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Pluriverso. Dizionario del post-sviluppo

Un’anteprima

PLURIVERSO COVER 001 1200x1051A brevissimo sarà in libreria per i tipi di Orthotes Editrice Pluriverso. Dizionario del post-sviluppo, uscito nel 2019 e curato nella versione originale da Ashish Kothari, Ariel Salleh, Arturo Escobar, Federico Demaria e Alberto Acosta. Il suo “arrivo” in Italia, curato da Maura Benegiamo, Alice Dal Gobbo, Emanuele Leonardi e Salvo Torre, è frutto di un processo di traduzione militante, uno sforzo collettivo, a cui tante e tanti hanno partecipato – esempio di un “fare sapere” realmente cooperativo e partecipato.

Pluriverso è una raccolta di definizioni, di saggi brevi e analisi critiche sui processi che affondano le radici nella modernità, nel capitalismo, nel dominio di Stato e nelle pratiche maschiliste, a partire dalla globalizzazione neoliberale. Vi si mettono a critica le soluzioni di mercato (dal greenwashing agli approcci riformisti) e vi si descrivono iniziative di trasformazione radicale. Utile allo studio e alle iniziative di lotta per un mondo plurale, ricorda che in esse trova espressione la consapevolezza che un mondo ecologicamente saggio e socialmente giusto non solo sia possibile e necessario, ma per certi versi già esista.

Condividiamo oggi la Prefazione all’edizione italiana, di chi l’ha curata. Inoltre, due anteprime dal testo che ne dimostrano sia l’ampiezza di approcci che il legame con un dibattito vivo e condiviso anche dal nostro box di Ecologia Politica negli ultimi anni: Produzione Neghentropica di Enrique Leff e Il Salario al lavoro domestico di Silvia Federici.

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Prefazione all’edizione italiana

di Maura Benegiamo, Alice Dal Gobbo, Emanuele Leonardi, Salvo Torre

Il tempo di Pluriverso

L’idea di un universo plurale di alternative al capitalismo è qualcosa di relativamente recente, la cui presenza resta ancora marginale nel dibattito politico, nonostante sia il risultato naturale dell’affermazione dei recenti movimenti antisistemici, delle lotte per il superamento dell’eredità coloniale e del patriarcato, della rielaborazione del pensiero marxista, di quello socialista e di quello libertario. Negli ultimi decenni, in particolare, la critica allo sviluppo si è rivelata l’ambito principale in cui si è potuto pensare un’alternativa ai grandi progetti sociali della modernità, incluse le grandi esperienze di gestione collettivista dell’economia. Ciò ha comportato anche una diversa lettura della storia più recente e il ripensamento delle principali utopie sulle società liberate. In questo quadro l’irruzione delle visioni non-coloniali nella costruzione delle alternative sociali ha giocato un ruolo centrale, sebbene essa non abbia ancora pienamente dimostrato tutta la sua capacità di trasformare le categorie rivoluzionarie e la visione del nostro futuro. La critica decoloniale si è imposta soprattutto come lotta per il superamento dell’idea di un progetto civilizzatore portato avanti dall’Occidente. Decolonizzare le categorie significa tuttavia anche poter definire i processi di mutamento in modo differente, situando l’analisi al di fuori del determinismo storico della civiltà occidentale, al di là delle gerarchie che l’hanno sostenuta e che ancora sostengono l’architettura della società globale.

