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Siamo dentro la “Tempesta perfetta”…

di Giuseppe Amata

Recensione al libro La Tempesta perfetta, Odradek, Roma 2016 – Campagna Noi Restiamo

latempesta perfettaIn tutti gli interventi si riscontrano interessanti analisi sui diversi aspetti della crisi nell’accertamento delle cause che l’hanno originata, pur se le diverse analisi esprimono ovviamente posizioni contraddittorie non soltanto tra esse, ma anche all’interno di ciascuna di esse. Nell’insieme però la lettura del libro è molto interessante, non solo per avere un’informazione vasta sui diversi aspetti della crisi e delle relazioni tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea, bensì perché stimola lo sviluppo di un profondo dibattito all’interno della sinistra di classe. E infatti ho letto su Contropiano on-line diversi interventi di recensione. Con questo spirito mi accingo a svolgere le considerazioni che seguono.

Voglio, però, subito evidenziare che dalla lettura del libro si riscontra, a mio modesto avviso, per il movimento di classe la necessità di costruire una teoria economica per l’attuale fase dello sviluppo capitalistico o se si vuol dire meglio per la fase dell’imperialismo nel XXI secolo. Sia perché, in qualche intervento, le categorie economiche marxiane non sono correttamente approfondite alla luce della nostra fase storica, che è diversa da quella in cui visse Marx, sia perché alcune di esse si giudicano superate, come ad esempio la caduta tendenziale del saggio del profitto. Sia infine perché, nella contraddizione generale evidenziata da Marx per la trasformazione di una formazione sociale, contraddizione come è noto rappresentata dal contrasto tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione, si trascura una questione che nella nostra epoca è diventata dominante, vale a dire la questione ambientale o per essere più precisi l’utilizzo delle risorse naturali come categoria molto ampia rispetto a quella ristretta di risorse della terra (cioè le materie prime del suolo e del sottosuolo), con la conseguente produzione di entropia, già avvertita e accennata da Marx nel Capitale a proposito del rapporto capitalistico in agricoltura, ma soprattutto affrontata scientificamente da Engels nella Dialettica della natura.

Con molta sincerità Gattei afferma di aver studiato bene solo il primo libro del Capitale, dove è analizzato il processo di trasformazione del Denaro in Merce finita (D – M’) e non il secondo libro che tratta della trasformazione della Merce finita in Denaro finale attraverso la vendita, ossia M’ – D’. Mi permetto di aggiungere che per capire in pieno il pensiero di Marx va studiato bene anche il libro terzo, libro che tratta sia della trasformazione del plusvalore in profitto industriale, profitto commerciale, rendita, interesse, imposte allo Stato e stipendi per i lavoratori improduttivi che non producono pluslavoro, sia della caduta tendenziale del saggio del profitto. In particolare senza lo studio del terzo libro non si possono comprendere gli attuali processi di finanziarizzazione dell’economia ottenuti dall’intreccio sempre più stretto, ad opera delle multinazionali, tra capitale finanziario e capitale industriale e non si può discernere sulla caduta tendenziale del saggio del profitto. Così come senza lo studio di Imperialismo fase suprema del capitalismo non si possono capire e analizzare per i dovuti approfondimenti questi processi nella fase storica attuale.

A mio avviso questa caduta va spiegata, come ho scritto nel libro Il capitalismo e le crisi (ediz. Aracne 2013) più dettagliatamente di quanto sto per dire, con la funzione dirigente che nella distribuzione del plusvalore esercita l’interesse o per meglio dire la rendita finanziaria. Siccome l’aumento di questa rendita avviene a scapito di quello che in astratto si definisce profitto industriale (solo in astratto, perché nel concreto per le multinazionali è il totale quello che conta, indipendentemente se si chiama profitto o rendita; non così, però, per le piccole e medie imprese non legate alle filiere della proprietà multinazionale, le quali sono costrette a pagare gli interessi bancari per l’acquisizione del capitale di dotazione e di funzionamento e quando sono in difficoltà non ricevono alcun prestito e quindi falliscono).

Da quanto detto finora ne discende che la contraddizione generale tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione racchiude non solo la contraddizione capitale-lavoro, ma anche quella tra imperialismo e popoli oppressi, tra imperialismo e paesi che hanno avviato il processo di trasformazione verso un nuovo modo di produzione e una nuova formazione sociale dotata non solo di una diversa struttura economica bensì di una diversa sovrastruttura rispetto alla formazione sociale capitalistica (genericamente questi paesi sono definiti socialisti, ma il discorso è d’approfondire sul significato di una formazione sociale socialista); infine tra gli stessi paesi imperialistici e capitalistici per l’appropriazione dei mercati dei capitali, delle materie prime e dei prodotti finiti. Quest’ultima contraddizione sopita nell’immediato secondo dopoguerra in seguito all’egemonia americana ha ripreso vigore alla fine degli anni Sessanta del Novecento con le difficoltà incontrate dagli Stati Uniti nell’aggressione al Vietnam, con la politica gollista e soprattutto come afferma Vasapollo con la rottura degli accordi di Bretton Woods nel 1971.

