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voxpopuli

Prolegomeni a una filosofia della verità

di Vox Populi

In contrapposizione al nichilismo e al prospettivismo, il compito di una filosofia dell’emancipazione è quella di lottare per qualcosa: l’esistenza di una verità ne è precondizione, per orientare la guerra contro il capitale

heidegger8764L’articolo affronta temi che orbitano intorno alla verità e al discorso in senso Foucaultiano, partendo dall’«occultamento-svelamento» di determinati aspetti della realtà, all’utilizzo dei discorsi e delle dislocazioni delle fonti di verità nella lotta di Socrate e Platone contro i sofisti e i cinici, allo scopo e ai tipi di critica (immanente e trascendente) infine alla proposta di un maggior ascolto della realtà al fine di potersi collegare in modo più profondo ed efficace con le masse, per dare nuova vita ed energie al movimento rivoluzionario.
L’obiettivo è quello di dotare di nuovi strumenti teorico-discorsivi, come di comprensione, il movimento comunista di cui i tempi moderni hanno bisogno, per criticare il tempo presente e avere la meglio su movimenti di destra e nichilismo giovanile che si sono, in buona parte, saputi riaggiornare.

* * * *

La questione della verità

Al giorno d’oggi uno degli argomenti più bizzarri dello scenario culturale è la verità: coesistono opinioni per cui la verità condivisa non esiste (pertanto assume forma individuale, se non esiste proprio) ma la verità scientifica sì, per altri vale l’inverso, certi non si pongono il problema e altri ci pensano in maniera esclusivamente speculativa e non pratica.

Per noi il problema della verità si pone perché il movimento rivoluzionario deve innanzitutto esser capace di criticare lo stato di cose presente, di connettersi alle coscienze delle persone e di creare qualcosa di nuovo a partire da un panorama culturale storicamente dato: è importante affrontarlo per fissare i compiti più generali e le potenziali modalità con cui realizzarli.

La ricerca di Foucault nell’ambito ci aiuta molto, perché la verità e le sue “fonti” sono qualcosa di più di mera “ideologia”, o sovrastruttura inessenziale: esse riflettono la psicologia e gli equilibri di potere, i princìpi, di un’epoca; delineano una logica di tipo politico (le diverse razionalità di governo), di tipo giuridico (quali e perché applicare determinate punizioni ?), di tipo antropologico (psichiatria, psicanalisi ecc). Questi contenuti ed impostazioni sono l’armamentario teorico con il quale ci dobbiamo destreggiare per il nostro obiettivo rivoluzionario.

 

Come porsi il problema?

È essenziale fissare tre temi importanti che devono orientare la nostra ricerca:

  1. La verità come “griglia”, ovvero come “punto di vista sociale” che, quando confrontato con un altro, mostra e nasconde elementi e aspetti differenti.
  2. Il susseguirsi di Weltschauung (concezioni del mondo) non approssima alla verità in un’accumulazione assoluta, bensì è un percorso di rotture, di recuperi, di dimenticanze.
  3. La verità come comprensione dell’essere (ἀλήθεια, a-letheia, assenza di oblio, disvelamento) costituisce il terreno ideologico-psicologico fondamentale sul quale si costruisce tutto ciò che concerne la coscienza umana, diversamente dalla correttezza/precisione (ὀρθότης) nella conoscenza dei singoli oggetti.

 

1 - La verità come "griglia"

Cito a titolo introduttivo Michel Foucault:

A partire dal XIX secolo, nel discorso filosofico, ma anche nel discorso politico, si è sempre fatto riferimento a [la società civile] come a quella realtà che si impone, che lotta e che si erge, che insorge e che sfugge al governo, o allo stato, o all’apparato di stato, o all’istituzione. Credo, tuttavia, che si debba essere molto prudenti quanto al grado di realtà che si accorda alla società civile. Essa, infatti, non è quel dato storico-naturale destinato, in un certo senso, a fungere da fondamento, ma anche da principio di opposizione allo stato o alle istituzioni politiche. La società civile, insomma, non è una realtà originaria e immediata, ma è piuttosto qualcosa che fa parte della tecnologia governamentale moderna. Dire che ne fa parte non significa che ne sia il prodotto puro e semplice, e non vuol dire nemmeno che sia priva di una sua realtà. La società civile è come la follia, o come la sessualità. Fa parte di quelle che chiamerei delle realtà di transizione. È proprio all’interno del gioco e delle relazioni di potere, e di ciò che costantemente sfugge loro, in un certo senso nell’interfaccia tra governanti e governati, che nascono quelle figure transazionali e transitorie che, per il fatto di non essere esistite da sempre, non per questo sono meno reali, e che si possono chiamare, di volta in volta, società civile, follia e così via.

