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Gli avversari sono lucidi, gli alleati un po' meno

di Marino Badiale

François Heisbourg non è “uno dei nostri”. Come si può capire anche solo dando un'occhiata a Wikipedia, si tratta di un membro delle oligarchie europee, che ha condiviso le scelte (costruzione di questa UE, creazione dell'euro) che hanno portato ai problemi attuali. Del resto, basta citare le parole con le quali inizia il suo libro*: “L'autore è un europeo convinto (…). Nella sua vita adulta, ha lavorato nei suoi diversi ruoli pubblici, industriali e accademici  alla costruzione europea (pag. 7)”. L'idea di Europa che Heisbourg condivide è quella che abbiamo discusso più volte in questo blog: una Europa in cui l'eliminazione dei vincoli alla circolazione di merci e capitali permetta le “riforme”, cioè la distruzione dei diritti del lavoro e l'abbattimento dei costi del Welfare State, affinché il capitalismo europeo possa meglio competere con il resto del mondo. La costruzione di una UE rigidamente incardinata sui principi neoliberisti e di una moneta unica che mette i lavoratori di ciascun paese europeo in concorrenza fra loro, sono ovviamente frutto non di errori intellettuali ma di precise visioni politiche, economiche e culturali.

È allora di grande interesse il fatto, già segnalato su questo blog, che una persona di questo tipo scriva un libro in cui propone con molta chiarezza e lucidità la fine dell'euro, concordata e controllata, e il ritorno alle monete nazionali. Proprio il fatto che, come s'è detto, l'autore non è “uno dei nostri”, rende utile confrontarsi con quello che dice (e quello che non dice).


La tesi fondamentale Heisbourg è che le economie dei paesi dell'eurozona sono troppo diverse tra loro per poter stare sotto l'ombrello di una moneta unica. Inoltre, l'introduzione dell'euro non ha contribuito a ridurre tali divergenze, come era la speranza (o l'illusione) delle élite che hanno  voluto l'euro, ma anzi le ha aumentate. Heisbourg critica le risposte che alla crisi hanno dato i ceti dirigenti europei (austerità e “riforme strutturali”) perché capisce che non si possono colpire i redditi del lavoro con le riforme strutturali e contemporaneamente diminuire la spesa pubblica, visto che in questo modo si ammazza l'economia. La soluzione alla crisi potrebbe invece essere il “più Europa”, la creazione cioè di un vero Stato federale nel quale i dislivelli economici fra le varie realtà territoriali siano compensati, in un modo o nell'altro, da forme di redistribuzione della ricchezza gestite a livello federale. E se si fermasse qui, niente distinguerebbe Heisbourg da tanti altri difensori d'ufficio del “sogno europeo”. Ma Heisbourg è una persona lucida, e quindi capisce benissimo dov'è il problema: non c'è nessuna possibilità realistica di passare ad uno Stato federale europeo, perché non esiste un popolo europeo che possa riconoscersi in esso e accettare i sacrifici che esso potrebbe comportare. I popoli dei paesi “forti” non accetteranno mai di condividere i vantaggi economici da loro conseguiti, e che a loro sono costati indubbi sacrifici, con i greci e gli spagnoli. Questa semplice considerazione, con la quale i tanti sostenitori italiani del “sogno europeo” rifiutano di confrontarsi, spinge Heisbourg alle sue proposte radicali. Visto che l'euro in questa situazione non può reggere, visto che il suo crollo disordinato sarebbe, dal suo punto di vista, un disastro che metterebbe in pericolo la stessa UE, e visto che Heisbourg ritiene l'eventualità di una rottura della UE il vero pericolo da scongiurare, la sua proposta è quella di una dissoluzione concordata dell'euro mantenendo per il resto la struttura istituzionale dell'UE.

Ripetiamolo: l'autore di questo libro non è uno dei nostri. È uno dei loro, come dimostra fra l'altro la recensione simpatetica che gli dedica Franco Debenedetti sulle pagine del Sole24ore. Heisbourg, per fare un esempio, non ha problemi a dire che nei paesi della periferia sud (e anche in Francia) sono necessarie le “riforme strutturali” (cioè attacco ai diritti del lavoro e al Welfare State) del tipo di quelle compiute in Germania. E nella sua analisi egli dice molte cose giuste ma non va fino in fondo, perché non spiega con la chiarezza necessaria come la Germania, dopo aver compiuto le sue riforme del lavoro, abbia accresciuto la sua competitività a spese dei paesi “periferici”,  e come, in questa competizione, l'impossibilità di svalutazione della moneta, da parte dei paesi periferici, sia un dato essenziale. Tutto questo non è detto esplicitamente in questo libro. Emerge dalle osservazioni relative al fatto che, se la Germania uscisse dall'euro, la sua moneta verrebbe immediatamente rivalutata con danni alle esportazioni. Ma l'autore, forse preoccupato per essere andato troppo in là, si rimangia queste osservazioni a pag.169, quando osserva che, al contrario, l'uscita dall'euro non sarebbe un grande problema per la Germania.

