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Argentina: torna il liberismo. Se ne era mai andato?

di Roberto Lampa

Per capire il ritorno prepotente della crisi economica in Argentina vanno analizzate le scelte scellerate del governo di centro-destra di Macri ma anche i limiti del cosiddetto ciclo progressista (o populista) dei governi Kirchner

pesos 2 990x554“Argentina di nuovo a rischio: possibile default in stile 2002” (Il Sole 24 Ore, 4 settembre)

“L’Argentina sprofonda nella crisi” (Financial Times, 26 settembre)

“Gli investitori farebbero bene a stare alla larga dall’Argentina” (Wall Street Journal, 4 ottobre)

Tra titoloni apocalittici e resoconti di stampa sempre di più simili a necrologi, l’Argentina è tornata prepotentemente a far parlare di sé. Nell’ultimo anno il valore del peso argentino è precipitato più di ogni altra valuta al mondo (il tasso di cambio con il dollaro è aumentato del 122%), la produzione industriale è in caduta libera (-5,6% in agosto), la disoccupazione è ormai prossima al 10% (nonostante le controverse statistiche argentine considerino occupati anche i titolari di partite Iva e coloro i quali percepiscono un sussidio di lavoro), e ben il 30% della popolazione è tornata a vivere sotto la soglia della povertà.  Se da un lato ciò non può certo sorprendere i lettori più attenti delle tormentate vicende latino americane (negli ultimi 200 anni, ben sette sono stati i default argentini), dall’altro rimane molto difficile spiegare come sia stato possibile che un paese con un debito estero prossimo allo zero passasse a mendicare un accordo di oltre 50mila milioni di dollari – per di più firmato in condizioni emergenziali e a dir poco sfavorevoli – con il Fondo Monetario Internazionale, in meno di tre anni.

Tra le conseguenze del default del 2001, il più grande della storia del capitalismo (causato dall’impossibilità del paese di far fronte ad un’enorme mole di debito emesso in dollari statunitensi e che aveva ridotto oltre il 50% dei suoi abitanti a vivere sotto la soglia di povertà),  ve ne era stata infatti almeno una (parzialmente) positiva: il sostanziale divieto per l’Argentina di emettere bond nei mercati finanziari internazionali fino a che non fosse stato raggiunto un accordo con tutti i creditori vittime dei c.d. tango bond.

Ciò aveva obbligato il paese a cercare strade alternative e più virtuose, evitando la scorciatoia rappresentata dal connubio debito/ingerenze del Fmi fino al dicembre 2015. Oggi invece, ad appena tre anni di distanza, il paese si trova fortemente indebitato nei mercati finanziari e in balia dei dollari prestati dal Fondo. Come si è potuti ricadere tanto velocemente nella perversa spirale del debito?

 

Le scelte scellerate del governo Macrì

Per poter anche semplicemente abbozzare una risposta è necessario introdurre due piani della discussione. Il primo rimanda, in senso stretto, alle scelte scellerate compiute dal governo di centro-destra di Mauricio Macri a partire dal 10 dicembre 2015, ennesimo e tragico tentativo di modernizzazione accelerata del paese lungo le linee guida dettate da mercati finanziari ed istituzioni internazionali. Il secondo, più complesso e meno immediato da comprendere, chiama in causa i limiti del cosiddetto ciclo progressista (o populista, che dir si voglia) inaugurato dal presidente peronista Nestor Kirchner nel 2003 e terminato proprio con le elezioni del dicembre 2015.

Riguardo alla politica economica del governo Macri, non è eccessivo definirla come un enorme monumento all’“ottimismo della volontà”, svincolata cioè dal realismo e dalla benchè minima cognizione dei propri limiti, data la complicata congiuntura internazionale.

Appena insediatosi sullo scranno più alto della Casa Rosada, il nuovo presidente ha infatti decretato la completa liberalizzazione del mercato valutario, rimuovendo qualsiasi limite all’acquisto di dollari ed alzando al 30% la quantità massima di asset denominati in dollari detenuti dalle banche. In più, ha firmato un accordo, a giudizio di molti osservatori del tutto irragionevole, con i c.d. fondi avvoltoi di Paul Singer, fresco proprietario del Milan e massimo specialista nella speculazione consistente nell’acquisto di titoli di stato andati in default (pertanto caratterizzati da un prezzo bassissimo) con i quali aprire, a ripresa economica avvenuta, un contenzioso legale con il paese che li aveva emessi, obbligandolo a liquidare ingenti somme di denaro per evitare la minaccia di un secondo default.