(Michel Foucault, Nascita della Biopolitica, Feltrinelli, Milano, 2015, pag. 242)

Qui Foucault ci dice che la società civile, e il suo opposto, il mercato, prima del 1800 erano difficilmente concepiti. La società civile, in breve, è l’insieme di relazioni non economiche, “non interessate”, spontaneamente emergenti nella comunità (linguaggio, cultura, relazione, amicizia, conflitto); il mercato è invece l’ambito delle relazioni economiche, “interessate” (scambio, contrattazione, concorrenza, cooperazione). Questi aspetti esistono da sempre nelle società umane, ma fino all’emersione reale del mercato e della società civile ottocenteschi non li si era mai potuti isolare in modo così organico in discipline come accade oggi con la sociologia e l’economia, per esempio. Cos’è successo, allora ?

Foucault ci fornisce una spiegazione, ma non lo scrive in modo sufficientemente adatto al nostro articolo: lo sviluppo di un oggetto della realtà ha permesso la formazione di un concetto del pensiero; non è una “creazione”, quanto un “ascendere”, un “illuminarsi”, un aumento di presenza (e di dimensione) di determinati aspetti della realtà e del pensiero.

Tali “oggetti di pensiero”, o in generale “assi” della concezione di verità, sono reali, ma non automaticamente evidenti; ciò vuol dire che possono anche “inabissarsi” di nuovo. Questo gioco di esposizione e nascondimento mostra che la verità non è già palese, bensì che può mostrarsi, e in modi diversi. Per Hegel l’uomo conosce in modi differenti a causa della specificità della situazione e delle “difficoltà” incontrate da ciascuna forma di conoscenza (sensibile, empirica, ideale), comunque raggiungendo una forma “culminativa”, dialettica. L’oggetto di studio è la realtà nel corso della sua esposizione, contraddizioni e costante novità nel contingente, oltre cui si cela l’eterno. Per Heidegger si tratta, in modo in po’ più diverso, del “de-obliarsi” dell’Essere, un “diradamento” (Lichtung, 1 e 2) che permette di venire a conoscenza del Vero.

Hegel però non procede a considerare un “rinascondimento” dell’essere, della verità in quanto il sapere storico è qualitativamente “migliorativo”. Il sapere, inoltre, è frutto di un progressivo sviluppo del “modo di pensiero”, con la centralità dell’uomo e del modo in cui progressivamente acquista coscienza di Sé e dell’Altro, diventando sempre più capace di cogliere l’essere. Non ci sarebbe motivo per cui aspetti dell’Essere si “ritirino” e nascondano.

Anche per Heidegger il nascondimento e il rivelamento della verità sono influenzati dal porsi dell’uomo, ma sono ancor più genuinamente conseguenza dell’Essere stesso. Heidegger combatté l’umanesimo (ovvero l'”uomo misura delle cose”): la rivelazione della verità non è più dovuta, infatti, allo “svelamento” operato dall’uomo, bensì dall'”accadere” della verità-Evento (Ereignis), doppiamente un’azione attiva dell’Essere che si rende discernibile (nascita, demarcazione, emergenza di un concetto) e un cambiamento esteriore al soggetto. In altri termini, la filosofia Heideggeriana pone l’attenzione sull’oggetto e meno sul soggetto, tanto che negli ultimi anni hanno preso forma addirittura delle correnti filosofiche che si definiscono “ontologie orientate all’oggetto“.

Qui i due autori sono polarmente opposti: se per Hegel il concetto è “afferrare” la realtà (non per forza in senso violento, manuale, ma in senso mentale di “cogliere”), dal significato tedesco di Begriff (la radice greifen è infatti “afferramento”), per Heidegger è “rivelarsi”; il ruolo completamente diverso del soggetto è evidente: per Hegel attivo, per Heidegger passivo.

