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L’esproprio dei beni comuni tra governance e monetizzazione

di Riccardo Petrella

Proponiamo un estratto da "La società dei beni comuni" edito da Carta/Ediesse, in edicola fino al 13 novembre e acquistabile anche on line qui. Il libro raccoglie diciannove saggi che da diverse visuali disciplinari (storiche, giuridiche, filosofiche, antropologiche, ambientaliste) si confrontano con il tema dei beni comuni.

Mi propongo di concentrare questo contributo su due «questioni di frontiera» che, a mio parere, sono (o dovrebbero essere) al centro del dibattito teorico e politico sui beni comuni nei paesi occidentali. Penso alla tendenza impostasi negli ultimi quindici anni consistente nel parlare di governance anziché di «governo» dei beni comuni. Penso altresì all’adozione quasi generale da parte dei dirigenti occidentali del principio di monetizzazione dei beni comuni al posto del principio di gratuità.


«Governance» vs. governo

L’uso del concetto di governance risale alla seconda metà degli anni ’70 allorché l’economia occidentale si trovava alle prese con la rincollatura dei cocci del sistema finanziario andato in frantumi nel periodo 1971-73.

Il sistema nato nel 1945 essendo ridotto a macerie (fine della convertibilità del dollaro in oro e dei tassi di cambio fissi, fine dei controlli sui movimenti di capitale, esplosione del mercato delle divise, liberalizzazione dei mercati, deregolamentazione e privatizzazione del settore...), gli operatori finanziari, in primis gli istituti di credito e le società di notazione (rating), si confrontavano col problema di determinare i nuovi criteri quantificabili sulla base dei quali valutare le opportunità d’investimento, e soprattutto le operazioni di vendita/acquisto di pacchetti azionari (le famose OPA, fusioni di imprese, prese di partecipazione...). In effetti, la crisi finanziaria provocò dei grossi processi di ristrutturazione delle banche e delle assicurazioni a livello locale, nazionale ed internazionale.

La soluzione, per i gruppi dominanti, fu trovata nel principio «to increase the shareholder’s value». Un’operazione finanziaria era giudicata buona in funzione del suo contributo alla ottimizzazione della crescita di ricchezza per gli azionisti. Si cominciò quindi a sostenere che i processi di ristrutturazione e di sviluppo del nuovo sistema finanziario procedevano in un buon contesto di governance ai vari livelli settoriali e territoriali, nella misura in cui il risultato globale era l’ottimizzazione del valore del capitale azionario. Non per nulla, successivamente, negli anni ’90, si cominciò a misurare l’importanza delle imprese e a stabilirne la graduatoria mondiale in funzione della loro capitalizzazione e non più del numero di occupati e/o del fatturato.

Dalla valutazione delle operazioni finanziarie, il criterio in esame fu rapidamente applicato alla valutazione della gestione generale di qualsiasi impresa (e non solo di quelle quotate in Borsa) e poi esteso alla gestione di un settore industriale od economico, servizi pubblici compresi. Così, verso la fine degli anni ’80, il principio «to increase the shareholder’s value» fu utilizzato, in concomitanza con il principio di competitività, per valutare ogni scelta economica, ivi comprese le scelte economiche e sociali di un governo, per finire nel corso degli anni ’90 col valutare l’intera società (onde la valenza generale del concetto di governance acquisita negli ultimi anni).

A partire dal momento in cui i dirigenti hanno deciso che il valore di una cosa, di un’impresa, di una strategia di sviluppo, dipende dal suo contributo alla creazione di valore per il capitale e per i suoi detentori, è logico che essi siano passati da un uso del principio limitato alla gestione di operazioni finanziarie a quello applicato alla gestione di un’impresa, poi alla gestione dell’economia in generale.

Il che spiega anche la relativa facilità con la quale gli stessi responsabili politici, considerati tradizionalmente rappresentare le correnti di sinistra e progressiste, hanno aderito alla liberalizzazione delle istituzioni e dei servizi finanziari (inclusa la gestione dei fondi pensione e fondi malattia) e poi dell’insieme dei servizi pubblici detti locali, di prossimità, così come alla loro deregolamentazione e privatizzazione.