Le diverse iniziative tese a pensare, progettare e sperimentare l’idea di una società plurale e realizzabile in cui possano coesistere principi differenti di costruzione della realtà fanno parte di tale processo. Queste esperienze si sono affermate in un momento storico marcato da grandi trasformazioni che coinvolgono a un livello profondo tutte le forme di vita del pianeta e che porteranno in ogni caso a una grande metamorfosi della società globale. Il progetto di Pluriverso nasce quindi in un momento cruciale della storia del capitalismo, ma anche dei suoi movimenti di opposizione. Rispetto a ciò, la sua traduzione italiana esce tuttavia in una fase molto distinta rispetto a quella della prima edizione del testo, nonostante sia passato solo un anno. Il pianeta affronta una crisi sanitaria globale, ennesima dimostrazione tangibile della contraddizione ecologica in cui si muove lo sviluppo capitalistico; al contempo accelera il processo di crisi economica intorno a cui ruoterà la politica globale nei prossimi anni. La differenza però non coinvolge solo la particolare condizione in cui versa il capitalismo globale, ma è anche definita dalle novità interne al pensiero critico. Nel 2013, anno di inizio del progetto editoriale originale, i conflitti ambientali, nonostante indicassero già per numero e intensità una novità politica di grande rilievo diffusa in tutto il pianeta, erano ancora considerati un fenomeno marginale dalla maggior parte del dibattito accademico e politico. Dal canto suo, Pluriverso nasceva anche dall’idea che queste esperienze si stessero orientando verso la costruzione di spazi di confronto, raccogliendosi intorno a campagne politiche o rivendicazioni comuni. Da allora la comprensione dell’importanza dei movimenti socio-ecologici è cresciuta, rafforzata anche dall’affermazione del primo movimento planetario per la giustizia climatica, in un processo in cui pure è evidente l’importanza assunta dall’esplosione del movimento globale contro il patriarcato. Stanno anche cambiando le forme del conflitto politico e le modalità con cui si costruiscono gli spazi di confronto. Esperienze molto diverse tra loro come le ZAD francesi e il movimento Black Lives Matter, per esempio, hanno presentato interpretazioni dello spazio abitato convergenti e proposte di alternative compatibili. Il superamento del patriarcato e la giustizia ambientale sono elementi forti di rivendicazioni politiche che si trovano nelle esperienze di economia solidale e popolare dell’America Latina e nella Federazione Democratica del Rojava nella Siria del Nord.

Non si tratta più dunque – per lo meno, non soltanto – di criticare le categorie di sviluppo e di crescita,1 di indicarne l’incapacità di cogliere appieno il senso della complessità,2 ma di definire un universo plurale di alternative al capitalismo, che si realizza già in molte pratiche concrete. Un punto di forza di questo Dizionario è proprio la possibilità di leggere le dinamiche attuali utilizzando i lemmi che suggerisce o seguendo i dibattiti che sintetizza. Se la prima parte del volume definisce la società globale attraverso la critica allo sviluppo, mentre la seconda sintetizza le proposte di soluzione che provano a mantenersi nel solco del sistema sociale che ha prodotto il disastro e nella proposta di modelli universalizzanti, è la terza parte che può essere considerata un vero dizionario per l’alternativa, essa è infatti propriamente una nomenclatura dei lemmi che classificano le iniziative per la trasformazione.

 

Pluriverso nel dibattito dell’ecologia politica italiana

La traduzione italiana di Pluriverso interviene anche in un momento di passaggio di un dibattito locale. Alla sua realizzazione hanno collaborato un gran numero di studiose e studiosi coinvolte a vario titolo nel dibattito sull’ecologia politica. È stata una scelta importante perché il progetto di traduzione si realizzasse come risultato di un impegno politico e culturale, ma anche di un confronto teorico che negli ultimi anni si è allargato e inizia ad avere un certo riscontro, per partecipazione e per la quantità di questioni che sta ponendo: dal ripensamento della struttura dualista della tradizione occidentale moderna alla critica dell’idea di natura, dalla revisione dell’eredità marxista al problema di integrare tutto ciò in una nuova proposta di metodo. Si è trattato in questo senso di una scelta editoriale ancor più militante, se possibile, rispetto a quella dell’edizione originale – coerente con la ricerca di una grande partecipazione collettiva e con una fase in cui si sta consolidando un dialogo aperto tra l’esperienza dei movimenti per la giustizia ambientale e climatica e l’ecologia politica italiana.

