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sinistra

Integraciòn o muerte! Venceremos?

L'America Latina nel suo labirinto

Daniele Benzi

II. L'ombra degli Stati Uniti [Qui la prima parte]

impe eagleGli ultimi due secoli dell’America Latina sono stati profondamente segnati dalla costante ingerenza politica, economica e militare degli Stati Uniti. La pretesa egemonica di escludere l’influenza di altri paesi e di mantenere salda la propria è un fatto facilmente constatabile e determinante per l’evoluzione storica della regione. La dottrina Monroe e quella del Destino Manifesto rappresentano in questo senso il nucleo fondante attraverso cui gli USA hanno elaborato, messo in pratica e costantemente aggiornato la propria politica emisferica. In base ad esse, hanno lavorato assiduamente per frenare ogni tentativo di unificazione politica ed integrazione economica a Sud del Rio Bravo che ne minacciasse, fosse anche minimamente, gli interessi.

La singolarità di questo rapporto di dominazione, ritratto metaforicamente dall’immagine in qualche modo familiare e per questo ambigua del «cortile di casa», sempre in tensione fra una persistente interferenza e una indifferenza in mala fede, si spiega plausibilmente alla luce della storia nazionale degli Stati Uniti, espansionista per necessità forse, sicuramente per vocazione, e della loro progressiva scalata al potere mondiale. Panamericanismo, «Big stick diplomacy» o «Politica di buon vicinato», così come la «Diplomazia del dollaro», sono stati strumenti ricorrenti della politica estera statunitense verso l’America Latina. Non sorprende, quindi, dal punto di vista delle élite governanti latinoamericane, che le relazioni internazionali con il vicino del Nord siano state improntate a un atteggiamento costantemente oscillante, a seconda del momento storico e/o blocco o leader al potere, tra l’acquiescenza e imitazione o la ricerca di autonomia.

D’altronde, è assolutamente evidente il legame profondo tra le politiche statunitensi di sicurezza nazionale ed emisferica, la proiezione militare e gli interessi economici e finanziari delle imprese nordamericane nella regione. Allo stesso modo, è nota l’estesa rete di vincoli e sodalizi manifesti ed occulti con élite e gruppi locali che spazia dalla sfera politica a quella militare senza esclusione, naturalmente, degli affari e della cultura. Questo insieme di fattori spiega perché la comparazione con il passato sia usata regolarmente per interpretare i cambiamenti, anche poco rilevanti e comunque raramente «storici» a dispetto del discorso ufficiale, nella posizione degli USA verso il resto del continente.

A proposito di «integrazione», nel progetto dell’Alca, in pentola già dalla fine degli anni ’80 e testato previamente in Messico dal 1994 con il Tlcan1, è assai facile scorgervi l’intenzione di consolidare la propria sfera di influenza tradizionale e migliorare nello stesso tempo la correlazione di forze rispetto all’Europa e al Giappone. Con una nuova retorica del libero commercio a fare da battistrada, la «neo-conversione» degli USA al regionalismo si può leggere come il momento culminante, finale, di una strategia intrapresa almeno tre decenni prima con l’inizio del neoliberismo in America Latina.

Osservando il dispositivo del debito e quello militare, però, affiora anche un’altra chiave di lettura dell’Alca, che associandola al Panamericanismo della fine del XIX secolo e inizi del XX rimanda ai tempi lunghi della storia regionale. Molti osservatori hanno in effetti parlato a questo proposito di «Neo-panamericanismo». Le analogie tra questo periodo e la strategia di indebitamento degli anni ’70, accompagnata alla copertura data alle dittature militari e poi alle politiche di libero commercio, sono notevoli. Tuttavia, non dovrebbe sfuggire una differenza essenziale. Mentre alla fine del XIX secolo e inizio del XX gli Stati Uniti erano una potenza in ascesa su tutti i fronti e gli Stati latinoamericani una collezione di repubblichette oligarchiche prostrate da lunghe guerre civili post-indipendenza, a partire dalla metà degli anni ’70 incomincia su scala mondiale il relativo declino egemonico statunitense, che ha trovato nella finanza e nella spesa militare gli strumenti per diluirne gli effetti. Nel frattempo, per quanto debole e territorialmente limitata sia stata l’industrializzazione dell’America Latina, e per quanto fragili e legate a interessi stranieri fossero le «borghesie nazionali», in questo lasso di tempo si sono comunque costituiti degli interessi autoctoni forti – specialmente nelle nazioni a maggiore sviluppo relativo (Brasile, Messico, Argentina o Cile per esempio) – che a volte si alleano ma altrettante entrano in tensione o persino conflitto con il capitale nordamericano e transnazionale.

Gli enormi costi sociali ed economici eredità del Consenso di Washington, qui come altrove per forza di cose associato agli Stati Uniti, hanno contribuito in maniera determinante, come si è detto, a trasformare la fisionomia politica del continente. Ad essi si sono aggiunti l’arroganza neocon e le fallimentari avventure mediorientali implicando, nella scarsa attenzione e parziale vuoto di potere che ne sono scaturiti, una battuta di arresto importante, ma non decisiva né tantomeno definitiva, per il progetto continentale statunitense.