Questi passaggi sono stati resi possibili proprio per l’egemonia ideologica e culturale assunta dal concetto di governance nella teoria (e nella pratica) dello Stato e della società, come testimonia, già negli anni ’94-95, la comunicazione della Commissione europea, allora presieduta dal socialdemocratico/socialista francese Jacques Delors, sul tema della governance, nella quale la Commissione si schierava a favore dell’adozione del principio di governance.

Fra le ragioni invocate, v’erano due postulati intrinsecamente mistificatori. Da un lato, quello della complessificazione crescente delle società che, nell’avviso della Commissione, implicava l’abbandono dello Stato e della statualità quale luogo naturale e principale dei processi politici ed il loro allargamento a tutti i possibili «centri» di decisione politica definiti gli stakeholders, cioè i portatori d’interesse. Dall’altro lato, il postulato della mondializzazione che, secondo i suoi sostenitori, implicava per la democrazia lo spostamento della decisione politica dagli stati nazionali alla governance vuoi internazionale vuoi mondiale1.

Fondandosi sui due postulati, la governance è stata definita come il nuovo sistema di organizzazione delle decisioni politiche a livello nazionale, internazionale e mondiale basata sull’incontro/dialogo/discussione tra tutti i portatori d’interesse rappresentativi delle varie componenti della società quali gli Stati, le imprese, i sindacati, i cittadini, le collettività locali, le «chiese»... Secondo questa visione, la decisione politica è e deve essere il risultato di accordi e di partenariato tra i vari stakeholders in un contesto di libertà, di cooperazione/competizione, di autoregolazione e di responsabilità «sociale» autoassunta.

Il motore del nuovo sistema di organizzazione politica sta nell’ottimizzazione dell’utilità particolare di ogni stakeholder in termini monetari/finanziari in funzione dell’equazione costi/benefici ai prezzi di mercato. Un’equazione non fissata in maniera generale e per tutti, ma flessibile, variabile a seconda dei luoghi, degli stakeholders in azione, dei tempi, dei settori. La governance non è orientata da un interesse generale, da una utilità collettiva, in funzione dei principi di giustizia, uguaglianza e solidarietà e della concretizzazione dei diritti umani e sociali. Il valore di un bene risulta dalle equazioni provvisorie e parziali che consentono di ottimizzare le utilità degli stakeholders.

In questo contesto, non v’è più spazio né funzione per i beni comuni pubblici. In breve, il governo dell’impresa è stato assunto a modello da seguire per il governo dello Stato e della comunità mondiale.

Il risultato finale di questi spostamenti «tettonici» di natura teorica, ideologica, politica e sociale è stato molto dirompente: – destatalizzazione del potere politico e della politica (lo Stato è ridotto ad uno fra i vari portatori d’interesse, il che fa saltare qualsiasi legittimità generale alla rappresentanza politica espressa dai parlamenti. Questi ultimi non hanno più granché da dire; – privatizzazione del potere politico e sua contrattualizzazione «commerciale» tra soggetti portatori d’interessi particolari; – la responsabilità scade a livello dell’autoregolazione e dell’autocontrollo per cui, per esempio, il politico inter-nazionale non è altro che un processo di negoziato permanente tra soggetti autoregolanti e autocertificanti: vedi il caso macroscopico e ridicolo della famosa «responsabilità sociale delle imprese» e della loro «responsabilità ambientale» o, per quanto riguarda gli Stati, della limitazione spontanea delle emissioni di CO2 o della riduzione, altrettanto spontanea, degli armamenti.

La governance dell’educazione, la governance dei beni naturali, la governance del sistema della salute... sono una pirateria strutturale, un esproprio legalizzato dei beni comuni, della giustizia e della democrazia. È necessario ed urgente che coloro che difendono i beni comuni si battano per l’abbandono dell’uso del concetto di governance. Non farlo, in maniera chiara e determinata, significa diventare complici dei processi recenti di mercificazione dei beni comuni e della loro privatizzazione.