Questo dibattito si sta articolando in modo peculiare, anche attraverso l’incontro tra la ricerca e le riflessioni politiche sul mutamento, soprattutto perché risponde alla storia del paese e alle grandi esperienze di conflitti politici e sociali che l’hanno segnata nell’ultimo secolo. La storia del capitalismo italiano è costellata da disastri ambientali e grandi progetti di sfruttamento delle risorse. Qui i progetti di sviluppo economico si sono affermati con una modalità aggressiva, fortemente dipendente dagli investimenti pubblici e da un’idea particolarmente persistente del ruolo delle grandi opere nel rilancio dell’economia. Tale processo si è sostenuto più facilmente sullo sfruttamento di aree considerate come sacrificabili, producendo disastri ambientali e sanitari all’interno di un’ottica predatoria e del tutto scollegata dalla realtà sociale e dai mutamenti generali del sistema economico globale. Dentro questa visione sta anche il divario sociale, la specifica modalità con cui si articola a livello locale la tendenza a scaricare il rischio ecologico e sanitario sulle fasce più debilitate della popolazione. Vivere sulla soglia di povertà implica l’abitare in aree malsane, essere maggiormente esposti ai danni prodotti dal mutamento climatico e subire in modo più immediato i riflessi economici delle crisi ambientali. Sono d’altronde queste le modalità in cui la società delle aree ricche del pianeta si è ridefinita nel quarantennio neoliberale.

La fisionomia che sta assumendo l’ecologia politica italiana si radica dunque nella storia delle lotte ambientali nel paese, nel legame tra i conflitti attuali e la lunga elaborazione che ha portato una parte del movimento operaio a occuparsi delle problematiche ecologiche. Inoltre, negli ultimi decenni si sono anche susseguiti centinaia di casi di conflitti ecologici, processi in cui le comunità locali si trovavano in opposizione agli interessi di grandi compagnie e lo stato interveniva per sottrarre alla politica locale la capacità decisionale. Il numero e le modalità indicano una trasformazione della società locale e anche un mutamento nella percezione del problema. Dentro queste esperienze si è consumato un passaggio importante verso la consapevolezza che la critica al sistema di produzione e consumo capitalista deve accogliere al suo interno anche un ragionamento sulla riproduzione della vita. Non a caso, la traduzione di Pluriverse viene pubblicata poco dopo che Fridays for Future e più in generale i movimenti per la giustizia climatica hanno dimostrato come sia possibile costruire grandi rivendicazioni politiche sul mutamento climatico, come non sia più un problema percepito come lontano nel tempo o astratto. In questo contesto è anche molto più semplice osservare come i movimenti femministi e decoloniali esprimano le stesse rivendicazioni che emergono dai conflitti ambientali, come sia impossibile scindere le varie problematiche.

 

Un dizionario oltre la crisi

Se il legame tra l’ecologia politica come spazio di dibattito accademico e le esperienze di conflittualità sociale radicate nei territori non è una novità assoluta, nel contesto attuale di trasformazione del capitalismo e delle sue forme di opposizione la questione ecologica assume un valore politico anche perché aggiorna l’analisi sul mutamento sociale determinato dalle crisi in corso (climatica, sanitaria, economica). Un dizionario del post-sviluppo che raccoglie quelle che sono state e sono le esperienze globali di elaborazione critica, di lotta e costruzione di immaginari altri si rivela particolarmente utile in questo contesto.

I curatori del volume, nella loro introduzione, ricorrono a una citazione di Antonio Gramsci per definire la crisi, una citazione che negli ultimi anni è stata ripresa in varie occasioni per la capacità di sintetizzare anche la dinamica tra proposte di mutamento e processi di conservazione: «il vecchio sta morendo e il nuovo non può nascere». Rispetto a questa visione, la tesi di fondo che ha guidato la raccolta dei testi è che la novità in realtà stia emergendo con una modalità che si discosta dalla storia delle utopie moderne. L’elemento di maggiore novità è dato dal fatto che la maggior parte delle parole che potremmo introdurre nel nostro vocabolario del mutamento si formano e nutrono in quello che il dibattito postcoloniale ha definito come il margine: la linea di esclusione permanente che ormai include la maggior parte degli abitanti del pianeta, separandoli dalla ricchezza accumulata. Molte di queste esperienze politiche che si sono affermate negli ultimi decenni hanno faticato a ottenere un riconoscimento, ma stanno anche fornendo delle grandi occasioni per il cambiamento.