Un esempio di Heidegger aiuta a capire il concetto di “griglia”: una foresta tramite una lente “tecnica”, di utilizzo, diventa una riserva-stante di alberi, il terreno diventa una riserva-stante di minerali, il mondo diventa una riserva-stante di risorse; l’Essere si ritira per mostrare nel modo più chiaro l’Ente (ciò che è). E nel nostro caso, storicamente abbiamo avuto il “primo inizio”, quello della Metafisica, della disciplina dell’ente, con tutto ciò che ne è seguito, che ha causato la dimenticanza dell’Essere; per questo Heidegger auspicava un “altro inizio”, non per azzerare tutto e ricominciare daccapo, ma per riattivare quella potenziale “scelta” che non fu operata in passato. Il “primo inizio” ha portato al predominio della Tecnica, in tedesco Gestell (paragonabile ad enframing), dispositivo anonimo impersonale, sistemico, sfuggito di mano. Qui un buon articolo a riguardo. Per tornare al discorso, secondo Heidegger siamo succubi di un’impostazione (ma che è in generale modo di comprendere e di autocomprendersi, di conseguenza di agire) tecnica su cui abbiamo perso la presa. Vediamo perfettamente l’ente, al costo di un obliarsi quasi completo dell’essere; “l’altro inizio” potrebbe, però, permettere lo svelamento dell’essere, il suo ritorno.

La questione è emersa anche nel famoso dibattito tra Michel Foucault e Noam Chomsky, a cui rimando in modo diretto (attivare i sottotitoli!).

C’è un ultimo dettaglio di enorme importanza che però non abbiamo ancora affrontato: la questione del necessario, del “permanente”, del “sempre vero (/reale)” e all’altro lato del contingente, del congiunturale, del “temporaneo”, caduco. Infatti ci sono delle cose che sono vere oggi e che non lo saranno domani, come delle cose che saranno sempre vere. Aristotele distinse tra “essenza” e “accidente”: l’accidente è caduco, temporaneo, non caratterizzante, mentre l’essenza è l’opposto. Per Hegel però, e per la filosofia idealistica in generale (compreso Platone), l’accidente non è “falso”, non è da scartare, in quanto si fa portatore di una verità “più vera” che è l’essenza; l’essenza stessa non può prescindere dall’accidente, dal contingente, perché non potremo mai osservare l’oggetto in astratto, “tratto da” (abs-tractum), irrelato, bensì sarà sempre nella realtà concreta, manifestando non solo sé stesso, ma sé stesso nella relazione con elementi contingenti della realtà.

Possiamo allora riassumere osservando che l’Essere, o l’eterno, è eternamente, si esprime tramite l’accidente, o temporaneo, e può nascondersi come svelarsi, mentre al contrario il congiunturale, l’accidente, è temporaneamente ed è mezzo di espressione dell’Essere eterno, e può finire di esistere per essere sostituito da nuovi elementi contingenti. Ad esempio la sfera non-economica di interazioni sociali è sempre esistita e sempre esisterà dove ci saranno esseri umani in società, ma tale aspetto era rimasto “inosservato” finché l’emersione, la nascita, la creazione dell’elemento contingente del mercato ha dato modo di osservare un ambito di vita di relazioni sociali puramente economiche, svelando di conseguenza questi aspetti sempre presenti delle relazioni sociali.

Il problema dell’eternamente e temporaneamente vero si può risolvere tramite due frasi importanti di Hegel, la prima che “La filosofia si occupa di ciò che è, ed è eternamente, e con questo ha fin troppo da fare” e la seconda che “La filosofia è il proprio tempo appreso col pensiero”. Non abbiamo di fronte a noi altro che cose costantemente diverse, incomparabili con quelle che ci sono state e che ci saranno; eppure, sono sempre il movimento dello stesso Tutto. Ciò che Hegel fa è cercare un metodo che dal contingente possa spalancare la porta dell’eterno, del Vero, e per fare ciò deve poter superare l’illusorio, e conservare quanto di vero ed essenziale ci sia “oltre” eppure “dentro” le cose. Allora possiamo finalmente contestualizzare meglio l'”emergere” della società civile, un argomento, un ambito, un concetto nei fatti sempre esistito, ma che ha preso forma e che è uscito dalla nebbia della storia solo di recente.