L’obiettivo dichiarato di queste scelte, a dir poco temerarie, era quello di trasmettere ai c.d. mercati un messaggio di completa rottura rispetto al passato. Il nuovo governo era infatti convinto che il semplice fatto di presentarsi come market friendly, filo statunitense e sostanzialmente ostile ai processi di integrazione regionale bastasse ad attrarre una “lluvia de inversiones” (pioggia di investimenti) dall’emisfero nord.

La ricerca ostinata di una simile normalità, definita enfaticamente “vuelta al mundo” (ritorno al mondo) dell’Argentina si è scontrata ben presto con la dura realtà. Non solo gli investimenti stranieri diretti non sono minimamente arrivati (fatto ampiamente prevedibile, vista la forte fuga di capitali dalle economie emergenti iniziata nell’ottobre del 2015) ma gli stessi investimenti domestici, venuti meno il protezionismo e i sussidi alle imprese dei governi Kirchner, sono crollati drammaticamente nel 2016. Ennesima dimostrazione che le richieste di “liberalizzazione” provenienti dal mondo imprenditoriale nascondono in realtà la volontà di appropriarsi di ingenti risorse pubbliche per il proprio tornaconto più che quella di investire liberi dalle ingerenze statali. Un esempio plastico di quanto nel liberismo lo Stato non si ritragga dall’economia, ma continui ad intervenire scegliendo come destinatari preferiti i detentori di capitale (produttivo come in questo caso, o finanziario-speculativo).

Spiazzati dal fallimento di questa strategia, ministero dell’economia e banca centrale argentina sono corsi precipitosamente ai ripari, cercando una via d’uscita che permettesse di mostrare qualche timido segnale di ripresa in tempi brevi. Come nel Faust di Goethe, i demoni della finanza speculativa si materializzavano così sulle rive del Rio de la Plata.

Attraverso un pacchetto di misure mirate a liberalizzare l’accesso (e, soprattutto, l’uscita) dei capitali di breve periodo, il governo varava il piano Lebac: in soldoni, un investitore straniero entra in un mercato emergente con un gruzzoletto di dollari, li passa alla valuta locale, compra titoli, ottiene un buon rendimento, cambia il suo capitale in dollari e se ne va. Nel caso argentino però, l’assenza totale di regole (periodo minimo di permanenza dei capitali stranieri; tassazione della rendita se si decide di uscire dal paese etc.) unita ai rendimenti astronomici che l’acquisto di Lebac garantiva (6,5% annuale in dollari, record mondiale) ha ben presto determinato un catastrofico effetto palla di neve.

Da un lato, un’enorme massa di investitori si è orientata su questi prodotti finanziari. Dall’altro, la maggior parte lo ha fatto per periodi brevi o molto brevi, scegliendo di uscire dal paese nel volgere di pochi mesi, fiutando l’altissimo rischio insito in una simile speculazione. Per far fronte a questo esborso continuo di dollari, accresciuti dalla spesa per interessi, il governo ha pensato bene di emettere un’enorme mole di titoli di stato denominati in dollari (oltre 76mila milioni di dollari nel biennio 2016-18, record tra i paesi emergenti) e di varare la sanatoria per il rientro dei capitali più grande della storia del capitalismo (110mila milioni di dollari), spodestando dalla vetta lo “scudo fiscale” del governo Berlusconi.

In altre parole, il gabinetto economico di Macri ha ritenuto che indebitarsi in dollari (attraverso l’emissione di bond) fosse il modo più intelligente per pagare un oneroso debito in dollari (generato dalle Lebac). Come in un enorme schema Ponzi, i forti guadagni degli investitori Lebac erano possibili solo a patto di reclutare nuovi “investitori” nei mercati internazionali, con la chimera di rendimenti sempre più allettanti (e, pertanto, sempre più aleatori).

Su queste basi, la catastrofe è diventata inevitabile non appena le condizioni che i mercati finanziari chiedevano per comprare titoli di stato argentino sono peggiorate improvvisamente, rendendo impossibile per il paese continuare a indebitarsi.

Complici l’aumento del tasso di sconto della Riserva Federale (il tasso con cui la banca centrale concede prestiti alle banche), che tradizionalmente determina un forte afflusso di capitali verso il mercato finanziario statunitense ed il conseguente apprezzamento del dollaro, nel maggio scorso scoppiava così la bolla speculativa Lebac, dando inizio ad una terribile crisi finanziaria. Il presidente Macri alzava immediatamente bandiera bianca, consegnando il paese nelle mani del Fmi.