Nonostante questi limiti il suo libro, lucido e ben scritto, è molto interessante, perché mostra che fra i ceti dirigenti europei si sta facendo strada la consapevolezza dell'insostenibilità della situazione attuale. Forse il punto focale del libro, la sua vera origine, sta in un'osservazione che l'autore fa nelle prime pagine. Heisbourg nota infatti, con un certo stupore, la “pazienza d'angelo” che hanno avuto finora i popoli europei. Di fronte alla più grave crisi economica dopo il '29, le reazioni popolari sono state finora oltremodo contenute: “nonostante cinque anni di disoccupazione, di delocalizzazioni, di impotenza delle nazioni e delle istituzioni europee, e di deresponsabilizzazione dei politici rispetto ai tecnocrati, gli elettori europei hanno avuto una pazienza da angeli. Né vittorie degli estremisti, né colpi di Stato, né campagne terroriste. Alla peggio, delle manifestazioni molto dure ad Atene, e più spesso i simpatici sit-in degli “Indignados” spagnoli, e grandi sfilate di proteste pacifiche un po' dappertutto (pag.15)”. Poca roba, commenta Heisbourg, in confronto alle lotte dure negli anni del dopoguerra o al terrorismo italiano e tedesco degli anni '70 o ancora al maggio francese.

È probabile che una parte dei ceti dirigenti europei si stia interrogando su quanto possa ancora durare questa “pazienza d'angelo”, e stia pensando alla direzione da prendere se e quando essa finirà.

Partendo da un punto di  vista diverso, si tratta di una questione che deve porsi anche chi, come noi, avversi i fondamenti neoliberisti sui quali è stata costruita l'UE. Come mai i popoli europei accettano l'impoverimento e la distruzione di diritti e redditi? Fino a quando potrà durare? Almeno una parte della risposta a queste domande sta in articoli come questo di Giulietto Chiesa, del quale abbiamo già parlato, o come questo di Roberta Carlini. La risposta sta cioè nel fatto che mentre un avversario come Heisbourg ha la lucidità necessaria per rendersi conto dei problemi e proporre quelle che, dal suo punto di vista, sono soluzioni concrete, il mondo del pensiero critico, alternativo, antiliberista, non fa, nella sua larga maggioranza, che produrre parole vuote, sganciate da ogni realtà e concretezza. I ceti popolari sono disorientati e confusi, e non reagiscono al durissimo attacco cui sono sottoposti, anche perché (non solo per questo, sia chiaro) gli intellettuali che dovrebbero fornire elementi di chiarezza, di lucidità, di rigore, diffondono invece confusione e illogicità. Gli articoli citati sono un buon esempio di tutto ciò. Vediamo infatti quale ne è il contenuto razionale. Cosa dice per esempio Roberta Carlini? Ci dice che l'uscita dall'euro è una richiesta delle destre. Abbiamo già scritto nel nostro libro quello che c'è da dire di una simile argomentazione, ma ripetiamoci. Una argomentazione del genere è la negazione della razionalità. La nostra tesi è che l'euro è uno strumento dei ceti dirigenti europei per la distruzione di diritti e redditi dei ceti subalterni e per l'imposizione definitiva dei principi neoliberisti su scala continentale. Se questo è vero, è chiaro che l'uscita dall'euro è condizione necessaria (anche se non sufficiente) per la difesa di diritti e redditi dei ceti subalterni, e per impostare una politica di contrasto al neoliberismo. Ora, di fronte a questa tesi, della quale si può dire che viene ormai seriamente argomentata da più parti, razionalità vuole che si discuta se è corretta oppure no. Perché solo dopo una tale discussione si può capire che posizione politica assumere, in particolare di fronte alle forze di destra che predicano l'uscita dall'euro. Se la tesi sopra indicata è sbagliata, allora ovviamente bisogna rifiutare la proposta dell'uscita dall'euro, e questo è del tutto  indipendente dal fatto che tale proposta sia fatta propria dalla destra oppure no. Se essa è giusta, allora il fatto che essa sia sostenuta a destra non è certo un motivo per farla cadere, ma al contrario è uno sprone in più per farla propria il prima possibile e sottrarla alla destra. Perché se quell'analisi è giusta, allora rifiutando la parola d'ordine dell'uscita dall'euro si commettono due errori gravissimi: non si individua un piano di lotta essenziale per la difesa dei ceti subalterni, e si lascia una parola d'ordine giusta in mano alla destra.

