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La svolta di Draghi è comunque inutile (quindi dannosa)

di Alberto Bagnai

“La svolta di Draghi”… Come “La scelta di Sophie”… Il solito fottuto genitivo soggettivo, quello che nei titoli si porta molto (ricordate “Le obiezioni del piddino”?)Vi offro un lungo post della lunga, lunghissima serie intitolata “ma dde che ssamo a parla’?”

cnt5Ho in comune con il prof. Santarelli il fatto di avere un percorso accademico piuttosto variegato. Come lui ha preso il PhD in Anatomia finanziaria comparata ai Bagni Luigi 93 di Cattolica, così io ho preso un master in Pragmatismo concettuale al Dopolavoro Ferroviario di Roma. Ricordo con affetto tutti i miei insegnanti. Questa storia della svolta di Draghi mi ha fatto tornare in mente Giuliano. Quale fosse il suo lavoro non l’ho mai capito troppo bene: agente assicurativo? Rappresentante? Intermediario? Chissà. Certo che però lui ogni mattina era lì, sul pontile. Di lavori di intermediazione che lasciano le mattinate libere, ecco, ora, a posteriori, me ne viene in mente uno solo, e devo dire che lui il physique du rôle, per quel mestiere, ce l’aveva. Parlo nella quasi certezza che non mi legga, perché allora, trent’anni or sono, aveva passato la cinquantina, tanto che io, in un accesso di classicismo, solevo chiamarlo Giuliano l’aprostata, confondendo ad arte l’apostasia con l’adenoma (che poi son due cose che iniziano entrambe per “a”, come apolitico, apartitico e anfame – per chi se lo ricorda…).

Insomma, un bel giorno Giuliano arriva tutto in tiro (visita a un cliente?), e il commento mi affiorò spontaneo alle labbra: “Ammazza Giulia’, quanto sei fico oggi! Hai svortato?”. Rispose scanzonato, da vero romanaccio: “Sì, ma ho pure ‘nfrociato!” (Per i non romani: “svorta’” significa dare una svolta in senso positivo a una situazione – ad esempio economica – ma anche cambiare direzione con l’automobile; “infrociare” significa andare a sbattere – con l’automobile. La risposta di Giuliano giocava sull’ambiguità della “svorta”).

E così, mi dite, anche Draghi ha svortato. Eh, sì, che lui abbia svortato è cosa nota. E a infrociare siamo stati noi. Cerchiamo di capire perché l’ultima “svorta” non merita nemmeno che se ne parli, e perché i suoi effetti dureranno l’espace d’un matin.

Il discorso si divide in due: il lungo periodo, e il breve periodo. Nel lungo periodo c’è da confutare il luogo comune che l’euro diventerebbe sostenibile con una bcesimileallafed (per i nuovi arrivati: in questo blog i mantra luogocomunisti vengono scritti tutti attaccati). Un compito estremamente semplice perché i motivi per i quali questa è una lieve imprecisione sono già stati dettagliati da noi (e non da altri, temo: questo credo sia uno dei miei pochi contributi originali al dibattito, ma se mi smentite sono contento) in Crisi finanziaria egoverno dell’economia (par. 6) e in Le aporie del più Europa (contenuto nell’ebook Oltre l’austerità, che dovreste leggere, mentre dai vostri commenti vedo che non lo avete fatto, facendomi fare una figura marrone con Sergio Cesaratto al raduno degli etilisti romani). Nel breve periodo c’è da capire quale sia il significato di queste manovre palliative. Argomenterò che esse sono sostanzialmente isomorfe (cioè so’ la stessa robba) a quelle con le quali altri governatori in altri tempi difesero non la moneta unica, ma la lira. Manovre, insomma, che servono a dare ai soliti noti il tempo di farsi con relativo comodo i fatti loro, naturalmente a spese nostre. Come si possa da certe parti della sinistra salutare una roba del genere con ottimismo (cauto, moderato, o esplicito) rimane per me un assoluto e totale mistero. Per illustrare questa ipotesi ci riferiremo alla meccanica della crisi del 1992, che pur con le evidenti differenze rispetto alla situazione attuale rimane l’esempio più calzante ai nostri scopi didattici (per motivi che ho illustrato nel mio ultimo lavoro Unhappy families are all alike).