L’idea di realizzare una versione italiana del testo deriva dunque anche dalla volontà di discutere delle novità che stanno emergendo, dalle esperienze politiche e dalle contraddizioni interne al sistema, seguendo una tesi già avanzata da Samir Amin, per cui l’innovazione proviene sempre dalla periferia e si trasferisce al centro di un sistema sociale quando assume la capacità di diventare egemone. Oggi sono cambiate sensibilmente le differenziazioni territoriali e le geografie del capitale, in un processo per cui i margini di esclusione non possiedono più solo il connotato dato dall’eredità coloniale della differenza tra Nord e Sud globali, ma si riproducono continuamente lungo le gerarchie stabilite di classe, genere e razza anche all’interno di quelli che erano i centri dell’accumulazione capitalista e verso cui venivano diretti i frutti della spoliazione coloniale.

Su questo sfondo, e nel momento in cui la quotidianità di milioni di persone sul pianeta è scandita dalla tensione tra crisi sistemiche, nuove soluzioni sviluppiste e visioni alternative che emergono dalla materialità del mutamento sociale e dal conflitto, la convergenza possibile tra neomarxismo, ecofemminismo, pensiero decoloniale, studi postcoloniali, ecologia libertaria, teorizzata in questo testo rimane un progetto teorico, politico e culturale di fondamentale importanza. Certamente, a chi si avvicini al testo risulterà difficile accogliere ognuna delle molteplici voci che compongono la complessa “tessitura delle alternative” del Pluriverso. Tuttavia, esso ci pare uno sforzo fondamentale nel creare un campo di incontro, di confronto produttivo e inclusivo, tra esperienze diverse e geograficamente distanti tra loro. Tale progetto contribuisce a riattualizzare gli slogan di due movimenti chiave della contemporaneità: da un lato, quello zapatista che recitava l’importanza di produrre un mondo dove convivano e trovino spazio molti mondi; dall’altro, quello di un mondo altro scandito dal movimento no-global. Lo sviluppo è allora ripensato nell’ottica di un suo “dopo” che ne spezza la linearità uniformante, nella consapevolezza, sempre aperta, che altri mondi sono già sempre attuali.

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Produzione Neghentropica

di Enrique Leff

Parole chiave: produttività ecologica, razionalità ambientale, entropia, sostenibilità

Il concetto di produzione neghentropica sintetizza il portato di una teoria e di una pratica alternative per abitare il pianeta; il suo obiettivo è ripensare la sostenibilità a partire dalle condizioni ecologiche e culturali dei territori delle comunità.3 Si può definire la neghentropia, o entropia negativa, come il processo generale che continuamente crea, mantiene e arricchisce la complessità della vita sul pianeta; si basa sulla trasformazione della radiazione solare in biomassa attraverso la fotosintesi, fonte di tutta la vita. La produzione neghentropica è quindi una risposta alternativa a una crescita economica che trasforma tutta la materia e l’energia consumata nel processo di produzione in energia degradata, che in ultima istanza diventano materia non riciclabile e calore.

La produzione neghentropica mira a contrastare il paradigma economico dominante, basato su una visione meccanicista della produttività, del lavoro e della tecnologia, che ha negato le condizioni ecologiche e culturali della sostenibilità, provocando la crisi ambientale planetaria. La natura oggettivata, data in pasto alla mega-macchina dell’economia globale, viene trasformata secondo la legge dell’entropia in merci, inquinamento e calore. Questo processo di degradazione si manifesta nella deforestazione, nella desertificazione, nell’erosione della biodiversità e nel cambiamento climatico che sta producendo la morte entropica del pianeta.