La fugace luna di miele con la regione di Obama, che ha cercato di rieditare nella primavera del 2009 una sorta di politica di buon vicinato dal sapore roosveltiano, si è dissolta nel giro di qualche mese quando, per dirla con Carlos Romero, «la crudezza del potere non ha avuto bisogno di prendere lezioni dal Machiavelli per rivelarsi in Honduras», ricordando anche ai più ottimisti che gli «USA hanno un interesse nazionale che trascende le presunte buone intenzioni del presidente Obama»2.

Da allora, le relazioni con il Venezuela, l’Ecuador e la Bolivia non sono migliorate significativamente, anzi. Nel caso dell’Argentina e del Brasile vivono oggi il peggior momento da molto tempo. Quelle con Cuba, invece, che sino alla svolta dello scorso dicembre, ratificata di recente nel Summit di Panama, avevano fatto solo qualche passo in avanti, costituiscono potenzialmente un punto di rottura con implicazioni continentali le cui conseguenze è ancora prematuro cercare di sviscerare in profondità.

Ad ogni modo, anticipando qui le ipotesi di un analisi in preparazione, se da un lato la riapertura delle relazioni diplomatiche fra i due paesi e, in futuro forse, la fine dell’embargo, sembrerebbe più in ragione della impressionante abilità con cui la diplomazia dell’isola si è giovata della «svolta a sinistra» per essere riammessa nel sistema interamericano che non alla perizia di Obama, dall’altro, la mossa dell’inquilino della Casa Bianca, oltre che alla ricerca di un posto nella «storia» nella retta finale del secondo mandato, appare indubbiamente legata alle operazioni in corso nell’ambito della geopolitica mondiale, di cui l’America Latina, nell’ottica di un ordine multipolare stabilizzato in cui gli USA retrocederebbero, si fa per dire, al ruolo di primus inter pares, costituisce un tassello importante.

A dispetto dell'ottimismo con cui è stata celebrata la «vittoria» cubana ed il tentativo dell'ultima ora di una seconda luna di miele di Obama con la regione, secondo l’opinione di Jorge Beinstein questa sarebbe in realtà una manovra funzionale alle due direttrici verso cui sembrerebbe muoversi la strategia globale di Washington, la transatlantica e la transpacifica, per neutralizzare una integrazione euroasiatica lungo un asse Cina-Russia. Ciò implicherebbe, nel linguaggio dell'analista argentino, la «ricolonizzazione» della regione3.

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La nascita dell’Alba-Tcp, della Unasur e della Celac, d’altro canto, sebbene negli ultimi due casi non nel senso rivoluzionario che le attribuiscono alcuni osservatori di sinistra, rappresentano una chiara manifestazione dell’ambizione di molti governi, e non solo «progressisti», a una maggiore indipendenza e autonomia. Ragione più che sufficiente, quindi, per far scattare l’allarme a Washington.

Piaccia o no, con buona pace dell’attuale segretario di Stato John Kerry secondo cui la dottrina Monroe sarebbe «defunta», ancorché le preoccupazioni e priorità yankee siano in questo momento sicuramente altrove, l’America Latina «è sempre stata la regione chiave per l’egemonia mondiale degli Stati Uniti»4. La possibilità di «perderla» non è ancora contemplata dai piani strategici del Dipartimento di Stato. Anzi, nella misura in cui le campagne in Medio Oriente non hanno finora dato i frutti sperati, quando la crisi interna è sostanzialmente ferma e l’asse della economia mondiale si sposta sempre più velocemente verso il Sudest asiatico, di fronte agli appetiti ed interessi di altre potenze, fare pressione sulla propria «riserva strategica» potrebbe essere una tentazione in qualche modo «naturale», soprattutto in ragione dell’abbondanza di molte risorse nella regione, in particolare minerali e biodiversità, particolarmente ambite dal Pentagono e dall’industria ad alta tecnologia nordamericana in considerazione della crescente vulnerabilità e dipendenza dall’estero.

Per questo, verosimilmente, stiamo assistendo a una revisione del disegno emisferico previsto dall’Alca e corollari che, adesso, tiene conto del nuovo scenario internazionale, dell’apparizione di un potenziale aspirante all’egemonia nel Cono Sud disposto al dialogo ma al momento non allineato e delle molestie procurate all’immagine e agli interessi statunitensi da un «blocco» bolivariano guidato dal Venezuela attivissimo prima della malattia di Chávez e del crollo del prezzo del petrolio.

L’intervento politico diretto è visibilmente diminuito negli ultimi anni. Non così quello indiretto. In effetti, al contrario di chi osserva un «disinteresse» verso la regione, non sfugge a uno sguardo critico né la persistente pressione militare – la riattivazione della IV Flotta e il rafforzamento delle esercitazioni e degli accordi militari variamente mescolati alle operazioni di polizia di «lotta al narcotraffico» specialmente in Messico, Colombia Perù e America Centrale sono segnali piuttosto chiari –, né il ripristino di una diplomazia commerciale che vanta già, lungo la costa del Pacifico, una linea ininterrotta di Trattati di Libero Commercio dal Canada al Cile, con la sola eccezione dell’Ecuador.