Bcesimileallafed: il lungo periodo

L’idea che una Bce sufficientemente disposta a stampare moneta (vuoi per rifinanziare le banche, vuoi per acquistare i titoli del debito pubblico dei paesi in maggior difficoltà) possa in qualche modo rendere l’euro sostenibile nel medio-lungo periodo è un’idea assolutamente balzana che non tiene conto né della natura economica degli squilibri che stiamo vivendo, né della loro dimensione politica.

Circa la natura economica, abbiamo più volte ricordato come l’evidenza empirica da un lato , e le spiegazioni teoriche più coerenti dall’altro (il meccanismo del ciclo di Frenkel, che ho spiegato a Cesena e in Oltre l’austerità), vedano nei differenziali di inflazione fra i paesi dell’Eurozona (EZ) uno degli snodi cruciali del meccanismo che conduce all’accumulazione esplosiva di debito privato verso l’estero e quindi alla crisi. La crisi non inizia da questi differenziali (chi è interessato si guardi il video di Cesena), ma si alimenta grazie alla loro persistenza, che determina un progressivo deterioramento della competitività nei paesi periferici (dove i prezzi crescono più in fretta e i cui beni diventano quindi progressivamente meno appetibili).

Ora, il fatto è che “moneta unica” non vuol dire “inflazione unica”: ci sono molti fondati dubbi sul fatto che sia solo la moneta a determinare l’inflazione, e unire più economie diverse sotto la stessa moneta non ha mai portato a una uniformità dei tassi di inflazione. Le evidenze di cui disponiamo suggeriscono che la dinamica dell’inflazione è influenzata in gran parte dalle condizioni e dal funzionamento del mercato del lavoro (come abbiamo spiegato qui). Che moneta unica non voglia dire inflazione unica è dimostrato dal fatto che in Italia, dopo 150 anni di moneta unica (ci siamo? Leggete le mie labbra: c-e-n-t-o-c-i-n-q-u-a-n-t-a) non si è ancora avuta perfetta convergenza dei prezzi, come ci documenta con dovizia di dettagli uno studio della Bancad’Italia e come sa chiunque come me viva in una città e lavori in un’altra (secondo voi faccio la spesa a Roma o a Pescara?). Questo non stupisce se pensiamo alle differenze strutturali esistenti fra Nord e Sud (ma anche, come nel mio caso, fra Ovest ed Est). Differenze che la politica monetaria da sola non solo non colma in modo definitivo, ma nemmeno, direi, in modo temporaneo.

Per avere un’idea di quello che voglio dire, cioè del fatto che una politica monetaria centralizzata non può fare molto (in realtà non può praticamente fare nulla) per risolvere gli squilibri territoriali presenti in un’area (nazione, come nel caso della lira, o continente, come nel caso dell’euro), basta un semplice esempio, che abbiamo già fatto. È sufficiente osservare il grafico del tasso di interesse reale italiano (che esprime l’atteggiamento della politica monetaria condotta in modo centralizzato dalla Banca d’Italia), e del deficit delle partite correnti del Sud Italia verso il resto del mondo (di cui, evidentemente, magna parsè il deficit verso il Nord Italia). Lo abbiamo analizzato in questo post e ve lo ripropongo qui:
 

Vedete? Il tasso di interesse reale va su (politica monetaria restrittiva: il denaro costa di più) e giù (politica monetaria espansiva: il denaro costa di meno, che è quello che chiediamo oggi a Draghi), ma il deficit rimane lì, granitico, fra i 15 e i 20 punti di Pil.

Una Bcesimileallafed non potrebbe fare per gli squilibri regionali europei molto di più di quanto una Bancaditaliasimileallabancaditalia abbia fatto per gli squilibri italiani: zero carbonella, signori, questo dicono i dati! Se non lo vedete cambiate occhiali, se non lo capite leggete bene i post linkati, ma le cose stanno così e basta. Chi dice il contrario deve argomentare molto ma molto bene, se non vuole fare la figura del patetico incompetente. Arrogante? Può darsi. Dimostratemelo voi, che siete umili!

Ma attenzione!

Non sto dicendo che nel breve periodo un’espansione monetaria centralizzata non aiuterebbe. Certo, potrebbe farlo. Ma nel lungo no: i differenziali di inflazione fra regioni rimarrebbero, e anzi potrebbero risultare amplificati dalla presenza di una maggiore liquidità nel sistema, laddove questa liquidità venisse convogliata verso i paesi periferici. Del resto, che la crisi si sia alimentata così ce lo dicono anche gli autori di più stretta omodossia.

