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Alle origini delle riforme economiche cinesi

Raffaele Danna intervista Isabella Weber

Isabella WeberIsabella Weber è Lecturer in Economics alla University of London, dove è anche Principal Investigator del progetto “What drives specialisation? A century of global export patterns”. Si occupa in particolare di politica economica cinese e storia del pensiero economico.

Questa intervista, a cura di Raffaele Danna, è nata in occasione di una presentazione di Isabella Weber al Research Network “The Politics of Economics”, organizzato, insieme ad altri, da Danna. Arianna Papalia ha contribuito alla formulazione delle domande e ha curato la traduzione italiana dell’intervista, qui la versione originale in lingua inglese. I temi affrontati in questo testo sono presentati in modo approfondito nel primo libro di Isabella Weber, in attesa di pubblicazione con Routledge.

* * * *

Qual è il ruolo della memoria della lunga storia cinese, così come dell’influenza occidentale, nella costruzione e nella narrazione della riforma cinese?

Isabella Weber: In realtà, non solo alla fine degli anni ‘70, ma ancora oggi, la lunga storia cinese è un tema ricorrente nei discorsi dei leader di Partito e degli intellettuali, soprattutto in un anno come il 2019 che celebra il settantesimo anniversario dalla fondazione della Repubblica Popolare Cinese. Ma anche al di là degli importanti anniversari politici, la storia è parte integrante del ragionamento politico cinese. Per esempio, durante il discorso che Xi Jinping ha tenuto alla sede UNESCO nel 2014, il presidente ha affermato: “Per ogni paese nel mondo, il passato porta con sé le chiavi del presente, e il presente affonda le sue radici nel passato. Soltanto sapendo da dove viene un paese è possibile capire quello che rappresenta oggi, e soltanto allora intuire verso quale direzione si dirige”. Fino ad oggi c’è stato un chiaro e costante riferimento a diversi aspetti e periodi della storia della Cina, anche per quanto riguarda le questioni di politica economica. Gli anni ‘70 furono un momento in cui gli intellettuali e i leader politici aprirono le loro menti al “mondo esterno” – come piaceva sostenere a Deng Xiaoping.

Questo non era soltanto uno slogan: le delegazioni cinesi iniziarono a viaggiare per il mondo e gli intellettuali ebbero l’opportunità di acquisire conoscenze dirette su ciò che stava succedendo al di fuori della Cina. La rivelazione più sconvolgente per molti fu scoprire quanto la Cina fosse economicamente e tecnologicamente “arretrata” rispetto al mondo capitalista. Quindi, se la rivoluzione non doveva solo porre le basi per la creazione di una società comunista, ma doveva anche liberare la Cina dall’imperialismo e dal feudalesimo, la nuova fase di riforme economiche doveva elevare a principi guida lo sviluppo materiale e l’uscita dalla povertà assoluta.

 

Quanto fu importante l’eredità della Rivoluzione Culturale nella creazione delle premesse per la successiva fase di riforma economica in Cina?