Diventa così plausibile l’intenzione di voler creare una fascia di pressione e isolamento verso i paesi dell’Alba e di vigilare il corridoio centroamericano spingendosi fino al Sud della Patagonia, da un lato, con gli occhi (e i fucili) puntati sull’Amazzonia, soprattutto brasiliana, dall’altro. Il disgelo con Cuba rientrerebbe perfettamente in questa strategia. Le rotte del Pacifico e la definitiva conquista, lo sfruttamento capitalista in altre parole, del bacino amazzonico sembrerebbero in questo modo la posta in gioco di quella che, verosimilmente, specialmente se il Partito dei Lavoratori riuscisse a restare al potere, sarà la relazione più complicata del sistema interamericano dei prossimi decenni: quella fra Brasile e Stati Uniti.

A differenza del «neo-colosso» verde oro, la cui autonomia relativa è cresciuta in virtù anche di una diversificazione sostanziale delle relazioni economiche e commerciali, il Messico, un tempo ammirato in tutta la regione e il Terzo mondo per l’indipendenza della sua politica estera, forma oggi parte della giurisdizione e perimetro di sicurezza statunitense. La sua economia, invece, con il TLCAN, è sostanzialmente diventata un’appendice di quella nordamericana, includendo adesso, grazie alle recenti modifiche apportate alla costituzione del Paese, l’unica ricchezza rimasta al riparo degli appetiti statunitensi: le risorse naturali e, particolarmente, il petrolio. I flussi migratori poi, così come il traffico di stupefacenti e il riciclaggio dei narcodollari, lo rendono senza mezzi termini un problema interno degli USA. Per questo, difficilmente potrà ritagliarsi, ancorché le sue élite lo volessero realmente, uno spazio indipendente e meno lontano dall’America Latina in una nuova configurazione multipolare.

Con sensibili differenze e un’importanza geopolitica ed economica di gran lunga inferiore, la stessa sorte stanno correndo i paesi dell’istmo centroamericano e del bacino dei Caraibi, nei quali però è ancora in corso una partita per certi spazi di influenza giocata finora con il petrolio e i petrodollari bolivariani, ed alcune incursioni del Brasile che, dall’occupazione «umanitaria» di Haiti al porto cubano di Mariel, sta puntando sulla propria presenza nell’area al margine dell’intermediazione venezuelana. Il progetto di costruire in Nicaragua un canale interoceanico finanziato dalla Cina rimane ancora una incognita che, comunque, già svolge un ruolo importante nella geopolitica del «Gran Caribe». Di nuovo, oltre che per modificare l'immagine negativa assai diffusa sulle politiche repressive e di sicurezza anti-migratorie e anti-narcotraffico degli Stati Uniti, il recente cambio verso Cuba e il riavvicinamento alle nazioni centroamericane e dei Caraibi con allettanti proposte energetiche e di aiuti in funzione antivenezuelana, si inserisce puntualmente nel disegno globale accennato sopra.

Infine, sebbene gli USA non ne facciano formalmente parte, l’Alleanza del Pacifico sottoscritta da Messico, Colombia, Perù e Cile nel 2012 (Costarica e Panama sono, tra i paesi osservatori, gli unici che finora hanno richiesto la piena adesione, mentre l'Uruguay sembra sempre più interessato), è perfettamente in sintonia con il modello nordamericano di «regionalismo aperto». Gli elementi in comune tra i suoi membri sono infatti una sponda sul Pacifico e l’avere firmato un Trattato di Libero Commercio con gli Stati Uniti oltre che con altre nazioni. In questo senso, l’analista brasiliano José Luis Fiori (2014: 139-140) ha sostenuto fondatamente che «l’Alleanza del Pacifico ha un’importanza più strategica e ideologica che economica […] e sarebbe politicamente quasi insignificante se non fosse per il fatto che si tratta di un tassello della grande strategia statunitense per la creazione della Trans-Pacific Partnership (Tpp), strumento fondamentale della politica di riaffermazione del potere economico e militare di Washington nella regione del Pacifico»5.

(continua...)

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Note
1 Trattato di Libero Commercio dell’America del Nord (NAFTA nell’acronimo in inglese).
2 Romero C., “Las secuelas regionales de la crisis en Honduras”, «Nueva Sociedad» n. 226, Marzo-Abril de 2010, pp. 85-99.
3 Beinstein, J., “América Latina en la dinámica de la guerra global”, disponibile su http://www.rebelion.org/noticia.php?id=196633 (consultato il 13/04/2015)  
4 Zibechi R., Brasil Potencia Entre la integración regional y un nuevo imperialismo, Ediciones Desde Abajo, Bogotá, 2012, p. 8.
5 Fiori J.L., “Alla pacifica conquista del Pacifico”, «Limes» n. 6 giugno 2014, p. 139-140.

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