Ma oltre a questo, le proposte di Bcesimileallafed ignorano il dato politico del problema, che è estremamente semplice: come ormai è chiaro a tutti e confessato apertamente daisuoi artefici, la costruzione europea ha avuto se non lo scopo, almeno il risultato di avvantaggiare alcuni paesi (in particolare la Germania) a danno di altri, consentendo ai primi di lucrare grossissimi avanzi commerciali e quindi di acquisire una posizione creditoria a spese dei secondi. La periferia si è indebitata col centro per comprare i beni del centro. Ora, si dà l’amaro caso che ai paesi che hanno incamerato questi benefici, in termini di crediti nei riguardi dei paesi periferici, non vada minimamente di contribuire alla soluzione degli squilibri. Non solo: ora che i loro crediti sono diventati inesigibili per il fallimento dei debitori privati e pubblici (in Grecia) del Sud, i paesi del Nord non vogliono accollarsi una parte delle perdite, come è sufficientemente evidente (e anche comprensibile, dal loro punto di vista), ma anzi insistono opponendosi con una serie di “Nein” a tutte le ipotesi di “socializzazione” o “mutualizzazione” di queste perdite. La Bcesimileallafed è una di queste ipotesi. Pensateci. In questo momento probabilmente no, ma in termini generali si può argomentare (e comunque gli economisti del Nord argomentano) che una Bce che fosse sempre accomodante rispetto al debito pubblico dei paesi membri, acquistandolo ogni volta che ci sono problemi, potrebbe (secondo loro) portare a un tasso di inflazione più elevato nell’EZ. Ora, come voi credo sappiate o capiate, l’inflazione ha effetti redistributivi dai creditori ai debitori, per il semplice fatto che se prendi in prestito 10 quando i prezzi sono a 1, e restituisci 10 quando i prezzi sono a 2, di fatto hai preso in prestito 10/1=10 di potere d’acquisto, ma devi restituire solo 10/2=5 di potere d’acquisto. L’inflazione, cioè, erode quello che gli economisti chiamano il “valore reale” del debito. Certo, ci sono i tassi di interesse, ma se l’inflazione è imprevista (ad esempio perché consegue a un cambiamento di struttura della politica monetaria che non prevedibile, come quello che sarebbe rappresentato da una fantomatica Bcesimileallafed) il tasso di interesse non può incorporarla, e quindi si rimane col fatto che il creditore ha corrisposto moneta “buona” (che compra un certo ammontare di beni) e si vede restituire in ammontare di moneta “cattiva” (perché compra un minore ammontare di beni, visto che i prezzi sono cresciuti). Questo è il problema.

Chi dice che i tedeschi sono contrari all’inflazione perché l’iperinflazione di Weimar ha portato al nazismo non sa né l’economia né la storia. La culla del nazismo è l’esplosione della disoccupazione dovuta alle politiche deflazionistiche messe in opera all’inizio degli anni ’30, quando l’esperienza di Weimar si era conclusa da un pezzo (e come dice er Bufalo, si ‘o volete da vede cliccate qua).

Ricapitolando: la Bcesimileallafed non risolverebbe nulla nel lungo periodo perché:
 
1)      moneta unica non significa inflazione unica e quindi una politica monetaria centralizzata quale che sia non influisce sugli squilibri regionali, per cui il meccanismo che ha condotto alla crisi rimarrebbe inalterato, e:

2)      i tedeschi sono contrari all’inflazione perché sono creditori del resto d’Europa, e come ogni creditore preferiscono essere rimborsati in moneta “buona” anziché “cattiva”, il che li porta ad avversare qualsiasi cambiamento istituzionale che possa portare (secondo loro) a un incremento generalizzato dell’inflazione in Europa (pur senza colmare i differenziali da paese a paese), semplicemente perché questo corrisponderebbe a quella socializzazione delle perdite della quale chi ha privatizzato i profitti non vuole sentir parlare.

Ci siete?

Bene: se ci siete, siete un bel pezzo avanti alla maggior parte dei miei colleghi. Capito mi avete, no? E allora facciamo un pezzettino di strada in più.


Entracte: la crisi del 1992

Il meccanismo della crisi del 1992 l’ho spiegato nel post in cui sbugiardavo alcunidisinformatori di regime. Lo ricapitolo qui per voi.
 