Il resto è storia recente: il Pil argentino è in caduta verticale da due trimestri e il Fondo prevede una recessione del 2,6% per il 2018. Il salario reale subirà da qui alla fine dell’anno una contrazione di ben il 12%, determinando una caduta del consumo del 6%. A peggiorare il tutto,  l’inflazione stimata è ormai prossima al 50%, prodotto della crisi finanziaria e della forte svalutazione del dollaro ed ennesima prova che in un mondo finanziarizzato la dinamica salariale è ormai largamente irrilevante per l’andamento dei prezzi.

A peggiorare il tutto, sin dalla prima ispezione, l’Argentina non è stata in grado di compiere con le condizioni imposte dal Fondo, vedendosi obbligata a chiedere un immediato waiver, cioè una rinegoziazione dei termini dell’accordo. Pur se non significativamente aumentato nell’importo, il nuovo stand-by agreement prevede adesso un forte anticipo dei versamenti a favore dell’Argentina, quasi interamente concentrati nel periodo 2018-19, sebbene il programma duri fino al 2021.

Il motivo è presto detto: le elezioni presidenziali del prossimo anno e la concreta possibilità che Macri non venga rieletto. In questo senso, si può concludere che la forte amicizia con l’amministrazione Trump ha almeno permesso al governo argentino di ricevere un appoggio politico sin qui incondizionato. Elemento, quest’ultimo, tutt’altro che scontato e che rende ancora aperta la partita elettorale dell’ottobre 2019.

Ciononostante, il rischio di un default da qui ai prossimi mesi è tutt’altro che scongiurato specie alla luce della fortissima e inarrestabile fuga di capitali dal paese, vera variabile impazzita del complicato puzzle rioplatense e principale preoccupazione dei tecnici del Fondo. Al riguardo, non va dimenticato che proprio gli anni elettorali si caratterizzano per l’aumento dell’intensità della fuga, soprattutto in presenza di forte incertezza. E che, viceversa, l’introduzione di rigidi controlli dei capitali (unico rimedio efficace, nel breve periodo) è del tutto impercorribile per i chiari pregiudizi ideologici ed interessi materiali che caratterizzano sia il governo argentino che il Fondo.

Per l’Argentina si prospetta quindi una lunga durata della recessione in corso – come conseguenza delle stringenti condizioni imposte dal Fondo – e una crescente fragilità finanziaria che potrebbe culminare con l’ennesimo fallimento.

 

Quello che i populisti non dicono… luci ed ombre dei governi Kirchner

Sin qui dunque gli errori marchiani del governo argentino. Tuttavia, sarebbe fuorviante contrapporre alla scellerata gestione di Macri un’esaltazione retorica del kirchnerismo, inteso come variante locale del populismo di stampo progressista che ha egemonizzato il sud america per oltre quindici anni. Al contrario, proprio una riconsiderazione critica di quell’esperimento è imprescindibile per comprendere appieno l’attualità.

Se infatti l’amministrazione Macri racchiude in sé tutti i vizi storici delle élite argentine (il rifiuto aprioristico della propria dimensione latinoamericana, l’esterofilia ottusa e di facciata, il risentimento malcelato verso il proprio paese, il razzismo verso la popolazione non discendente da europei e sovente verso gli stessi immigrati del sud Europa, l’assenza di cultura democratica…), la retorica dei populisti tende ad auto-rappresentarli univocamente come l’anti-élite, assolvendoli in questo modo da qualsiasi colpa o responsabilità riguardo ai problemi cronici del paese.

Come dei romantici eroi senza macchia, i populisti diventano così gli unici attori politici stoicamente schierati con il popolo e contro le oligarchie e, pertanto, fatalmente condannati ad essere rovesciati, generalmente per mezzo di piani cospirativi abilmente orchestrati dalle élite stesse in combutta con gli immancabili “poteri forti” internazionali. E questo nonostante una frazione significativa dell’oligarchia (gli imprenditori appartenenti alla “burguesia nacional”, amica del popolo) formi parte da sempre del blocco sociale su cui poggiano i governi populisti.

In questo modo, la storia delle società latinoamericane, in generale, e di quella argentina, in particolare, viene ridotta a una caricatura: un’interminabile sequenza di governi oligarchici ed anti popolari, sporadicamente interrotta da piccoli frammenti di Eden perduto, rappresentati proprio dai governi populisti.