Isabella Weber: Tra le molte cose, la Rivoluzione Culturale rappresentò un attacco violento alle strutture burocratiche (uno degli slogan che riecheggiò duramente tra la generazione sessantottina dell’occidente fu “bombardate il quartier generale”). L’idea di un’economia gerarchica e pianificata a livello centrale fu messa sotto attacco. Allo stesso modo furono condannati i mercati come via per il capitalismo. Per molti versi, l’economia dalla quale si avviarono le riforme era molto vicina a una caotica economia pianificata in cui specifiche battaglie politiche avevano un ruolo determinante, piuttosto che ad un sistema pianificato e coordinato dalle autorità centrali. Il successore designato di Mao Zedong, Hua Guofeng, cominciò dal tentativo di ripristinare la struttura pianificata dell’economia promuovendo un nuovo slancio verso l’industrializzazione di tipo sovietico, che tuttavia fallì drammaticamente. In un esempio di ironia della storia, la Rivoluzione Culturale finì per rivelarsi fondamentale per il successivo periodo di riforme. La Rivoluzione Culturale distrusse in maniera violenta l’ordine sociale dominante. Molte delle persone che erano in una posizione di potere precedentemente, e anche molti intellettuali, furono epurati e spediti nei campi di rieducazione nelle campagne. Anche la gioventù urbana fu spedita nelle zone rurali per diversi anni. Quando quelle persone ritornarono nelle città e nei centri del potere dovettero affrontare il problema di come ricostruire la Cina. Nella loro ricerca di nuove strade da percorrere furono cruciali sia le esperienze traumatiche sia i network di relazioni che si erano formati durante la rivoluzione. Il caos della rivoluzione creò in un certo senso lo spazio comunicativo per discutere sul problema della riforma. Io non sono una storica russa, ma penso si possa dire che in Russia, che ebbe una continuità di strutture altamente burocratizzate, non si creò mai uno spazio simile prima di iniziare i tentativi di riforma.

 

La transizione dalla Rivoluzione Culturale alle riforme

In che quadro è avvenuta la transizione dalle politiche economiche della Rivoluzione Culturale alle riforme successive? Come è riuscita la Cina ad aprire il suo mercato mantenendo allo stesso tempo una struttura fortemente centralizzata?

Isabella Weber: Alla fine degli anni ‘70 la Cina era ancora un’economia largamente agricola e le comuni, istituzioni chiave dell’economia politica Maoista, erano ben salde nelle zone rurali. Il primo passo verso la riforma del sistema economico fu la riforma agricola. Essa iniziò dalle regioni più povere che producevano con tecniche semplici e riuscivano a stento a provvedere al loro fabbisogno interno. Dato il ruolo marginale di queste zone per l’agricoltura nazionale, fu possibile avviarvi delle sperimentazioni senza alcuna implicazione per l’approvvigionamento nazionale del grano. Il famoso Gruppo per lo Sviluppo Rurale giocò un ruolo fondamentale nella diffusione delle prime sperimentazioni. La riforma si basava sullo spostamento della responsabilità della produzione dalla comune alla singola famiglia, a partire da queste località più povere per poi allargarsi ai cosiddetti “Granai” della Cina.[1] Il Gruppo per lo Sviluppo Rurale era un gruppo che emerse da un movimento di giovani che entrò nell’università dopo gli anni passati nelle zone rurali alla fine degli anni ‘70. Questi giovani si identificavano con la questione contadina ed erano estremamente consapevoli delle condizioni delle campagne. Allo stesso tempo non facevano parte delle organizzazioni di ricerca già costituite. Con il supporto dei leader della prima generazione come Deng Liqun e Du Runsheng, il Gruppo organizzò studi in diversi campi della sperimentazione agricola con il fine di monitorare il loro successo. I loro report furono essenziali nello sviluppo delle nuove politiche agricole del sistema di responsabilità familiare che fu gradualmente diffuso dalle periferie del sistema fino al suo centro, vale a dire alle comuni e ai “Granai” della Cina. Questa logica di iniziare dalle aree dell’economia politica nazionale che non erano essenziali per il funzionamento dell’intero sistema mantenendo il controllo dei suoi elementi fondamentali sta sistematicamente alla base delle riforme della Cina. Un altro esempio è il fatto che il sistema dei prezzi a “doppio binario”, che emerse negli anni ‘80 come controllo politico sulle attività di produzione non essenziali, fu allentato gradualmente. I rapporti tra comando e ordine che stanno al cuore dell’economia pianificata erano assoggettati ai prezzi pianificati. Tuttavia, a margine del sistema, la produzione per la domanda di mercato a prezzo di mercato fu inizialmente tollerata e poi successivamente ufficialmente autorizzata. Le nuove disposizioni istituzionali e le dinamiche economiche che si crearono in seguito all’apertura di questo spazio finirono per trasformare il cuore del sistema stesso. In questo processo la ricerca economica fu fondamentale come forma di ispezione empirica e analisi concettuale che trasmise pratiche sperimentali di successo da spazi periferici alle istituzioni chiave. L’approccio sperimentalista entrò in competizione negli anni ’80 con un altro approccio più mercatista, vale a dire con il tentativo di definire un sistema di obiettivi che avesse il mercato come meccanismo centrale di coordinamento, da implementare o per gradi o in una sola mossa. Alla fine, l’approccio sperimentalista prevalse e continua ancora oggi ad influenzare il policy making economico della Cina.