 
1)      Nel 1992 l’Italia aderiva allo Sme (Sistema monetario europeo) nel quale era entrata nel 1979.

2)      L’adesione comportava il mantenimento del cambio della lira entro una banda di oscillazione attorno a una parità centrale definita in termini di ECU (una valuta scritturale il cui valore era dato da una media ponderata delle quotazioni delle valute appartenenti agli accordi di cambio): lo Sme era quindi un sistema di cambi fissi (attorno alla parità “centrale”), ma aggiustabili (le parità centrali potevano essere ridefinite in caso di squilibri fondamentali che le rendessero insostenibili per un paese).

3)      Il cambio “fisso” non è tale per legge di natura, ma perché quotidianamente la Banca centrale interviene colmando l’eccesso di offerta o di domanda di valuta nazionale e quindi portando in equilibrio il mercato valutario al “prezzo” stabilito, cioè al tasso di cambio di riferimento (la parità centrale, appunto).

4)      Normalmente la valuta di un paese viene chiesta da operatori esteri in due circostanze:
a.       per acquistare i beni prodotti in quel paese (esportazioni di merci e servizi dal paese);
b.      per acquistare titoli emessi nel paese (importazioni di capitali nel paese).
Quest’ultima cosa va capita, e capita bene. Il tedesco che acquista un Cct di fatto offre marchi per acquistare lire, con le quali acquista il titolo. In Italia entra valuta (che bello!), ma l’Italia ha un debito con la Germania (che bello?). Certo però che in entrambi i casi abbiamo una domanda di valuta nazionale che sostiene il cambio della lira. Il cambio, quindi, può essere sostenuto vendendo merci all’estero o indebitandosi con l’estero. Capitelo bene, per favore. Capitelo. È tutto qui. Se questo non è chiaro, chiedete. Ma se non capite questo, non avete strumenti per leggere il mondo.

5)      E quando viene offerta la valuta nazionale? Dai, che ce la fate… Evidentemente nei casi uguali e contrari, cioè:
a.       per acquistare beni prodotti all’esterno del paese (importazioni di merci e servizi: per acquistare un barile di petrolio l’italiano offre lire, acquista dollari, e con questi il petrolio);
b.      per acquistare titoli emessi all’estero (esportazioni di capitali). Per acquistare un Tbill americano un italiano offre lire in cambio di dollari, e con i dollari acquista il titolo americano. Dall’Italia escono lire (che brutto!) ma l’Italia acquisisce un credito verso gli Stati Uniti (che bello!).
Il cambio quindi viene depresso dalle importazioni di beni o contraendo crediti verso l’estero (fuga o esportazione di capitali).

6)      Apro e chiudo una parentesi per quelli particolarmente “de coccio” (detto affettuosamente e con la consapevolezza di aver impiegato molto tempo anch’io a capire: ma nessuno me l’aveva mai spiegato come io lo sto spiegando a voi!): ovviamente queste operazioni sono mediate dal sistema bancario e molto spesso l’utente finale (voi) non partecipa direttamente a tutte le fase. Esempio: se acquistate una quota di un fondo comune di investimento che nella sua composizione ha anche dei titoli americani, non siete certo voi che andate all’ufficio cambi a comprare i dollari ecc. ecc. Lo so: voi siete il centro del vostro mondo. Ma la maggior parte di voi, come me, non conta niente. Io sto facendo un ragionamento macroeconomico e aggregato. Se non riuscite a capire che quello che succede a un paese è la somma di quello che succede a chi ci vive… allora avete già perso!

7)      Come in qualsiasi mercato, se l’offerta eccede la domanda, il prezzo scende. Quindi sul mercato valutario il cambio tenderà a deprezzarsi se:
a.       le importazioni di beni superano le esportazioni di beni (deficit commerciale);
b.      le esportazioni di capitali superano le importazioni di capitali (deficit del conto finanziario della bilancia dei pagamenti).
Il cambio tenderà invece ad apprezzarsi se:
a.       le esportazioni di beni superano le importazioni di beni (surplus commerciale);
b.      le importazioni di capitali superano le esportazioni di capitali (surplus del conto finanziario).