I ciclici ed effimeri innamoramenti per il presidente latinoamericano di turno, mostrano come una simile narrazione venga accettata acriticamente anche da partiti e movimenti di sinistra europei. Si tratta però di una tesi insostenibile e facilmente rifiutabile, semplicemente tenendo conto di alcuni (macroscopici) fatti stilizzati.

Il punto di partenza del ciclo populista-progressista latino americano corrisponde alle catastrofiche “crisi dei debiti sovrani” che hanno interessato pressoché tutta la regione a ridosso dell’anno 2000.

In Argentina, la crisi si manifesta con una violenza inaudita nel dicembre del 2001 e sancisce il fallimento delle politiche del Washington Consensus implementate negli anni Novanta, a partire dalla famigerata parità cambiaria tra peso argentino e dollaro, la c.d. convertibilità. Su un piano politico, l’eredità degli anni Novanta era però molto più gravosa di quanto i pur catastrofici indicatori economici potessero suggerire.

La prolungata disoccupazione – compresa tra il 17,5% (1995) ed il 19,7% (2002) – l’esplosione della povertà e dell’indigenza, le riforme flessibilizzatrici del mercato del lavoro e la conseguente frammentazione e indebolimento del fronte sindacale rappresentavano l’ostacolo più duro per il governo Kirchner e le sue aspirazioni riformiste perché implicavano l’assenza di un soggetto sociale che le incarnasse, generando una mobilitazione nel paese indispensabile per rafforzare il modesto consenso del governo, eletto con appena il 22% dei voti.

La via d’uscita fu quindi una sorprendente apertura verso i movimenti sociali di sinistra che al grido di “que se vayan todos” (che se ne vadano tutti, cioè i partiti tradizionali: peronisti e radicali) avevano guidato le gloriose giornate di dicembre 2001 nelle strade e nelle piazze del paese, pagando un altissimo tributo alla repressione (38 vittime, decine di feriti e centinaia di arresti).

In questo senso, il governo  si proponeva di dar voce ai “molti”, contro l’arroganza dei “pochi” cioè le élite nazionali e internazionali responsabili della crisi, anticipando buona parte degli argomenti che Ernesto Laclau avrebbe successivamente incluso nel suo celebre lavoro su La Ragione Populista. D’altra parte, il generico appello ai non meglio definiti “molti” rappresentava anche una formidabile scorciatoia per provare a rimettere assieme i cocci provocati dall’esplosione sociale, economica e politica del 2001, eludendo una ben più onerosa (sul piano dell’agibilità politica) analisi critica della società argentina in termini di trasformazione della sua anchilosata struttura produttiva e superamento delle istituzioni esistenti. Invece che andare a uno scontro con il settore “terrateniente” e con le grandi imprese concentrate – tutt’altro che improponibile, data la straordinaria mobilitazione della società argentina – il governo sceglieva così il cammino del dialogo sociale e della gestione oculata dell’esistente.

In questo modo, veniva negata a priori qualsiasi discussione sulla mancata de-colonizzazione delle istituzioni argentine, su l’anacronistica centralità del latifondo e sulle sue nefaste conseguenze economiche e sociali, sugli oligopoli industriali e commerciali o sul sistema tributario iniquo e regressivo.

Al contrario, gli iniziali successi economici del governo Kirchner riflettevano un’agenda molto più tradizionale, basata sugli avanzi di bilancio, la fortissima transnazionalizzazione del settore industriale (incentivata dalla fortissima svalutazione del 2002 che implicò una caduta del salario reale di circa il 50%), sulle esportazioni del settore primario (trainate dal cosiddetto super-ciclo delle commodities) e, pertanto, sulla forte apertura delle partite capitali della Bilancia dei Pagamenti. Un pacchetto di misure che difficilmente si può definire non neoliberale, permeato dalla convinzione che solo garantendo alti profitti (a discapito del salario) fosse possibile ripartire e generare impiego.

A questa fase iniziale è però seguita una seconda tappa, a partire dal 2009, nella quale la dinamica salariale ha ripreso fortemente vigore a seguito di una negoziazione politica tra governo sindacati ed imprese. Queste ultime hanno ottenuto un fortissimo protezionismo sui prodotti di consumo importati, faraonici sussidi alle bollette di acqua luce e gas e credito a tasso agevolato a cambio di concessioni salariali. Anche in questa fase, pertanto, la centralità del profitto più che quella del salario sembrava caratterizzare la strategia di crescita del governo.