Gli esseri umani sono la principale forza trasformatrice della base biologica del sistema che sostiene la vita sul pianeta. La produzione economica è il processo attraverso cui l’essere umano trasforma materia ed energia della natura. Il modo di produzione è il modo in cui l’umanità stabilisce le condizioni materiali della sua esistenza, influenzando profondamente la complessa termodinamica della biosfera. L’ambientalismo mette in discussione l’ineluttabilità del degrado entropico della natura, indotto dal processo economico che sottende alla razionalità produttivista dominante.

L’inversione della logica della produzione non sostenibile e la transizione verso una modalità sostenibile non possono ottenersi riformando l’economia dominante e internalizzando le esternalità ambientali come la degradazione ecologica, l’inquinamento, la biodiversità, i cambiamenti climatici, i gas serra, i beni e i servizi ambientali. Né i processi economici possono essere resi sostenibili costringendo i comportamenti economici dentro i limiti delle condizioni ecologiche necessarie per la riproduzione della natura, così da ottenere un’economia allo “stato stazionario”. Diversamente da simili proposte correnti, la “bioeconomia” di Georgescu-Roegen (Georgescu-Roegen 1971) ha costretto la razionalità economica a fare i conti con il fatto ineluttabile che i processi economici distruggono la propria base ecologica. Ma non ne ha derivato un paradigma economico fondato sulle basi ecologiche di una produzione sostenibile.

È invece necessario un paradigma di produttività eco-tecno-culturale fondato sui principi di una razionalità ambientale alternativa (Leff 2004). In questa concezione, l’ambiente emerge al di là della razionalità dominante con la sua presunta ontologia unitaria e universale che limita la diversità ed esclude l’alterità. Questo paradigma guida l’eco-marxismo, l’economia ecologica e l’ecologia politica verso la costruzione di un modo di produzione alternativo, basato sulla conservazione e la riprogettazione delle condizioni di produzione sociali ed ecologiche incarnate nelle diverse culture.

Il nodo centrale per la sostenibilità è, di fatto, la sostenibilità della vita. Tuttavia, sorge la domanda: un’economia sostenibile è possibile? Un’economia che si sviluppa con e attraverso le forze creative della natura; un’economia costruita sulla base delle potenzialità ecologiche del pianeta; un’economia umana che riconosca le condizioni della vita umana e la diversità culturale? Essa implica la decostruzione dell’economia dominante e la costruzione di un nuovo paradigma di produzione: un paradigma di produttività eco-tecno-culturale – o “produzione neghentropica” – guidato da principi di razionalità ambientale.

Si potrebbe scorgere la possibilità nell’orizzonte di questi altri mondi possibili, se solo riuscissimo a liberare le potenzialità della vita che sono state limitate dalla razionalità anti-natura che guida lo sviluppo sostenibile. La sostenibilità è il risultato dell’interazione di processi neghentropici/entropici messi in atto da differenti soggetti culturali nei loro modi di abitare i propri territori. La costruzione di un futuro sostenibile ci chiama a immaginare le potenzialità ecologiche e le strategie epistemologiche e sociali necessarie per costruire un modo di produzione alternativo, basato sulle “potenzialità neghentropiche della vita”. Si tratta di un modo di produzione basato sulle condizioni termodinamico-ecologiche della biosfera e sulle condizioni simbolico-culturali dell’esistenza umana.

Il paradigma di produzione neghentropico che si propone qui si basa sull’articolazione di tre ordini di produttività: ecologica, tecnologica e culturale. La produttività ecologica si basa sul potenziale ecologico dei diversi ecosistemi. La ricerca ecologica ha dimostrato che gli ecosistemi più produttivi, quelli umidi tropicali, producono naturalmente biomassa a tassi annuali fino all’8% circa. Questo potenziale ecologico può essere accresciuto dalla ricerca scientifica, dalle tecnologie ecologiche e dall’innovazione delle pratiche colturali – tra cui la fotosintesi ad alta efficienza, la gestione della successione secondaria e la rigenerazione selettiva di specie preziose nei processi ecologici; colture multiple associate, agroecologia e agroforestazione – per definire e guidare il valore culturale-economico dell’output tecno-ecologico del processo produttivo (Leff 1995).