8)      Conseguenza: se un paese per un qualsiasi motivo comincia a trovarsi in deficit commerciale (ad esempio perché è penalizzato dalla rigidità del cambio), cercherà di compensare questo deficit con un surplus del conto finanziario della bilancia dei pagamenti, cioè tenterà di aumentare le importazioni (e limitare le esportazioni) di capitali. Come si fa a importare più capitali? Semplice: si offre un tasso di interesse più alto. Questo è il motivo per il quale l’adesione allo Sme, insieme al divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia, ha portato a un incremento dei tassi di interesse italiani a partire dagli anni ’80. Mi riferisco, naturalmente, ai tassi reali, cioè depurati dall’inflazione (vedi la spezzata rossa nel grafico precedente).

9)      Ma se un paese importa capitali (a qualsiasi titolo) poi deve anche pagarli (in termini di interessi corrisposti all’estero). Anche se c’è qualche sconclusionato dilettante che in rete dice il contrario, non ci sono free lunch nemmeno nel mercato dei capitali. Così, se si importano molti capitali (cioè se si contraggono molti debiti) al deficit commerciale si aggiunge un ulteriore flusso di valuta in uscita dal paese. Questo è un esempio di quello che chiamiamo uno squilibrio “fondamentale”. L’Italia si è trovata in questa situazione nel 1992, e ci si trova oggi, come ho spiegato su lavoce.info.

10)  Attenzione: la Banca centrale per difendere il cambio ha due opzioni:
a.       di una vi ho parlato: aumenta i tassi di interesse. Ottimo, arrivano i capitali (nel breve periodo), così possiamo finanziare i nostri acquisti di importazioni. Ma, dopo un po’… pessimo! Devi corrispondere gli interessi, quindi… Oooooops! La situazione è peggiorata…. l’offerta di valuta nazionale aumenta… occorrono dollari (o marchi, o yen) non solo per acquistare le merci, ma anche per ripagare gli interessi sui debiti contratti con l’estero. Mannaggia! E chi se lo aspettava! Certo non gli sconclusionati dilettanti che rinnegano la contabilità nazionale…
b.      Bene: allora la Banca centrale, sempre nel nobile e disinteressato scopo di “difendere” il cambio, compra lei la valuta nazionale in eccesso di offerta. E come fa? Semplice: utilizza le proprie riserve in valuta estera. Se c’è un’offerta eccessiva di lire, la Banca d’Italia usa i propri dollari, o marchi, o qual che è, per ritirare le lire in eccesso dal mercato valutario. Chiaro, no? Qual è l’unico problema? Non lo vedete? Proprio non lo vedete? Ma è semplice: la Banca d’Italia può stampare solo lire, non marchi (o dollari)! Quindi le “munizioni” per difendere il cambio dopo un po’ finiscono.

11)  I mercati vedono benissimo se un paese ha un mercato valutario equilibrato o se ha squilibri fondamentali: semplicemente, nel caso di squilibri, noteranno che:
a.       la bilancia commerciale è in deficit persistente (e anche il saldo reddito è negativo perché vengono pagati molti interessi all’estero), e:
b.      il cambio manifesta un tendenza al ribasso (nel caso dello Sme, tenderà a essere sempre un po’ al disotto della parità centrale).
Se il cambio fosse libero di fluttuare, non ci sarebbero grandi problemi: semplicemente, il cambio scenderebbe, i beni nazionali diventerebbero più convenienti, esporteremmo più merci e importeremmo meno capitali (che comunque rimborseremmo in valuta svalutata). In questo modo verrebbe conseguito un nuovo equilibrio, e non ci sarebbero margini per un attacco speculativo.

12)  Se questo non è chiaro, guardate cosa succede se i cambi sono fissi ma aggiustabili: in presenza di squilibri fondamentali, la Banca centrale mantiene il cambio acquistando valuta nazionale in cambio di valuta estera. Questo scatena un meccanismo esplosivo. Quando gli speculatori vedono che la Banca centrale sta esaurendo le riserve, scatenano un attacco al ribasso vendendo lire: la Banca centrale è costretta a “difendersi” vendendo (in ipotesi) marchi. Gli speculatori riescono così a imbottirsi di marchi e continuano a chiederne, continuando a vendere lire, naturalmente sempre al cambio fisso. Di fatto, la Banca centrale, difendendo il cambio, garantisce agli speculatori di poter comprare marchi relativamente a un prezzo calmierato. In altre parole, lo scopo di questa pantomima è semplicemente quello di ostacolare il funzionamento della legge della domanda e dell’offerta: ostacolo posto, stranamente, da istituzioni come le banche centrali, tutte liberismo e distintivo! Quando le riserve finiscono, la Banca centrale è costretta a svalutare, il che significa (Goofynomics) che il prezzo della lira scende, ma quello del marco sale! Gli speculatori possono ora rientrare sulla lira, lucrando l’incremento di prezzo del marco.