Per entrare nello specifico delle posizioni motivate dai diversi Autori nel libro desidero mettere in rilievo gli argomenti trattati che mi lasciano critico o perplesso, pur condividendo molte cose dette con bella intuizione e argomentazione. Già prima delle interviste, nella nota editoriale si riconosce l’importanza dello sviluppo della teoria economica non ai fini dell’erudizione di un pugno di esperti (che tra l’altro nell’attuale fase storica sono sempre di meno rispetto agli anni Sessanta del Novecento, come ben ricordano i militanti della mia generazione), ma soprattutto per aiutare a formare giovani militanti che siano combattivi nella lotta di classe e studiosi della teoria economica. Essere rossi e esperti come diceva Mao vale anche per l’attuale e le future fasi della civilizzazione umana. Quindi, non solo bisogna capire, ad esempio, perché i titoli finanziari che corrono nel mondo alla velocità della luce hanno raggiunto la cifra astronomica di 600.000 miliardi di dollari pari a 10-11 volte il PIL mondiale, ma anche fare un’attenta analisi di classe della realtà economica mondiale per definire, per dirla sempre con Mao, chi sono i nostri amici e chi i nostri nemici. Al riguardo non condivido quanto si dice nell’Introduzione sull’affossamento delle economie dei Brics ad opera del rallentamento dell’economia cinese, posizione questa enunciata a gran voce dalla grande stampa finanziaria mondiale. I fatti accaduti nel 2015 e 2016 attestano che l’economia cinese dopo qualche assestamento e riorganizzazione strutturale si sta rilanciando a livello internazionale, sostenendo con particolari contributi progetti di sviluppo in tanti paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina. Così come non condivido e concordo con Luciano Vasapollo la classificazione degli economisti in ortodossi e eterodossi. I primi sarebbero i seguaci del mainstream neoclassico, i secondi tutti gli altri. E’ chiaro che vi sono diverse dottrine e scuole economiche e una di queste, quella marxista, nella quale mi sono sempre collocato, ha storicamente polemizzato contro lo stravolgimento della scuola classica (di Smith e Ricardo per intenderci), da parte di Walras padre e figlio, di Jevons e degli altri che hanno occupato per i favoritismi del potere economico e politico le cattedre universitarie, appioppandosi l’etichetta di scuola neoclassica, quando in realtà, come è stato ben detto dai nostri predecessori, loro rappresentano la scuola dell’utilità marginale e non hanno nulla a che vedere con le categorie dell’economia classica. Sarebbe, pertanto, più corretto chiamarli marginalisti e non neoclassici. Ritengo altresì che occorre essere molto chiari sul significato di crisi di sovrapproduzione e crisi di sottoconsumo e molti Autori pur definendo correttamente l’attuale crisi come crisi di sovrapproduzione e rigettando l’interpretazione della crisi di sottoconsumo, fanno rientrare quest’ultima dalla finestra dopo averla cacciata dalla porta. Perché quando si dice che l’attuale è una crisi di sovrapproduzione dovuta alla carenza di domanda, non si fa comprendere al lettore che la carenza di domanda è un effetto della crisi, in quanto per i capitalisti (oligopolisti o monopolisti) i salari sono una variabile dipendente da comprimere per vendere merci competitive per vincere la concorrenza dei capitalisti più deboli e aumentare i profitti per la riproduzione allargata. I maggiori profitti realizzati determinano in seguito una maggiore concentrazione e centralizzazione di capitali, indipendentemente se un complesso industriale vede una riduzione di forza-lavoro. Metto in evidenza questo aspetto del problema perché nell’intervista di Giovanna Vertova traspare l’equivoco su concentrazione capitalistica e decentramento produttivo. La concentrazione dei capitali in senso marxiano significa conquista di fette più larghe di mercato da parte di una o più aziende, mentre centralizzazione dei capitali significa fusione o incorporazione (da parte dell’azienda o oligopolio più forte) di aziende che producono nello stesso ramo di produzione (centralizzazione orizzontale) oppure in segmenti diversi per la realizzazione di una data merce (centralizzazione verticale). Inoltre, per quanto riguarda, in particolare, l’analisi di Joseph Halevi si scambiano gli effetti che sono scaturiti dal tentativo di superare precedenti crisi, come la de-localizzazione (iniziata con la crisi di sistema degli anni Settanta) e come la creazione di liquidità da parte della Federal Reserve e l’espansione del credito (per superare la breve crisi finanziaria degli inizi del XXI secolo che ha interessato in particolare Giappone e Stati Uniti, dopo le spaventose crisi finanziarie di fine Novecento che hanno portato al collasso o ridimensionato le economie di Messico, Tigri asiatiche, Russia e Argentina), con le vere cause che stanno proprio anche nella caduta tendenziale del saggio del profitto (vedi a pag. 19). Oppure a pag. 21, nel paradigma che la Cina è un paese capitalistico, si legge che essa è interessata a uno sfruttamento selvaggio delle risorse naturali e si conclude che il punto di rottura avverrà in essa, considerata una maglia debole del capitale transnazionale nippo-americano. Paradigma ed effetti mi sembrano insostenibili.