Gratuità vs. monetizzazione

Quanto sopra è stato possibile perché si è imposto di pari passo, in una relazione di reciproco posizionamento di causa-effetto, nell’ambito del crescente predominio della visione capitalista liberale della società e del mondo, il principio cosiddetto della «verità del prezzo» (di mercato).

Fino a non molto tempo fa, il valore dei beni «naturali» indisponibili al mercato (le foreste primarie, la pioggia, le spiagge del mare...) facenti parte intrinsecamente dei beni demaniali dello Stato (o dei Comuni, delle Province), così come i servizi non-mercantili (quali l’educazione, la protezione civile, la salute, la difesa militare, le fognature, i musei...) era un valore di utilità sociale ed umana collettiva, per tutti.

I costi sostenuti dalla collettività per la loro preservazione, produzione, manutenzione ed uso erano presi in carico dalla stessa collettività attraverso la spesa pubblica, finanziata dalla fiscalità generale e specifica. In alcuni casi, la collettività chiedeva ai singoli cittadini o a gruppi di cittadini il versamento di un contributo alla copertura dei costi chiamato tariffa, canone, «biglietto» (tariffa dei francobolli, biglietto dell’autobus o dei treni, canone per il raccordo alla rete elettrica, al gas urbano, alla radio...). Il contributo non aveva la finalità di coprire i costi. Questi restavano principalmente assicurati dalle finanze pubbliche.

Il principio di gratuità dei beni comuni non significa assenza di costi («nessuno paga»!). Significa invece che i costi, molte volte particolarmente elevati (caso della difesa militare) sono presi in carico dalla collettività. La grande conquista sociale rappresentata dall’introduzione nei paesi europei della fiscalità generale redistributiva e progressiva sta proprio nel principio della gratuità dell’accesso e dell’uso dei beni essenziali ed insostituibili per la vita grazie alla copertura comune dei loro costi secondo di principi di giustizia, solidarietà e responsabilità.

Il principio di gratuità, in effetti, è strettamente legato a quelli di responsabilità e di partecipazione (fino ad alcuni anni fa sotto forma indiretta, quella della rappresentazione democratica, via le elezioni dei «deputati» a suffragio universale diretto). È questo principio che ha fatto della Danimarca (ed anche della Norvegia e della Svezia) la «buona società» occidentale del XX secolo, modello per tutte le altre. Il sistema fiscale in Danimarca, piuttosto unico ed originale, fu addirittura dissociato dal sistema del lavoro retribuito.

Il diritto alla vita decente e sociale era garantito a tutti, occupato o no. Da alcuni anni, la Danimarca non è più la società che è stata. Quel che ha reso e rende tuttora il principio di gratuità inaccettabile ai detentori di capitale (ai gruppi dominanti sul piano economico e sociale) è, per l’appunto, il fatto che essi debbano condividere una parte della loro ricchezza «prodotta» per «pagare – gridano – l’accesso all’acqua, alla salute, all’educazione... degli altri, di quelli che non vogliono lavorare, degli immigrati, degli illegali... ecc. ecc.».

Il rigetto della copertura dei costi attraverso la fiscalità e le tariffe pubbliche nel caso dei servizi idrici, dell’accesso alla salute, dei trasporti collettivi... mentre, invece, si accetta il ricorso alla fiscalità per la copertura della difesa militare, si spiega assai facilmente. Mentre la difesa militare si traduce in produzione di beni e servizi che generano fonti importanti di reddito per i detentori di capitali (l’industria militare rende ricchi i privati nazionali ed internazionali), ciò non accade per la produzione di beni e servizi, per esempio, nel campo dell’educazione. Un insegnante elementare, o del secondario, è vissuto – per il capitale privato che paga le tasse – come un costo in assoluto. L’«industria scolastica» non rende ricchi i privati.