 

C’era una dialettica tra i sostenitori delle riforme politiche e i sostenitori delle riforme economiche?

Isabella Weber: Senza andare troppo nel dettaglio di questa storia si può dire che in Cina, almeno dal 1979, c’era una discussione in atto che si interrogava se la riforma politica fosse una condizione preliminare o meno per quella economica e alcuni – così come era successo nell’Europa dell’Est – sostenevano che soltanto attraverso una completa apertura delle istituzioni si sarebbe potuta realizzare una riforma del sistema economico di successo. Ma come sappiamo, un cambiamento così radicale nel sistema politico non avvenne mai, mentre il sistema economico è stato tuttavia trasformato profondamente. Una spiegazione per questa particolare relazione tra riforma economica e politica potrebbe risiedere nell’esperienza della Rivoluzione Culturale. Allora l’approccio rivoluzionario si concentrò sul mettere la politica al comando, tentando di ottenere lo sviluppo economico attraverso mezzi politici. Il tipo di trasformazione politica concepita da coloro che parteggiavano per la riforma basata sul mercato era drasticamente differente dall’idea di rivoluzione continua adottata durante la Rivoluzione culturale. Ciononostante, la risposta alla Rivoluzione culturale fu l’adozione di una logica dominante che metteva al primo posto l’economia e lo sviluppo economico. Questo non si conciliava perfettamente con l’idea che il cambiamento politico dovesse precedere la riforma economica. Un’altra importante ragione per cui la riforma economica prevalse sulla riforma politica fu l’inaspettato successo economico dei primi anni della riforma agricola. Inoltre, dobbiamo ricordare che la prima generazione di rivoluzionari era ancora in carica durante i cruciali anni ‘80. Ma piuttosto che concentrarsi sulla predominanza della riforma economica, bisognerebbe piuttosto riconoscere che quest’ultima portò cambiamenti politici sostanziali. Nelle campagne il sistema di responsabilità familiare mise fine alle comuni, spina dorsale politica del Maoismo. Se inizialmente c’era un’economia industriale gestita a livello centrale basata su imprese di stato e imprese collettive, il numero crescente di imprese private e la graduale privatizzazione di molte imprese governative, così come la proletarizzazione dei lavoratori, cambiò profondamente la struttura politica della società.

 

Qual era il background delle persone che progettarono le riforme economiche alla fine degli anni ‘70?