Questo è quello che si può dire, su un piano di razionalità. Dire invece che la parola d'ordine dell'uscita dall'euro deve essere rifiutata perché “lo dicono quelli di destra”, è la ricaduta nell'irrazionalità e nel dogmatismo del movimento comunista del Novecento. È esattamente la stessa cosa di quando, negli anni '50, si diceva che non si può parlare dei gulag e della repressione nell'URSS perché si fa il gioco della borghesia. Si sperava che questi atteggiamenti mentali fossero superati. A quanto pare, non è così. È interessante riflettere un momento sul significato di questo fatto. Quel tipo di impostazione mentale dogmatica, infatti, non dipende da un particolare contenuto (il culto di Stalin o della Rivoluzione d'Ottobre) ma da un atteggiamento che può applicarsi ai contenuti più diversi, e la cui origine sta in una sostanziale subalternità dell'intellettuale rispetto alla politica. Il problema di queste forme di dogmatismo non è cioè la specifica ideologia, ma il “tradimento dei chierici”, la scelta dell'intellettuale che rinuncia al proprio ruolo di pungolo verso la razionalità e la verità, e accetta di essere strumento subalterno della politica. Con l'aggravante che concepirsi come strumento della politica del movimento comunista nel Novecento aveva almeno una sua tragica grandezza, concepirsi come strumento della “grande politica” di SEL o magari di una corrente del PD è semplicemente ridicolo.

Roberta Carlini, comunque, non ci presenta solo questa argomentazione negativa. Ci offre anche una proposta positiva, ed è ovviamente quella dell'Europa democratica e solidale. Ma come abbiamo detto tante volte, si tratta di pura demagogia, perché una tale proposta non ha nessun fondamento concreto. E questo Carlini arriva quasi ad ammetterlo, quando conclude sconsolatamente il suo articolo nel modo che segue:

“...è a carico di quanti non rinunciano all’idea di una politica progressiva, l’onere di dimostrare che un’altra strategia europea è possibile, e assai più conveniente, per chi oggi ha meno, della chiusura dentro frontiere e identità sempre più anacronistiche. Ma chi si incarica di questo compito? Colpisce, e forse fa più male delle scorciatoie populistiche, l’assenza di questo livello della discussione nella sinistra, come se fosse per noi tutti impossibile pretendere un’altra Europa per un’altra politica, più vicina a quella ideale. Persino adesso, quando è a tutti visibile e plateale il fallimento dell’Europa reale”.


L'impossibilità del “pretendere un'altra Europa” ha il suo fondamento nel fatto tanto volte da noi ripetuto, cioè nell'inesistenza di un soggetto popolare europeo. Roberta Carlini arriva fin quasi a capire questo punto, ma si ritrae dalle logiche conseguenze delle sue stesse ammissioni. Chi legga il testo di Heibsourg vedrà come egli faccia proposte concrete e ragionevoli per l'uscita dall'euro. Nessuno dei sostenitori dell'Europa “più democratica” è in grado di fare proposte concrete, di delineare un percorso ragionevole. Perché non c'è nessuno spazio concreto per l'Europa “più democratica”, e la sua evocazione ha il solo scopo di nascondere il vuoto, la mancanza di argomenti di posizioni come quelle sostenute da Carlini.

Il caso di Giulietto Chiesa è del tutto analogo. Anch'egli attacca le forze di destra che chiedono l'uscita dall'euro, anch'egli si immagina una “Europa” diversa dalla UE, senza poter indicare in nessun modo né un percorso concreto per arrivarci, né forze reali che possano spingere in quella direzione. Il caso di Chiesa è davvero emblematico del vicolo cieco in cui sbocca necessariamente la proposta politica di una “altra Europa”. Giulietto Chiesa ha infatti un serie di punti di forza che pochi altri hanno, nel variegato mondo “antagonista”: una certa notorietà mediatica e importanti collegamenti internazionali. Ma questi punti di forza non gli servono a nulla, perché egli li vuole utilizzare al servizio di una politica che non ha nessuna base realistica.

Purtroppo le idee sbagliate e prive di sbocchi espresse da Carlini e Chiesa sono abbastanza diffuse, nel mondo, peraltro minoritario, di chi si oppone al capitalismo  contemporaneo. Ci sembra questo, lo ripetiamo, uno dei motivi dell'impotenza e passività finora dimostrata dalla masse popolari dei vari paesi europei. La speranza di una riscossa passa anche attraverso la lotta intransigente contro la confusione e la vacuità di un ceto intellettuale che ha rinunciato al proprio ruolo.

* François Heisbourg, La fin du reve européen, Stock 2013

[la traduzione dal francese delle citazioni del libro di Heisbourg è mia (M.B.)]

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