Per questo l’economia capitalista parla dell’insegnamento elementare e secondario come di attività lavorative non produttive (il discorso è cambiato recentemente per quanto riguarda le università private specializzate e, più in generale, l’economia della conoscenza ad alto valore aggiunto). Lo stesso vale per la categoria dei burocrati pubblici (a differenza dei burocrati privati che «rendono» finanziariamente). I discorsi e dibattiti sul «costo dei politici» o i «costi della politica» (cui hanno aderito attivamente anche i rappresentanti della sinistra e delle forze dette progressiste) è sintomatico, corrisponde in pieno all’ideologia della governance. Discreditare la funzione del politico ed il ruolo della politica pubblica ha funzionato in maniera efficace in questi ultimi trent’anni.

La monetizzazione dei servizi un tempo pubblici in funzione dell’obiettivo della «verità dei prezzi» si fonda sull’applicazione mistificatrice della teoria dei costi. Il caso della monetizzazione dell’acqua e dei servizi idrici costituisce un esempio illuminante di una serie di mistificazioni legate alla teoria dei costi. L’acqua dei fiumi, delle falde, della pioggia, dicono i dominanti, è un bene comune e resta un bene comune, ma per garantire l’accesso all’acqua potabile c’è bisogno di tubi, di serbatoi, di stazioni di potabilizzazione, di laboratori di controllo della qualità, cioè ci sono dei costi.

A chi spetta coprire i costi? I dominanti affermmano: al consumatore, a colui che ricava un’utilità particolare e personale dal consumo dell’acqua potabile in funzione dei suoi bisogni. Il consumatore, quindi, deve pagare un «prezzo dell’acqua» tale da consentire di recuperare tutti i costi di produzione, compresi i costi d’investimento a lungo termine, più un livello di profitto sufficiente per la remunerazione del «rischio» assunto dal capitale investito.

Si tratta dell’applicazione del «full cost recovery principle», un principio chiave dell’economia capitalista di mercato, fatto suo anche dall’Unione Europea con la Direttiva quadro sull’acqua del 2000. È uno dei principi teorici alla base della governance. Visto che il servizio idrico integrato è «naturalmente» e dappertutto gestito in situazione di monopolio e che, inoltre, ci sarà sempre la necessità vitale di utilizzo dell’acqua potabile, parlare di «rischio capitalista» in questo campo è pura mistificazione.

Inoltre, i dominanti difendono la monetizzazione dei servizi idrici sostenendo che il prezzo di mercato è necessario per garantire l’autonomia finanziaria degli operatori del settore e sganciarli così dal finanziamento pubblico riducendo la spesa pubblica e quindi la pressione fiscale sul capitale privato, il che rappresenterebbe, secondo loro, un buon indicatore di una governance riuscita. Anche qui, la mistificazione è particolarmente grave. Non solo si estrae l’accesso ad un bene/servizio essenziale per la vita (in questo caso, l’acqua) dal campo dei diritti, ma si afferma che i diritti umani e sociali hanno un prezzo di mercato e che essi si vendono e si comprano! La mercificazione della vita non poteva essere più esplicita.

Inoltre, ci si fa burla del cittadino. Non solo lo sganciamento del servizio idrico dal finanziamento pubblico alleggerisce la responsabilità del contribuente ricco, ma addirittura lo scarico sul consumatore del finanziamento stesso si traduce nell’affidare al cittadino ridotto a consumatore il compito di finanziare la creazione di ricchezza per i detentori privati di capitale. Il che è assurdo, oltreché ridicolo: per avere accesso ad un bene/servizio che non sceglie, perché ne ha la necessità vitale, e che ad ogni modo la società/la comunità deve garantire, il «cittadino» di oggi deve contribuire all’aumento della ricchezza del capitale privato.