Questo paradigma alternativo di produzione si articola dalla prospettiva degli immaginari culturali non moderni e delle loro pratiche ecologiche. Gli spazi privilegiati per implementare questa strategia di “produzione neghentropica” sono le aree rurali del mondo abitate da popolazioni contadine indigene che, nelle proprie lotte per costruire territori autonomi, mettono in pratica questa prospettiva teorica attraverso la reinvenzione della propria identità e l’innovazione delle pratiche tradizionali.

Questa concezione della produzione sostenibile risuona nelle lotte dei movimenti sociali per la riappropriazione del proprio patrimonio bio-culturale, come l’ancestralità invocata dagli afro-colombiani della regione della foresta pluviale del Pacifico, il sumak kawsay dei popoli andini, i caracoles degli zapatisti in Messico e gli immaginari di sostenibilità di tanti altri popoli nativi, dai Mapuche e Guaraní nel sud dell’America Latina ai Seri o Comca’ac nell’arido nord del Messico. Gli attori privilegiati di una società neghentropica sono i contadini tradizionali, le popolazioni indigene del mondo e i movimenti socio-ambientali che essi stanno promuovendo. Un esempio emblematico è la lotta dei seringueiros dell’Amazzonia brasiliana che hanno istituito le proprie “riserve estrattive” come strategia di sviluppo sostenibile.


Approfondimenti
E. Leff, Ecología y capital: racionalidad ambiental, democracia participativa y desarrollo sustentable, Siglo XXI, México 1994.
E. Leff, Green production. Towards an Environmental Rationality, Guilford, New York 1995.
E. Leff, Racionalidad Ambiental. La reapropiación social de la naturaleza, Siglo XXI, México 2004.
N. Georgescu-Roegen, The Entropy Law and the Economic Process, MA: Harvard University Press, Cambridge 1971.

Enrique Leff è un sociologo dell’ambiente messicano, ecologista politico e senior researcher presso l’Instituto de Investigaciones Sociales, Universidad Nacional Autónoma de México. È stato coordinatore della Environmental Training Network for Latin America and the Caribbean presso l’UNEP (1986-2008). Il suo libro più recente è La apuesta por la vida: imaginación sociológica e imaginarios sociales en los territorios ambientales del Sur (Siglo XXI Editores, Messico, 2014).

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Il salario al lavoro domestico

di Silvia Federici

Parole chiave: lavoro domestico, salario, strategia, femminismo

Negli anni Settanta la campagna per il Salario al Lavoro Domestico è stata un momento storico importante nel processo di rafforzamento delle donne contro il capitalismo. Sottolineando la centralità del lavoro riproduttivo, e chiedendo che le attività domestiche venissero riconosciute come lavoro e remunerate, questa campagna gettò le basi per una strategia politica di liberazione delle donne di dimensioni internazionali. Mise il capitalismo sotto accusa ed espose la superficialità della versione mainstream del femminismo dei diritti.

Secondo Dolores Hayden, l’iniziativa ebbe origine nel tardo diciannovesimo secolo, quando, dopo la Guerra Civile, alcune femministe negli Stati Uniti lanciarono la proposta del “salario alle casalinghe”. Negli anni Quaranta, Mary Inman, attiva nel Partito Comunista, sostenne le ragioni della proposta nel libro In Woman’s Defense, ma non riuscì a convincere il partito a farne un punto programmatico.