Nell’assenza della politica industriale e di un progetto di trasformazione della struttura produttiva del paese, che continua ad essere basata sull’esportazione di materie prime agricole (soia, cereali) e minerali, i governi Kirchner hanno puntato così a una redistribuzione del reddito sufficiente a generare un ciclo di consumo e la nascita di una nuova “classe media” (concetto da usare con molta cautela a queste latitudini, ma che rende comunque l’idea). Tuttavia, non sono riusciti a scalfire la centralità dei settori economici e sociali tradizionalmente dominanti.

I limiti di questa strategia sono impliciti anche nel piano immateriale, dove l’azione dei governi Kirchner ha puntato a rilanciare un gramscismo edulcorato e tipico dei cultural studies anglosassoni – completamente incentrato sulla necessità di vincere la “batalla cultural” attraverso produzioni audiovisuali, testimonial celebri, carte aperte di intellettuali…  – piuttosto che occupando le case matte del potere argentino, a partire dall’opaco potere giudiziario da sempre baluardo della reazione contro ogni tentativo di riforma del paese in senso progressista.

In questo modo – quando la brusca caduta del prezzo delle materie prime iniziata nel 2011 ha determinato uno stop forzato alla redistribuzione del reddito e all’espansione del consumo – i pur non disprezzabili risultati economici e sociali raggiunti dai governi Kirchner sono lentamente passati in secondo piano.

Il crescente malcontento di una nuova classe medio-bassa e le sue aspirazioni frustrate di ascesa sociale hanno iniziato a manifestarsi con toni fortemente reazionari e individualisti, imputando tutta la colpa all’eccessiva spesa pubblica del governo, riflesso della corruzione dei suoi funzionari (fatto peraltro vero, almeno in alcuni casi).

Su queste basi, si rendeva possibile la vittoria della destra del 2015. Tuttavia, sono i limiti dei governi Kirchner più che i meriti dell’amministrazione Macri a spiegare sia il brusco cambio di ciclo politico che la velocissima normalizzazione del paese.

Dopo appena tre anni, non sembra esserci traccia della lunga parentesi kirchnerista, in maniera non dissimile da quanto accade in Brasile o Ecuador. E per la prima volta ciò non avviene per effetto di colpi di stato o soluzioni autoritarie ma tramite schiaccianti maggioranze parlamentari.

Un elemento da tenere in debita considerazione specie nel dibattito europeo, dove da più tempo si fa strada l’idea che il populismo di sinistra, sconnesso da un’analisi di classe di cosa sia il “popolo” oggi e che si adagia su forme tecnocratiche di keynesismo da implementare all’interno di  istituzioni politiche che fin qui hanno mostrato di essere incompatibili persino con un riformismo moderato, possa rappresentare una via d’uscita efficace per la crisi attuale.


*Roberto Lampa è professore di economia presso l’Università di SanMartín di Buenos Aires. Si occupa di storia del pensiero economico.

Comments

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Mattia Vacchiano
Wednesday, 28 November 2018 11:34
Mi pare un'ottima analisi. Aggiungo alle ultime righe che il dibattito sul "populismo di sinistra" (di Chantal Mouffe, per esempio) debba considerare anche i diversi fondamentali del sistema produttivo e sociale europeo. Le ricette economiche (e narrative) del Kirchnerismo non credo potrebbero mai prendere piede nell'orbita di Bruxelles.
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Matteo9
Tuesday, 27 November 2018 16:01
Per quanto ne so io l'analisi e' corretta e esaustiva e corrette sono anche le critiche al governo Kirchner e agli altri esecutivi diciamo cosi per intenderci del centro-sinistra in America Latina negli ultimi decenni.Il problema e' che per chi sta a sinistra,non importa se radicale o riformista,non si intravvedono alternative vista la situazione del Venezuela,Nicaragua,Ecuador e anche di Cuba (so di suscitare indignazione).Forse l'unica situazione accettabile e' in Bolivia,ma non credo che anche per la debolezza del paese sia trainante per altre prospettive progressiste o rivoluzionarie che siano.Ne',come indicato nel testo,ci sono al momento movimenti, al di fuori dei partiti, di una certa consistenza.
Vien da dire che la situazione in Latinamerica riflette quella europea,anzi,forse e' anche peggio
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