Un altro aspetto importante è l’esistenza di una relazione organica, bivalente, reattiva (dialettica!) tra il pensiero del soggetto che coglie la realtà e che di conseguenza la trasforma e la realtà stessa che si espone ad esso e lo condiziona (nel senso più letterale della parola); la nascita del mercato e necessità sociali di combattere lo stato di polizia (ovvero lo stato “forte”, amministrativo, invasivo nell’economia) hanno portato l’attenzione verso questa realtà, che non è altro che un modo “contingente” di manifestarsi delle relazioni sociali; eppure non è altro che una finestra affacciata verso l’eterno.

 

2 – Rotture

Coscienti di ciò veniamo allora posti di fronte ad un eterno che si manifesta nel temporaneo, un temporaneo che però gli dà sostanza, corpo, realtà, è la sua realtà. Contrastando però la teoria “migliorativa” del conoscere al progredire delle epoche storiche secondo Hegel, gli epistemologi Feyerabend e Thomas Kuhn, come Foucault, evidenziano come in realtà il Sapere sia abitato e mosso da tante correnti che si muovono con la propria direzione, che interagiscono, che si respingono; e che nuovi “saperi”, sia nel senso di “concetti” sia nel senso di “modi di sapere”, nascono, come altri muoiono. Foucault, nel confronto con Chomsky, parla delle grandi scoperte scientifiche del 1600 e 1700 ad opera di Galileo, Newton e altri scienziati, osservando che la realtà nei fatti fosse sempre stata davanti agli occhi di tutti, con le sue leggi matematiche o logico-ontologiche, e che in un certo senso nel 1600 è bastato uno “svelamento”, la caduta del paraocchi filosofico che nascondeva la matematica come fondamento della natura. Con esso però è stata occultata la filosofia come strumento di conoscenza della realtà “oggettiva”, tutto l’apparato aristotelico è caduto nell’ombra, sostituito dalla “scienza di nuovo tipo”.

In un certo senso il sapere si accumula, perché viene concretamente prodotto, ma con tre problemi essenziali: ovvero 1) la perdita di saperi, conoscenze, punti di vista, domande, risposte nel corso del procedere storico per motivi materiali-sociali (perdita dei manoscritti, poca diffusione del sapere prodotto), 2) la crescente disconnessione tra sapere dello stesso ambito tra un’epoca e l’altra a causa del cambiamento della realtà circostante (sappiamo davvero comprendere Platone, o anche Hegel ?), a causa del cambiamento qualitativo del sapere stesso al cambiamento quantitativo (intensa ricerca in una direzione si è dimostrata infruttuosa, allora vengono posti nuovi quesiti), a causa del già citato progressivo sbiadimento del sapere antico 3) la diversità delle cose di cui si deve occupare e a cui deve rispondere, dovendo alle volte rivedere le conoscenze passate non tanto perché non vere quanto perché “obsolete”, o non utili, o da espandere, riattivando e piegando dei rami già esistenti del sapere accumulatosi.

Avendo mostrato alcune inadeguatezze dell’accumulazione del sapere, la questione fondamentale è comprendere che a volte i “contenuti” sono intelligibili in modo sensato solo con la lente epistemologica che gli appartiene, che li ha creati; altrimenti, certe sfumature vengono “perse nella traduzione”, come altre vengono create. Alla società occidentale di oggi pare strano impostare i problemi della natura, delle cause, anche solo il domandarsi in senso filosofico e qualitativo, piuttosto che in modo scientifico e quantitativo. Oppure, ancora di più, ad alcuni può parere direttamente futile farlo perché la filosofia “non può arrivare ad una conoscenza oggettiva”. Questa è una procedura basilare di “svelamento-nascondimento”.

Un altro aspetto importante è come determinate epoche evidenzino determinate caratteristiche del mondo; ovvero che vengano posti diversi quesiti a seconda delle diverse esigenze dell’epoca: il dilemma dell’esistenza e dell’autenticità sarebbe sembrato insensato ad un Greco antico, come ad un filosofo medioevale, perlomeno nel modo in cui ce lo poniamo oggi, e ciò indica la contraddizione di noi moderni tra ciò che siamo /vogliamo fare e ciò che “conviene” (a chi ?) fare. Allo stesso modo la questione della comunicazione, del significato, del linguaggio (che in altre epoche non ci si sarebbe mai posti in modo così importante) è conseguenza della necessità di fare i conti con l’epoca della iperconnessione sociale e di saper “domare” al meglio forze che altrimenti resterebbero oscure seppur alla luce del sole, palesi eppure misteriose.