Fu negli anni Settanta che la campagna per il Salario al Lavoro Domestico si trasformò da richiesta di remunerare il lavoro domestico in prospettiva politica centrata sul ruolo delle donne e del lavoro riproduttivo nell’accumulazione capitalista. Questo fu possibile grazie alla formazione di una rete femminista internazionale che si mobilitò in diversi paesi per chiedere che lo Stato, in quanto capitalista collettivo, pagasse un salario a chiunque svolgesse questo tipo di lavoro. Nel 1972, la studiosa di teoria politica e attivista italiana Mariarosa Dalla Costa spiegò le ragioni di questa strategia sistemica. Ben presto il suo contributo venne tradotto e divenne il testo centrale della campagna, pubblicato in inglese con il titolo Women and the Subversion of the Community (Donne e sovversione sociale).

Contro la tradizione marxista che rappresentava il lavoro domestico come attività di servizio personale, un residuo della società pre-capitalista da superare con la piena industrializzazione dell’economia, Dalla Costa sosteneva che il lavoro domestico era il pilastro centrale dell’accumulazione capitalista, in grado di contribuire direttamente alla creazione di plusvalore attraverso la produzione di forza lavoro, ovvero della stessa capacità di lavorare.

In quanto prodotto del capitalismo, le attività domestiche erano invisibili e imposte come lavoro non remunerato. A trarre beneficio dalla loro svalutazione era la classe capitalista che, altrimenti, avrebbe dovuto fornire servizi sociali per mettere i lavoratori nelle condizioni di presentarsi sul posto di lavoro. Insomma, il capitalismo ha creato un’immersa ricchezza sulle spalle delle donne, costrette a dipendere economicamente dagli uomini o fare il doppio turno dentro e fuori casa.

La richiesta di salario al lavoro domestico ha reso visibile l’immensa quantità di lavoro non pagato svolto dalle donne per il capitale. Ha così fatto luce su un ambito di sfruttamento fino ad allora naturalizzato come “mansioni femminili”. Inoltre, poiché il lavoro domestico riproduce forza-lavoro ed è dunque ciò che rende possibile ogni altra forma di lavoro, la campagna per il salario ha svelato il potere sociale che, potenzialmente, questo lavoro potrebbe conferire a chi lo svolge.

Identificando i reali beneficiari del lavoro riproduttivo, la campagna per il Salario al Lavoro Domestico ha liberato le donne dal senso di colpa che avvertivano quando rifiutavano le mansioni imposte. Ancora più importante è il fatto che la campagna ha creato un’alternativa forte al femminismo liberale che chiedeva uguali diritti e accesso alle tradizionali occupazioni maschili. Questa componente mainstream del femminismo non ha fatto nulla per destabilizzare le gerarchie e la divisione sessuale del lavoro. Con essa, il “dono” delle donne al capitale sarebbe rimasto intatto.

La campagna per il Salario al Lavoro Domestico non ha mai generato un movimento di massa. Ma le lotte contemporanee per i diritti delle donne ai servizi sociali negli Stati Uniti e la difesa della Family Allowance in Inghilterra hanno dimostrato la sua rilevanza per le donne proletarie. La campagna è stata osteggiata da femministe liberali e perfino socialiste secondo cui ottenere un salario avrebbe istituzionalizzato il ruolo delle donne nella casa. Ma tre decenni di ristrutturazione del lavoro riproduttivo e l’integrazione delle donne come lavoratrici salariate nell’economia mondiale hanno dimostrato la sua continua rilevanza per i movimenti per la giustizia sociale.

L’accesso al lavoro salariato non ha liberato le donne dal lavoro domestico non retribuito, né ha trasformato le condizioni nei posti di lavoro in modo tale da rendere le donne in grado di prendersi cura della famiglia e gli uomini di farsi carico del lavoro domestico. Tuttora, negli Stati Uniti le donne non hanno accesso al congedo di maternità obbligatorio come accade in molti altri paesi. Il lavoro riproduttivo, di cui ancora oggi sono soprattutto le donne a farsi carico, è tuttora non pagato, anche se, come spiego in Il punto zero della rivoluzione, oggi è in gran parte svolto da lavoratrici migranti pesantemente sfruttate e mal retribuite.

