapporto tra i due autori. Proprio Il capitale è il luogo in cui si dispiega la filosofia di Marx, e il metodo di questa filosofia è la dialettica. Una verità conclamata, che si può verificare nella esplicita dichiarazione di Marx nel Poscritto alla seconda edizione del Capitale del gennaio 1873, di cui Fineschi utilizza soprattutto il terz’ultimo paragrafo, a discapito del penultimo, altrettanto importante. Come aveva dovuto riconoscere, arrendendosi, Colletti (e con lui anche Dal Pra), la dialettica marxiana non è confinata al rispecchiamento della realtà nella testa del filosofo, ma informa la realtà concreta nella sua contraddittoria processualità.

Ma Marx non è Hegel. Per Hegel, dice giustamente Fineschi, un uso politico della piena comprensione della realtà, quindi della teoria che la spiega (il sapere assoluto), è impossibile – giungendo questa comprensione solo alla fine di uno stadio storico. Per Marx, invece, la maturità dello sviluppo storico consente di coglierne le tendenze determinanti, e in base alla comprensione di queste agire nella storia con la razionalità derivante proprio da questo sapere. Ma mentre Fineschi sembra ammettere che la prassi apre soltanto uno spazio di possibilità per l’azione razionale, per Marx il superamento del capitalismo – la “negazione della negazione” – avviene «con l’ineluttabilità di un processo naturale» (si veda il cap. 24, par. 7 proprio del Capitale). La “necessità non teleologica” che informa Il capitale è allora un’aporia del Marx maturo?

Tutto questo non fa di Marx un “filosofo della prassi”, come rileva Fineschi attribuendo – anche qui giustamente – alla filosofia della prassi una derivazione gentiliana. Marx, va da sé, non è un “attualista”, anche se di questo attualismo è influenzato parte del pensiero marxista del primo Novecento, ad esempio Gramsci. Ma la verità – relativa e assoluta al tempo stesso – esiste a prescindere dalla coscienza dell’uomo. La prassi può, però, verificarla.


[da «Le Monde Diplomatique»/«il manifesto», 22 ottobre 2024]
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AlsOb
Sunday, 19 January 2025 18:33
Il lunatico aritmetico Gattei, ossessionato dall'illustre saggio massimo, con il quale intrattiene rapporti personali e che per contemplare un tasso di salario uguale a zero, offrirebbe uno spunto teoretico sia sulla tendenza metodologica del saggio di profitto, sia sulla sua tendenza storica, ha reclamato, verosimilmente a ragione, su una certa carenza di indagini sulla relazione e studi su Ricardo da parte di Marx.
Quando sovrabbonderebbero quelli riguardanti Marx e Hegel.
Hannah Arendt, che come Marx era laureata in teologia, con una tesi su Sant’Agostino, un santo nei confronti del quale Marx apparentemente non nutriva una grandissima simpatia, (la sua tesi fu su Epicuro), nonostante utilizzi varie categorie analitiche marxiane, mistifica completamente Marx, annoverandolo tra coloro che inseguono una idealistica rifondazione di un passato mitico.
Fineschi ha la sua fissazione, sorta di sofisticata e maliarda masturbazione intellettualistica, che vorrebbe inquadrare con impellenza Marx nelle categorie di Hegel.
Ciò però, al di la del soggettivo gusto e soddisfazione, rappresenta una parziale forzatura.
Marx, davanti al proliferare di situazioni di discredito nei confronti di Hegel, con cui implicitamente condivide una prospettiva teologica e di cui ammira la grandezza intellettuale e in particolare l’atteggiamento di narratore di fatti storici scevro di concessioni al moralismo e ai pettegolezzi delle mezzecalzette, dichiara risolutamente di esserne stato alunno e di avere maliziosamente scelto di adottarne vari termini e giochi linguistici.
Ancorché, la dialettica che egli usa, vada oltre la dimensione prettamente gnoseologica e epistemologica, (per la quale, per inciso, più che al passato si dovrebbe guardare al futuro e al fatto che resista relativamente bene alle recenti tematiche evolventi attorno al concetto di coscienza e al confronto tra fisicalisti e “neospiritualisti”), per investire dinamiche conflittuali concrete, e possa quindi presentarsi come indipendente da categorie hegeliane, (ma non ricardiane).
In aggiunta, altrettanto maliziosamente, Marx osserva che la dialettica di Hegel, fondata sull’Idea, cioè su Dio, che dialetticamente si riconcilia con il mondo creato e soprattutto ne da un senso definitivo, (“Non può non esserci un senso” ammoní), benché apparentemente trasfiguri e glorifichi le strutture di potere esistenti, lo stato delle cose in essere, scandalosamente, per la borghesia e suoi dottrinari professori, include un pesante elemento di disagio, rappresentato dal fatto che le forme storiche sociali sarebbero fluide e transienti.
Da ciò ne consegue che la classe dominante, specie per lo stadio a cui è giunto il capitalismo, deve ineluttabilmente, con i suoi dottrinari professori e sicofanti falsificare istituzionalmente l’istruzione e l’informazione e annichilire il punto di vista marxiano.
Marx, inevitabilmente, per storia intellettuale, formazione, convinzione e autosuggestione finisce per proporre una teologia della gloria, nella quale non è lo spirito dall’alto a intervenire e occupare le creature, ma, all’opposto, lo spirito può affermarsi solo nella misura in cui le creature lo recepiscono e innescano dinamiche di costruzione di forme sociali, (l’ontologia dell’essere sociale in divenire): ma il processo dialettico e conflittuale di progressive confugurazioni spirituali è meno lineare delle aspettative e autosuggestioni di Marx. E i suoi ardenti studi degli ultimi anni sulle dinamiche finanziarie e crisi, raccolti in infiniti appunti e annotazioni, probabilmente servivano anche, oltre a spiegare dinamiche interne del capitalismo, marciante verso sempre maggiore astrazione, a tentare di individuare e confermare i punti di frattura e salto di configurazione.
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