 

3 – Verità e precisione

Nell’opera di Martin Heidegger è sempre sotteso in modo più o meno evidente il tema della verità; per lui era fondamentale la distinzione tra verità intesa in senso greco come svelamento e intesa in senso post-platonico (ma aggiungerei specialmente post-copernicano) come “precisione”, come “corrispondere” ad un giudizio (apofantico) della mente. Per il pensatore rientra nella problematica dell’inautenticità dell’essere e poi del più minaccioso impianto “tecnico”, in quanto il soggetto si concentra sull’ente perché vuole usare la realtà, è invasivo e distorsivo, “dimentica l’Essere”. A questo fine, l’idea che ci si fa deve essere “corretta” (non interessa che sia “vera”), pertanto si prefigura una relazione conoscitiva orientata più al contenuto che non alla natura della cosa.

Per noi il problema è parzialmente disallineato da quello di Heidegger, in quanto in questo articolo non ci poniamo la questione di “tornare” ad un Essere che si nasconde allo scopo di recuperare il modo di vivere autentico; noi, invece, vogliamo conoscere le “verità” basilari che fondano la mentalità più che il “contenuto” che può essere giudicato vero o falso, vogliamo l’essere piuttosto che l’ente, la logica del contenuto piuttosto che il contenuto della logica. Questo perché la mentalità (con le sue “verità base”) orienta l’agire degli uomini in modo più profondo del “contingente”, influisce sul modo in cui comprendono il mondo circostante, gli altri, loro stessi.

Essa è un fondamento di forma, di impostazione più che di contenuto “contingente”, perché se la realtà circostante conferma tali assunti di base essi ne vengono rinsaldati, e se la realtà invece li contraddice in modo più o meno importante la nostra psicologia ha tutto un insieme di meccanismi di difesa (ignorare, distorcere fino a farne una riconferma dei nostri assunti, continuare noncuranti interpretando come non vere le informazioni o eventi negativi…). Non che questo renda la nostra mente un sistema chiuso e immutabile, ma le dà comunque una certa inerzia che può essere decisiva a livello strategico.

L’innervatura di relazioni sociali e non ci condiziona sempre e si presenta in ogni istante infinitesimale che viviamo, nello sguardo verso l’orologio, nel salutare qualcuno per strada, nella passeggiata in montagna e nel raccogliere una foglia per terra. Ci facciamo i conti costantemente in quanto plasma come noi vediamo il mondo, per cui come agiamo; vale anche l’inverso, ovvero il modo in cui agiamo influisce sulla nostra mentalità.

E alla base di ciò il mondo ci trasforma e viene trasformato intorno a noi, a causa nostra e nonostante noi. Non possiamo non affrontare, ora, il ruolo monumentale di Marx nella creazione di una filosofia del rapporto sociale che, seppur solo abbozzata in certe direzioni, si è rivelata un albero sempre vigoroso e fecondo per innumerevoli studi sull’uomo e su ciò che lo circonda.

All’interno della sua opera possiamo ritrovare una matrice antropologica per cui l’uomo è indeterminato di per sé, dice Marx “ente naturale generico”; il concetto di Gattungswesen possiamo usarlo a doppio taglio, evidenziandone due aspetti diversi. Il primo, che chiamerei “genericità in senso particolare” è che l’uomo è libertà, pertanto il nostro agire è risultato di arbitrio (seppur interfacciato con la situazione che lo circonda, tra cui la mentalità collettiva, le aspettative sociali…), non nasciamo operai o leader o scienziati; si tratta di una libertà essenziale con taglio individuale (la critica di Marx da questo punto di vista è l’imbestialimento dell’uomo ad opera del modo di produzione capitalistico perché viene “determinato”, deve “specificarsi”, ha la sua universalità limitata nel lavoro specializzato e nel ruolo sociale). Il secondo aspetto è la “genericità in senso generale” per cui l’uomo ha “natura generica”, ovvero che ha natura, logica, comportamento che non si può determinare in modo universale, bensì che si modella in virtù dell’epoca, della mentalità, delle condizioni sociali e, ora arriviamo alla roba che scotta, i rapporti sociali. Questo significa che l’uomo non “è egoista”, o “buono”, o “indifferente”… non si può parlare di natura umana in questo modo; le problematiche poste dal modo di produzione capitalistico sono eliminabili (guerra imperialistica/coloniale, antagonismo competitivistico, ecc.) e i veri problemi filosofici ed etici ci stanno ancora aspettando oltre la soglia.