Quando si è sicuri delle proprie idee e si forma una scuola di pensiero basata su una solida teoria non c’è paura di confrontarsi con i rappresentanti delle altre scuole in qualsiasi dibattito (in convegni, sulle riviste, sulla stampa e in televisione), non certo per modificare la posizione degli altri quanto per diffondere le corrette analisi e conquistare gli studenti e in generale le masse alla corretta interpretazione dei fenomeni economici. In realtà, a differenza di quanto dicono alcuni studiosi sulla loro non partecipazione a questi dibattiti, gli studiosi marxisti non sono mai invitati a partecipare a un dibattito sulla stampa di grande diffusione o in televisione, proprio perché i mass media devono divulgare solo il pensiero unico, anche se sfaccettato in diverse posizioni di analisi economica e di proposte di politica economica. Fermo restando che è giusta la posizione di chi sostiene che non è interessato a essere un consigliere del principe e che non deve presentare alcuna proposta per riformare il capitalismo.

Perché il capitalismo non trova la soluzione all’attuale crisi? E’ questa una domanda che ci dobbiamo porre. Vasapollo dà la risposta dicendo che “oggi la cosiddetta economia informatica, telematica, ecc. non mette a vantaggio in termini di profitto un nuovo modello. Questo significa che la crisi è sistemica perché è di sovraccumulazione”. A questa considerazione ne aggiungo altre sostenute agli inizi dell’attuale crisi e che ritengo ancora valide, soprattutto dopo l’esito delle elezioni americane con la vittoria di Trump e del suo sbandierato ritorno al protezionismo. In un articolo pubblicato da Contropiano on-line nel dicembre 2008 affermavo: “avanti, il capitalismo mondiale a guida Usa, spingendo il processo della globalizzazione, non può andare; indietro, in direzione del protezionismo, non può tornare; in questa situazione esso combatte disperatamente non solo contro le forze antagonistiche che lo vogliono rovesciare ma anche contro se stesso; se vince ci sarà un cambio di leadership al posto degli Usa; se perde si avvierà nei fatti una fase di transizione verso una nuova formazione sociale”. E in un altro articolo pubblicato su Contropiano on.line il 28 agosto del 2010 la crisi l’ho definita infinita perché “crisi economica e crisi ambientale ormai s’intrecciano sempre di più. Se si aggrava l’una si aggrava l’altra. Non si può risolvere l’una senza risolvere l’altra; questa è la differenza tra la crisi attuale e le precedenti”.

Dal punto di vista degli interessi di classe che cosa possiamo fare? Condivido quanto afferma Vasapollo sull’Unione Europea. Le posizioni di Vasapollo esprimono la posizione della Rete dei Comunisti. Anche il Partito comunista italiano manifesta analoghe posizioni sull’Unione Europea. Si stanno determinando le condizioni dopo la Brexit, la vittoria del No, e la vittoria di Trump che accentuerà le contraddizioni tra l’imperialismo americano e quello europeo, per lanciare una grande mobilitazione di massa, ideologica, politica ed organizzativa per disgregare l’Unione Europea e il polo imperialistico che rappresenta, convincendo quei militanti nella sinistra che si sono illusi sull’Europa dei popoli e che hanno accettato senza riflessione il mito della democrazia in Europa e dell’Europa come culla della civiltà. E per convincere anche quegli studiosi come R. Bellofiore che credono in un “progetto nostro su scala europea” e che sollecitano “la sinistra a ragionare non sulla scala nazionale, non sul ritorno alla sovranità nazionale, ma si ponga all’altezza della sfida lanciata da Draghi e anche dalla Merkel”. E’ questo un discorso vecchio, perdente a mio avviso, che faceva una parte della sinistra socialista in contrapposizione a Nenni, quando alla fine degli anni Cinquanta traghettò il PSI dall’astensione in Parlamento verso la costituzione del MEC (nel 1957) all’adesione (negli anni successivi), allacciando i rapporti con i socialdemocratici europei e spezzando ogni legame con i partiti comunisti dell’est e dell’ovest. Che questa posizione è risultata perdente è attestato dalla storia degli ultimi sessant’anni con l’involuzione dei singoli Stati aderenti alla Comunità economica europea prima e all’Unione Europea dopo e dei partiti socialdemocratici e purtroppo anche degli euro-comunisti di questi Stati. Non solo, ma le misure anticrisi dell’Unione Europea sia in questa crisi sia in quella degli anni Settanta (allora c’era la CEE) sono state al servizio dell’ala più reazionaria del capitale finanziario, quella per intenderci che nel passato ha sostenuto il fascismo in Europa e che ha riportato la storia all’indietro distruggendo gli spazi democratici e le libertà conquistate con la lotta antifascista, libertà sancite nelle Costituzioni, in particolare nella nostra e in quella francese. La vittoria del No è una base di partenza per riorganizzare e rilanciare la lotta di classe.

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