13)  Intermezzo: un esempio concreto. Nel periodo luglio/agosto 1992 il cambio lira/marco si situava attorno a 760 lire per marco. Gli speculatori vendevano lire, ma il cambio veniva difeso. A settembre salì in una volta sola a 809 lire (quindi la lira si era svalutata del 6.5% in un mese) e a quel punto gli speculatori cominciarono piano piano a rientrare.

14)  Capito? Supponiamo che il tasso di cambio fosse stato libero di fluttuare. In questo caso la svalutazione sarebbe stata progressiva e impercettibile (sarebbe iniziata del resto molto prima) e gli speculatori non avrebbero potuto lucrare su un singolo evento one shot di svalutazione. Immaginate un attacco ribassista in caso di fluttuazione del cambio: tu offri lire per chiedere marchi… ma dall’altra parte non trovi un governatore della Banca d’Italia che ti offre marchi a prezzo calmierato (come sarebbe costretto a fare se dovesse difendere il cambio): semplicemente, il prezzo del marco sale (cioè la lira si svaluta), e quindi alla fine a te non conviene più attaccare per due motivi: primo, perché imbottirti di marchi ti costa sempre di più (mentre se il cambio è fisso il marco rimane a buon mercato); secondo, perché lasciando fluttuare il cambio la Banca centrale non è costretta a spendere le proprie riserve, quindi non c’è un limite fisico preciso che indichi un punto di rottura oltre il quale si avrà una svalutazione massiccia che ti permette di ottenere un guadagno: anzi: una svalutazione massiccia proprio non ci sarà, semplicemente perché la svalutazione avviene progressivamente, nel day by day, proprio per effetto dello stesso attacco. Che quindi, ça va sans dire, non viene nemmeno tentato (perché sarebbe inutile)!

15)  Nota bene: va da sé che la svalutazione non ha solo benefici ma anche costi (molto sovrastimati dai media, d’accordo, ma ce li ha) e che gli squilibri fondamentali è meglio correggerli. Ma qui non stiamo parlando di questo: stiamo parlando di come evitare che con ottime (!) motivazioni le Banche centrali giochino una pantomima che permette agli speculatori di fare un pacco di soldi nel giro di pochi giorni.

16)  Sintesi: il meccanismo dei cambi fissi ma aggiustabili fomenta la svalutazione destabilizzante; quello dei cambi flessibili la scoraggia. Se non è chiaro, rileggete. Se non è chiaro, rileggete. Se non è chiaro, rileggete. Se ancora non è chiaro, chiedete. Astenersi pigri: a quelli ci pensano Mario&Mario.


Analogie

Se avete letto e capito quanto precede, credo che siate pronti ad applicare le lezioni della storia al presente. Sta succedendo, a grandi linee, la stessa cosa che è successa nel 1992. Esattamente come nel 1992, l’Italia, penalizzata dalla rigidità del cambio, ha visto deteriorarsi il proprio saldo commerciale, ha cominciato a importare capitali dall’estero, e ha cominciato a indebitarsi con l’estero per pagare gli interessi sul debito estero. Esattamente come nel 1992, e come ho spiegato nel 2011 su lavoce.info, questo è il segnale che gli speculatori attendevano: un paese ingabbiato nella spirale del debito (mi indebito per pagare gli interessi sul debito) è particolarmente fragile. Si è così scatenato un attacco speculativo che si è manifestato non con la vendita di lire (che non ci sono più) ma di altre attività emesse dallo Stato italiano: i titoli di Stato. Il meccanismo però è molto simile. Nel 1992 si vendevano lire acquistando marchi per lucrare la differenza di cambio che si sarebbe manifestata dopo l’inevitabile riallineamento. Nel 2012 si vendono titoli italiani per motivi analoghi: la pressione, in questo caso, non è sul mercato valutario (che non c’è più), ma sul mercato finanziario: sale lo spread e crollano le quotazioni azionarie delle aziende italiane, il che consente di acquisirle a buon mercato (come abbiamo spiegato qui). Dato che il rendimento di una buona azienda è superiore a quello di un titolo di Stato, si capisce dove sia la convenienza. Ma questa è solo una delle possibili strategie. L’attacco al ribasso sui titoli italiani mette in evidente difficoltà il paese (ve ne sarete accorti!), e quindi concorre (come nel caso del 1992) a rendere probabile una uscita (nel 1992 dagli accordi di cambio, e oggi dall’euro) con successiva svalutazione. E in questo caso a chi ha venduto i titoli italiani andrebbe ancora meglio: se ha investito gli euro ricavati in attività finanziarie emesse da paesi del Nord potrebbe lucrare la differenza di cambio, esattamente come nel 1992. Le due strategie (attacco finalizzato a una svendita del patrimonio italiano, attacco finalizzato a indurre una uscita/svalutazione) non sono particolarmente incompatibili. In fondo, pensateci: se un’azienda tedesca acquisisce il controllo di un’azienda italiana (a buon mercato perché le quotazioni sono cadute, o anche semplicemente perché la situazione di crisi la rende momentaneamente poco profittevole, e in assenza di difese da parte dello Stato la proprietà italiana preferisce svendere), e poi l’Italia esce e svaluta, il proprietario tedesco (o francese, o olandese, o…) ovviamente beneficia del rilancio della domanda estera e quindi interna che la svalutazione determina.