Isabella Weber: Come mostro nel mio prossimo libro, c’era un gruppo eterogeneo di intellettuali che giocarono un ruolo fondamentale nella progettazione delle riforme economiche cinesi. Ma come dimostra l’esempio del Gruppo per lo Sviluppo Rurale e il loro ruolo nella riforma agricola, il principale contributo alla riforma economica non fu quello degli “economisti da poltrona” che pure avevano avuto grandi idee su come avrebbe dovuto essere il futuro dell’economia politica della Cina. Gli economisti giocarono, piuttosto, un ruolo fondamentale nella progettazione, nella supervisione e nell’interpretazione delle iniziative politiche che si stavano sviluppano a vari livelli mentre la leadership centrale apriva spazi per sperimentazioni che spesso includevano meccanismi di mercato. In questo contesto i giovani intellettuali che erano entrati nelle università dopo aver speso anni nelle campagne, e che spesso beneficiavano dalle connessioni con i vecchi saggi del partito o gli intellettuali più anziani, apportarono importanti contributi. Per esempio, un’istituzione che si sviluppò dal gruppo di riforma fu l’Istituto per le riforme del sistema economico con a capo Chen Yizi e Wang Xiaoqiang, avviato dal primo ministro Zhao Ziyang. In qualche modo loro applicarono l’approccio della riforma agricola alla questione della riforma industriale e del sistema industriale urbano, un approccio da diversi punti di vista molto più induttivo ed empirico di quello riformistico dell’Europa dell’Est – o almeno così dicevano in Cina gli economisti émigré come Ota Sik, Wlodimierz Brus o Janos Kornai. Gli europei dell’est tipicamente iniziarono con l’ideare un modello teorico di riferimento con una serie di target e tentando di sviluppare un pacchetto di riforme che avrebbero realizzato tali obiettivi. Mentre molti economisti cercavano il giusto modello di riferimento e il giusto pacchetto di riforme, l’approccio sperimentale emerse dalle riforme agricole in Cina. Questo approccio mirava ad allentare il controllo diretto nelle aree periferiche, ad analizzare cosa fosse successo in conseguenza all’alleggerimento del controllo, e ad analizzare in che modo fosse possibile estrarre una logica sistematica da tali esperimenti. Questa logica era poi applicata via via ai settori più importanti da riformare e alle istituzioni del sistema senza minacciare la stabilità dello stesso. Il sistema dei prezzi “a doppio binario” è un esempio eccellente perché incapsula questa logica. C’è un grande dibattito adesso in Cina riguardo a chi ha inventato il sistema dei prezzi a “doppio binario”. Io penso che si tratta di un sistema che fu inventato, ma che venne fuori dallo spazio dato ai burocrati locali e ai dirigenti delle imprese governative. Il ruolo della ricerca economica era quello di fornire tanto una panoramica su quali aree si sarebbero potute de-regolamentare, e quello di sistematizzare le pratiche sperimentali in modo da poterle convertire in policy. Non fu qualcosa che venne fuori dalla concettualizzazione di un idealtipo. Inoltre, questo avvenne in costante dialogo con la generazione rivoluzionaria precedente, che al contrario dei leader sovietici del 1980, aveva ancora un’esperienza diretta del mercato e del sistema capitalistico. Questa generazione più anziana aveva usato il mercato come strumento di battaglia economica durante la guerra civile e come strumento di riforma economica durante gli anni ‘40 e i primi anni ‘50. L’economia socialista venne infatti creata come un processo di uscita dal mercato, o di entrata nell’economia pianificata, in cui i meccanismi e le dinamiche dell’economia di mercato furono sfruttate per andare verso la pianificazione. Negli anni ‘80 la Cina ha vissuto una transizione verso l’economia di mercato usando pratiche di governance economica simili agli anni della lotta rivoluzionaria e ai primi anni della Repubblica popolare cinese, ma questa volta con il fine di muoversi verso il mercato. Queste pratiche erano profondamente radicate nella concezione cinese della regolazione dei prezzi e della creazione del mercato da parte dello stato.

 

Tra economia occidentale e via cinese allo sviluppo

Pensi che la lunga memoria storica e la consolidata cultura cinesi abbiano giocato un ruolo nel successo della riforma economica? Diresti, come molti suggeriscono, che il Confucianesimo ebbe una funzione nel processo di riforma?