Infine, i dominanti sostengono che quel che il consumatore paga versando il prezzo dell’acqua non è l’acqua ma i servizi resi. Quindi, non vi sarebbe alcuna privatizzazione e mercificazione dell’acqua. Tutt’al più, dicono, v’è mercificazione e privatizzazione dei servizi idrici. Se ciò fosse vero, il che non è, perché HERA pagherebbe per l’acquisto dell’acqua da Romagna Acque che gliela vende al prezzo dell’acqua grezza? E di cosa si deve parlare se non di mercificazione e di privatizzazione dell’acqua allorché l’Acquedotto pugliese compra l’acqua da Lucania Acque e da Campania Acque pagando dei prezzi dell’acqua grezza differenti a seconda della regione di vendita?

Il caso della monetizzazione dell’aria e delle foreste rappresenta altre varietà di mistificazione. I gruppi dominanti hanno accettato nel 1992 che si parlasse di un «protocollo di lotta contro il cambio climatico» a condizione che i costi connessi alla riduzione delle emissioni dei gas ad effetto serra (GES) fossero coperti attraverso i meccanismi di mercato, in funzione della quantità consumata da ciascun paese, da ciascun settore e da ciascuna impresa rispetto alla quantità massima autorizzata. Così è nato il Protocollo di Kyoto (1997) basato sul «mercato delle emissioni»: c’è chi compra la quantità di GES di cui ha «bisogno» e che supera quella autorizzata e chi vende la quantità di GES non emessa inferiore a quella autorizzata.

Il «mercato dell’aria» è nato. I suoi fautori continuano a difenderlo solo per interesse ideologico ed economico (tutto deve essere mercato) anche se oramai è evidente che il meccanismo del prezzo delle emissioni produce effetti perversi che non gli hanno permesso di contribuire alla soluzione del problema. Come il prezzo mondiale del petrolio non ha risolto alcun problema energetico ed economico – il contrario è vero –, così il prezzo mondiale della tonnellata di CO2 non permetterà di risolvere il problema della lotta al riscaldamento dell’atmosfera terrestre. Pretenderlo è mistificazione da menzogna.

Lo stesso vale per la decisione presa nel 2002 a Johannesburg di monetizzare le foreste primarie. Queste non saranno salvate dalla traduzione in dollari o in euro o in yuan del loro valore, misurato in questo caso in termini del loro contributo alla riduzione dei costi connessi alla lotta contro le emissioni di GES. A parte il fatto che le foreste primarie hanno un valore perché esistono e fanno parte del ciclo integrale della vita sul pianeta, non sarà per il fatto che le azioni dei loro proprietari figureranno istantaneamente sui principali indici borsistici mondiali che esse saranno valorizzate, protette e conservate nell’interesse della vita del pianeta.

Ha forse il prezzo borsistico del grano, del frumento, del riso contribuito ad un migliore governo di questi beni essenziali all’alimentazione della popolazione mondiale? Certamente no. Così dicasi dei medicinali non generici prodotti a partire dall’appropriazione privata da parte delle grandi compagnie chimiche e farmaceutiche multinazionali del capitale biotico esistente nelle foreste primarie. Nel caso del trattamento contro l’AIDS, la monetizzazione del capitale biotico ha soprattutto agevolato un prezzo elevatissimo della triterapia impedendo così a milioni di esseri umani affetti dall’AIDS di essere curati.

La «verità del prezzo» di mercato applicata ai beni comuni pubblici è semplicemente un furto. È tempo, quindi, di abbandonare la monetizzazione dei beni comuni pubblici e di reinventare sistemi basati sul principio di gratuità partendo da forme organizzate a livello locale (da qui l’importanza dell’economia di prossimità, dei circuiti corti) fino al livello mondiale (attraverso forme di transnazionalità e di transterritorialità che restano da immaginare, definire ed implementare). Di nuovo, il principio di partecipazione dei cittadini e quello di responsabilità collettiva condivisa assumono un ruolo centrale determinante.

1. Vedasi la maturazione di queste concezioni in "La governance europea. Un libro bianco", Commissione europea, Bruxelles, pubblicato nel 2001 sotto la presidenza di Romano Prodi.

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