Attacco, poi… Ognuno fa il suo lavoro. Non ci sono “speculatoricattivi”. Ci sono però governi che non sempre, magari in ottima fede, fanno gli interessi del proprio paese…

E non vi sfugga l’altra, inquietante, analogia: come nel 1992, così nel 2012 il governatore interviene “a difesa”. Nel 1992 quello della Banca d’Italia, e oggi quello della Bce. Difesa di chi, di cosa? Nel 1992 era la difesa della stabilità del cambio, che in realtà difendeva gli interessi dei soliti noti, quelli che, sapendo benissimo che tanto si sarebbe svalutato, volevano garantirsi il diritto di acquistare marchi a “prezzo politico” anziché al prezzo di mercato ancora per un po’. Nel 2012 è la difesa dell’euro, che in realtà è (nell’immediato) difesa degli interessi dei soliti noti, quelli che avendo contratto crediti con i paesi della periferia, cercano di rientrare facendosi pagare in valuta “buona”, prima che l’inevitabile uscita con connessa svalutazione determini unhaircut del loro credito. Non vi sto poi a dire chi abbia, nel medio/lungo periodo, tratto vantaggi dall’euro. Basta vedere come l’ha presa Juncker, o quello che dice Giacché. Ma queste sono per lo più considerazioni di medio periodo, e ora siamo nel breve.

Che senso ha chiedere ora alla sinistra di farsi promotrice di controlli sui movimenti di capitale?
 Ovviamente questi controlli saranno parte della soluzione, ed ovviamente a monte di essi vi sarà, come vi fu in Argentina, come vi è sempre stata in congiunture analoghe, una decisione politica, senza la quale l’economista, come ci spiegava Roberto Frenkel, non può dir nulla e non ha nulla da dire. Ma una vera sinistra, diciamocelo, sarebbe dovuta intervenire prima, prima che i capitali li mettessero al sicuro i soliti noti. Ora che i capitali possono metterli al sicuro solo i poveracci, ai quali peraltro per lo più non conviene farlo, perché hanno ben poco da perdere (come spiega Claudio Borghi), il corralito (il “recintino” che impedisca ai capitali di uscire) non ha ovviamente più alcun significato macroeconomico. Ne conserva però uno politico: quello di segnalare che si vuole uscire. Se è questo che la sinistra vuole. Ma ho i miei dubbi.


Una differenza e un quod erat demonstrandum

La differenza principale è una: nel 1992 esisteva un preciso limite “fisico” oltre il quale questo gioco non poteva andare: la disponibilità di riserve ufficiali da parte della Banca centrale. L’uscita (dagli accordi di cambio) diventava necessaria nel momento in cui gli accordi non potevano più essere difesi perché la Banca centrale non aveva più valuta pregiata da svendere agli speculatori.

Oggi il limite è meno preciso. Non c’è uno stock che si sta esaurendo, se non quello della nostra pazienza. Sicuramente, ora come allora, i soliti noti si stanno attrezzando, e quando si saranno attrezzati daranno il via libera.