Isabella Weber: Penso che le pratiche di riforma economica che emersero attraverso l’interazione tra la sperimentazione ai margini e le ricerche empiriche si siano in parte basate sulla riproposizione di pratiche pre-rivoluzionarie. In questo senso, le istituzioni governative e concezioni tradizionali furono importanti. Per quanto riguarda il più ampio dibattito sul revival del Confucianesimo in Cina, io penso che sia importante chiedersi perché un tale dibattito sia in corso proprio adesso. E io penso che ci siano ragioni profonde, nel senso che ci troviamo in un momento in cui i più di 200 anni di esclusivo dominio economico, politico e culturale occidentale che seguirono alla rivoluzione industriale stanno giungendo al termine, e gli effetti si vedono in molti campi. In Cina questo ha creato un nuovo senso di orgoglio dovuto al fatto che la Cina non è più un paese subordinato colonizzato ed arretrato. Questo pone la questione di cosa sia questa civiltà, quale sia la sua origine e come gestire le relazioni fra questa civiltà e l’Occidente. Io penso che questo sia l’ampio contesto storico da cui scaturisce la discussione sul ruolo del Confucianesimo. Queste discussioni sono poi usate in modo politico e prendono spesso la forma di propaganda, ma c’è anche un interesse genuino tra gli studiosi che tentano di trovare un senso all’eredità confuciana. Una questione differente è capire se è possibile analizzare il percorso della Cina, diciamo nel XX secolo, come risultato della tradizione confuciana. Ci sono molti dibattiti intorno a questa questione, ma io personalmente preferisco pensare che sarebbe assurdo non riconoscere la tradizione millenaria cinese dell’organizzazione statale, della burocrazia, della filosofia della matematica, dei lavori enciclopedici e così via, e che sarebbe ugualmente fuorviante vedere il XX secolo come una reazione alla tradizione.

 

Potresti darci un esempio del processo di mediazione tra le idee economiche occidentali e il socialismo cinese? Come si articolava l’idea di una possibile mediazione tra il socialismo e la graduale apertura del mercato? Come fu tradotto questo in politiche concrete?

Isabella Weber: Io penso che qui ci siano due domande. La prima riguarda il come le economie occidentali divennero rilevanti in Cina negli ultimi anni ’70, mentre la seconda concerne come le idee occidentali furono integrate nel discorso riformistico. Nel contesto della Cina socialista, perché preoccuparsi delle economie capitaliste e borghesi? In questo contesto fu decisiva l’idea di usare lo sviluppo capitalista come possibile fonte di lezioni. Questa decisione derivava dalla nozione ortodossa del Marxismo dello sviluppo economico attraverso fasi. Il fatto che la Cina era stata in grado di saltare la fase dello sviluppo capitalista, spostandosi da una società feudale dominata dalle potenze imperialistiche straniere direttamente al socialismo, significava che la Cina aveva la capacità di imparare dalle tecniche di gestione capitalista, usandole per progredire nella storia. Questa idea del prendere lezione dall’Occidente presenta diverse problematicità, ma fu sicuramente un elemento discorsivo importante alla fine degli anni ‘70 e agli inizi degli anni ‘80. Come risultato, la Cina iniziò ad esplorare ogni sorta di dottrina economica straniera, da Milton Friedman al Marxismo Occidentale.

La seconda questione riguarda i modi diversi in cui le economie occidentali furono usate dalla Cina. C’era un gruppo di studiosi che erano ispirati dagli émigré dell’Europa orientale, che ho menzionato prima, i quali vennero inviati in Cina dalla Banca Mondiale. Coloro che in Cina erano fortemente influenzati da questo tipo di teorie economiche consideravano l’economia di mercato come modello di riferimento. Così posero domande come: come possiamo stabilire dei prezzi di equilibrio in modo che, semplificando, una volta che abbiamo identificato tale equilibrio, possiamo lasciare al mercato fare il suo lavoro? Questo significava adottare in maniera non critica, e in un certo senso naïve, l’economia neoclassica occidentale. Dall’altra parte gli economisti che cercarono di contribuire alla riforma economica aiutando a progettare, analizzare e interpretare soluzioni sperimentali erano allo stesso modo estremamente interessati a tutte le forme delle economie occidentali e alle tecniche di ricerca delle scienze sociali. Ma loro vedevano queste più come strumenti affrontare problemi concreti e per risolvere le sfide poste dalle sperimentazioni economiche, piuttosto che come un paradigma che avrebbe fornito dei modelli di riferimento basati su una teoria astratta. Questi due gruppi di economisti intrapresero un dibattito serrato negli anni ‘80 non intorno all’opportunità o meno di lanciare una riforma economica della Cina, ma sul come lanciarla. Il primo gruppo propose un pacchetto di riforme che sarebbe stato simile a una terapia shock (“shock therapy”). Il secondo gruppo oppose fortemente tale riforma non graduale sostenendo che sarebbe stata una mossa pericolosa che avrebbe minato il successo del programma di riforma stesso.