Diversi elementi fanno del Salario al Lavoro Domestico una strategia di trasformazione positiva. Se realizzata, produrrebbe un massiccio trasferimento di risorse dall’apice alla base della società. Di questo c’è sempre più bisogno vista la precarizzazione del lavoro, lo smantellamento del sistema di welfare, e la crisi della riproduzione che comunità in tutto il mondo si trovano ad affrontare. Da questo punto di vista, la campagna è simile a quella per il reddito di base. Ma il vantaggio del Salario al Lavoro Domestico è che mette sotto accusa il capitale perché inquadra il trasferimento di ricchezze in termini di riappropriazione di ciò che le donne hanno prodotto e rappresenta una sfida all’aumento del lavoro non pagato imposto dal capitale.

Inoltre, come ha scritto Louise Toupin, il Salario al Lavoro Domestico apre un nuovo terreno di negoziazione tra le donne e lo Stato a partire dalla questione della riproduzione. Crea connessioni tra lavoratrici domestiche pagate e non pagate per ridefinire la relazione delle donne con il lavoro, dentro e fuori casa, ma anche con il matrimonio, la sessualità, la procreazione e la loro identità come donne.

Non meno importante, rimettere al centro delle lotte anti-capitaliste la valorizzazione delle attività che permettono la produzione di vita è una condizione essenziale per superare la logica del capitale. La logica della svalutazione – monetaria e non solo – deve essere contestata per recuperare l’aspetto creativo di questo tipo di lavoro. Ma una lotta interna alle relazioni salariali capitaliste dovrebbe essere solo l’inizio. Per essere davvero trasformativa sul piano politico, la lotta dovrebbe andare di pari passo con la riorganizzazione del lavoro domestico in chiave meno isolante, più cooperativa e socializzata. Se la campagna per Salario al Lavoro Domestico sarà condotta da un movimento forte, la sua sfida alle forme di sfruttamento più nascoste e naturalizzate cambierà le relazioni di potere – tra donne e capitale, ma anche tra donne e uomini e quelle tra le stesse donne – in modi che sosterranno l’unificazione della classe lavoratrice.


Approfondimenti
D. Hayden, The Great Domestic Revolution, MA: MIT Press, Cambridge 1985.
L. Toupin, Le salaire au travail ménager: Chronique d’une lutte féministe internationale (1972-1977), Éditions du Remue-Ménage, Montréal 2014.
M. Dalla Costa, Donne e sovversione sociale, in M. Dalla Costa, Potere femminile e sovversione sociale, Marsilio Editore, Padova 1972.
M. Inman, In Woman’s Defense, Committee to Organize for Advancement of Women, Los Angeles 1941.
S. Federici, Il punto zero della rivoluzione: lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista, Ombre Corte, Verona 2014.
Silvia Federici è un’attivista femminista e Professoressa Emerita alla Hofstra University. È l’autrice di Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria (2004, 2015); Il punto zero della rivoluzione: lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista (2012, 2014); con Arlen Austin ha curato il volume The New Wages for Housework Committee 1972-1977: History, Theory, Documents (2017).

Note
1 Esplicito fin dalla Prefazione il riferimento al Dizionario dello sviluppo curato da Wolfgang Sachs nel 1992 e tradotto in italiano nel 1998. Da segnalare in questo contesto l’importante Postfazione all’edizione italiana, a firma di Alberto Tarozzi e Marco Giovagnoli.
2 Data l’omonimia del titolo occorre indicare, tra la grande quantità di pubblicazioni dedicate al tema, la rivista Pluriverso. Biblioteca delle idee per la civiltà planetaria, diretta da Mauro Ceruti, coordinata da Telmo Pievani e uscita per Rizzoli tra il 1995 e il 1999.
3 Il concetto è basato sulla nozione di produttività eco-tecnologica, che ho introdotto per la prima ‎volta nel 1975 e riformulato nel 1986 nel mio libro Ecología y Capital. Vedi: Leff (1995).

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