Vi ricordate quando a novembre vi mettevo in guardia contro la bolla dei Bund?
Bene: ora pare lo faccia anche l’Economist. Perché l’Economist lo fa ora e perché io lo facevo a novembre? Ma per lo stesso motivo: perché negli ambienti della City (che io non frequento, ma alcuni miei studenti più bravi di me sì) era assolutamente chiaro che le quotazioni del Bund erano sopravvalutate. Rosner, a differenza di me, aveva probabilmente anche tanti amici da far “rientrare” prima di poter dire la verità: verità che viene detta ora che i furbi si sono messi al sicuro, vendendo i Bund ai fessi. E la verità qual è? La solita: la Germania ha costruito la propria prosperità a spese dei paesi che ora sta strozzando (il famoso “segare il ramo” dell’articolo su Aristide pubblicato un anno fa e che Juncker oggi rimprovera ai tedeschi), e quindi, una volta strozzati questi paesi, sarà in gravi difficoltà. Del resto, le cose vanno male in ogni caso: se la Germania socializza le perdite, il suo debito pubblico crescerà perché direttamente o indirettamente dovrà accollarsi una parte dei debiti altrui. Altrimenti sega il ramo e precipita. Non c’è male come risultato.


Conclusione

La Bcesimileallafed non può essere una soluzione duratura per i problemi dell’EZ perché di fatto opererebbe nel senso di quella mutualizzazione delle perdite che la Germania strenuamente non vuole. La cosiddetta svolta di Draghi ha l’unico scopo di rinviare l’inevitabile epilogo della vicenda, permettendo ai paesi forti di fare ancora per un po’ i propri interessi (dettando condizioni ed esportando il proprio modello sociale altrove), e indebolendo ancora un po’ i paesi meno forti, che quindi saranno tanto più massacrati quando i nodi verranno al pettine. La malafede, del resto, è evidente! Abbiamo costruito tutta l’Europa sul principio che le banche centrali dovessero divorziare dal Tesoro: questa veniva propugnata come soluzione. E ora, dopo che abbiamo distrutto le nostre economie in omaggio a questo astratto principio, cosa ci viene offerta come soluzione? Quella di far fare alla Bce, in modo non del tutto trasparente, quello che le banche nazionali non possono fare!

A conti fatti, tutta questa storia non è che l’applicazione di un semplice ma ineludibile principio economico: non ci sono pasti gratis (no free lunch). La Germania ha sfruttato l’Eurozona come se questo pasto fosse gratis, ma ora si accorge che un conto da pagare c’è sempre, ed è più salato per chi fa il furbastro. Inutile cianciare ora di riforme da fare, di compiti a casa, e altre scemenze. La malafede, anche qui, è evidente. Se lo scopo dell’euro fosse stato quello di competere insieme contro la terribile Cina, allora le riforme di sarebbero dovute disegnare insieme, insieme si sarebbe dovuto progettare il modello sociale di sviluppo da opporre a quello delle economie emergenti. Invece no: la Germania ha fatto dumping sociale, violando le regole europee per finanziare la sua riforma di precarizzazione e abbattimento del costo del lavoro, e ora paga, paga come chiunque fa dumping per aggredire le economie circostanti. Paga in modo diverso, ma per un motivo analogo a quello per il quale ha pagato l’Irlanda, che facendo dumping fiscale per attirare capitali esteri è finita schiacciata dal peso degli interessi da corrispondere all’estero.L’elemento comune qual è? Quello di non aver voluto ricercare un coordinamento e un’uniformità europea, quello di non aver voluto collaborare col prossimo, ma fotterlo. L’Irlanda non lo ha cercato in campo fiscale, la Germania non lo ha cercato sul mercato del lavoro, come le rimproverano anche le Nazioni Unite (vedetevi il box  4 del Global EmploymentTrends): entrambe lo hanno fatto per volgere la situazione a proprio vantaggio, entrambe hanno attratto l’ammirazione dei gonzi e dei traditori, ed entrambe pagheranno.

Dio non paga ogni sabato e nemmeno i mercati. E dato che nel pagamento siamo coinvolti anche noi, l’unica cosa razionale da fare sarebbe uscire ora, per difendere noi stessi. La svolta di Draghi va in direzione opposta, il che non vuol dire che non obbedisca anch’essa a una razionalità. Solo che si tratta, come nel 1992, della razionalità dei soliti noti. Così è, se vi pare…

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