Questa è una storia degli anni ‘80, ma credo che abbia ancora rilevanza oggi. Quando si dice che le riforme cinesi non sono state completate, si presume che queste siano incomplete rispetto ad un modello di riferimento, che tipicamente è basato sull’idealtipo del capitalismo occidentale. Invece, se consideriamo le riforme come un processo dinamico, aperto e continuo, possiamo capire che si tratta di un processo dotato di una direzione, ma che non può mai dirsi veramente completo. Per esempio, per quanto riguarda questioni come la riforma del settore finanziario, direi che questo confronto è ancora in corso, e lo stesso si può dire per la questione della riforma delle imprese di stato, dove il dibattito è se modellare le imprese di stato secondo il modello delle società capitaliste quotate nei mercati azionari privati oppure se si dovrebbe pensare a un nuovo tipo di impresa che si ispira ad alcune caratteristiche del modello capitalista delle multinazionali quotate, ma che evolve in maniera sperimentale verso un nuovo modello di impresa.

 

Diresti che la mediazione tra l’agenda neoliberale e il socialismo cinese si è rivelato un successo? Come e perché?

Isabella Weber: Come ho già accennato nella mia risposta precedente, la lotta per le riforme neoliberali non è ancora finita. Un aspetto importante della guerra commerciale fra Stati Uniti e Cina è forzare la Cina ad aprire settori della propria economia che finora sono stati protetti all’accesso straniero. Il continuo dibattito sul se la Cina sia o meno un’economia di mercato, basato sugli standard del WTO e dell’UE – che si potrebbero definire neoliberali – dimostra chiaramente che la governance economica cinese non si è completamente neoliberalizzata. Da questo punto di vista, la Cina presenta una sfida al sistema neoliberale prevalente della governance globale. D’altra parte, chiedersi se la Cina rappresenti un’alternativa socialista al modello prevalente è una questione completamente diversa. Mi colpisce che nonostante il termine socialismo stia sperimentando un certo ritorno in occidente, c’è poco consenso su cosa significhi socialismo nel XXI secolo, e ho paura che il sistema cinese attuale non colmi questo vuoto.

Dall’altra parte, non c’è dubbio sul fatto che la Cina sia stata capace di creare un insieme di istituzioni diverse da quelle del Washington Consensus che si sono rivelate superiori nel creare crescita economica. Da questo punto di vista, il paragone con la Russia è sorprendente. La Russia ha adottato le prescrizioni neoliberali della terapia shock. Secondo il database di Piketty, nel 2015 il 99% dei redditi inferiori pro capite russi era più basso rispetto al 1990 in dollari reali. A confronto, il 99% dei redditi inferiori pro capite cinesi è aumentato di più del quadruplo nello stesso periodo. Come ho affermato nel mio capitolo del SAGE Handbook of Neoliberalism (2018) la Cina ha completamente abbracciato la competizione di mercato con tutti i problemi sociali che comporta, inclusi alti livelli di ineguaglianza, ma ha allontanato la terapia shock come vorrebbe la forma pura di neoliberalizzazione. Riuscire a evitare la terapia shock è stato essenziale per il raggiungimento dei livelli di crescita che abbiamo visto degli ultimi decenni.


Note
[1] I granai della Cina o come riportato da Isabella Weber “Grain Chamber” erano quelle aree della Cina la cui produzione di grano era abbondante a tal punto da fornire surplus anche per altre aree della Cina.

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Paolo Selmi
Thursday, 20 June 2019 11:14
"La rivelazione più sconvolgente per molti fu scoprire quanto la Cina fosse economicamente e tecnologicamente “arretrata” rispetto al mondo capitalista."

Lo era anche rispetto al "mondo" socialista... Europa dell'Est e odiato ex-"fratello maggiore" (lao dage 老大哥) sovietico.

Il "Quindi" che segue, non è per nulla un "quindi", nemmeno in queste ricostruzioni ex-post.

Perché: "se la rivoluzione non doveva solo porre le basi per la creazione di una società comunista, ma doveva anche liberare la Cina dall’imperialismo e dal feudalesimo, la nuova fase di riforme economiche doveva elevare a principi guida lo sviluppo materiale e l’uscita dalla povertà assoluta",

In realtà la via maestra già c'era, non era quella di fare subito il comunismo come imposto da Mao dal 1958 (Da Yuejin 大躍進 o "grande balzo in avanti") ma ripartire da dove ci si era fermati, per l'appunto, vent'anni prima, e ricostruire l'economia secondo un modo socialistico di produzione che garantiva, con la necessaria gradualità e proporzionalità, ma con la dovuta spinta (vedasi ricostruzione URSS dopo il 1945), i cicli di riproduzione allargata necessari ad ampliare i fondi di consumo (individuali e sociali) e di accumulazione.

Sarebbero state "riforme" anche quelle, visto che la "Rivoluzione culturale" aveva fatto terra bruciata, come giustamente l'Autore sottolinea, delle istituzioni politiche ed economiche precedenti,(il "feudalesimo" e l' "imperialismo", in questa fase fine anni Settanta, li lascerei perdere...). Se qualcuno ha da obbiettare, con la dovuta onestà intellettuale, sull'efficacia di questo modo di produzione, la fase critica non è certo nella fase di ricostruzione di un'economia disastrata, ma MOLTO più avanti, quando il tessuto economico è ricostruito e occorre una maggior capacità di coordinamento di tutti i segmenti della produzione e dei servizi in funzione dei crescenti bisogni sociali, il che implica un necessario salto di qualità nell'elaborazione teorica economica di tecniche, meccanismi, principi generali alla base della pianificazione di un'economia socializzata. Ma non quando c'è da gestire problemi economici relativamente meno complessi.

Invece, è stata operata un'altra scelta. Più che legittima, ma non legata a una logica di NECESSITA' ("quindi", "se", "doveva").

Invece, l'Autore inserisce questa "necessità" in un passaggio logico "ad excludendum" ancor più infelice, perché - per l'appunto - esclude la possibilità di un'edificazione socialistica di un'economia nazionale.

Peraltro, lo schema del cinese che viaggia in occidente, scopre l'arretratezza relativa del proprio Paese, ritorna per cambiare, è un must estremo-orientale da almeno due secoli: "conosci il tuo nemico" lo inaugurarono i giapponesi (https://www.stephan-matthiesen.de/en/texts-blog/history/15-japanese-encounter-west.html) e, a ruota, tutti i popoli dell'Estremo Oriente. Con la differenza che, dopo la vittoria del Grande Ottobre, molti di loro si fermarono a metà strada, a Mosca per l'esattezza. E lo schema tradizionale si arricchi di molte varianti. La stessa facoltà di Mosca dove erano ospitati gli studenti era intitolata a Sun Yatsen.

Inoltre, nonostante la chiusura relativa (percepita, più che altro, visto che i viaggi di Zhou Enlai in Africa e, dieci anni più tardi, la formazione della "strana coppia" in chiave antisovietica con gli USA di Nixon) di un Paese quale poteva essere la Cina nel ventennio 1958-1978, gli occhi per vedere li avevano, a trecentosessanta gradi.

Cordialmente,
Paolo Selmi
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