Sia il grado particolare che quello generale di genericità vengono formati dai rapporti sociali, direzionati, e da essi fiorisce ciò che possiamo chiamare appunto “mentalità”, intersezione tra la “mentalità particolare” e la “mentalità generale”. Ciò che tengo a tenere in evidenza per evitare disguidi è la continua, innegabile e potente influenza del mondo “materiale” economico, geografico, urbanistico ecc. sulla persona, che temo possa essere lasciato in secondo piano (o dare un’impressione di trascuratezza) dato l’intenso contenuto teorico dell’articolo.

Tali rapporti sociali sono fondamentali per determinare le “fecondità” e le “sterilità” sociali dei contenuti ideologici, delle idee; per determinare se sono comprensibili, se riusciamo a connettere un’esperienza particolare ad un concetto universale o collettivo, se in due parole è “socialmente efficace” una idea: a questo serve costruire una “egemonia ideologica”, seguendo le orme di Gramsci, ovvero riuscire a conquistarsi il favore delle masse, ma anche (e questo è uno dei punti più delicati di tutto il concetto di egemonia) cambiare la mentalità generale al fine di rendere la collettività pronta a fare un cambio di paradigma. Perché una delle difficoltà più insormontabili che si trovò ad affrontare la neonata Unione Sovietica fu proprio l’eliminazione delle ideologie e dei rapporti borghesi che, col loro predominio nelle campagne, nell’apparato statale e nell’esercito, condannarono l’URSS a “capitalismo di stato”: i frequenti germi di una società realmente diversa (i “sabati comunisti” e la produzione comunitaria, come le milizie autoorganizzate locali, come i rapporti orizzontali nell’esercito, come la democrazia dei Soviet) furono soffocati dai rapporti gerarchici dove, seppur senza sanzione formale iniziale, il rapporto lavorativo o burocratico si stabiliva in modo gerarchico creando una separazione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, tra organizzatore e organizzati.

E questo, come disse Marx, crea una gerarchizzazione “indipendente dalla volontà” delle persone coinvolte; in un qualsiasi progetto cooperativo (che sia pure la pulizia di casa, per esempio) ci siamo dedicati magari di meno a qualcosa di quanto avremmo dovuto o potuto, e ci troviamo surclassati a livello sostanziale da un’altra persona che ha acquisito le competenze, o sa come orientarsi, o che semplicemente ha stretto dei rapporti che gli permettono di fare più di noi. Quando bisognerà scegliere un rappresentante del gruppo, o evenienze del genere, è molto probabile che essa verrà scelta al posto nostro, dando una sanzione formale alla sostanzialità del rapporto; ciò incoraggerà (a causa delle diversità ormai dei ruoli) il mantenimento e il solidificamento di questa differenza, tramite diversi mezzi materiali e intellettuali (oltre che la potente cosa chiamata “abitudine”), che diventerà sempre più profonda.

Fu questa, sostanzialmente, una delle sfide del neonato potere sovietico, che non poté risolvere anche a causa della difficilissima situazione (guerra civile, carestia, limitato potere bolscevico, apparato statale ancora sedimentato), che impedirono l’adozione di rapporti sociali “nuovi” e pertanto “sperimentali”, optando invece per soluzioni temporanee ma pratiche e “già comprovate”, per così dire. Il punto di tensione del gramscismo e del concetto di egemonia allora risiede nella domanda: se i rapporti sociali capitalistici continuano a sussistere, si riesce ad uscire in massa dalla mentalità dominante ? Come si fa a far diffondere un’idea che possa essere accolta nelle menti delle persone come verità se poi nella vita quotidiana vivono altro ? Qui sta l’essenziale punto di contatto tra prassi e teoria: il movimento di emancipazione deve conquistarsi l’egemonia politica anche trasformando la realtà intorno a sé.

Ciò accade in questo passo scritto da Marx, parlando dei circoli operai francesi:

Quando gli operai comunisti si riuniscono, il loro scopo è primariamente la dottrina, la propaganda ecc.

Ma con ciò fanno anche proprio un nuovo bisogno, il bisogno di società, e ciò che sembra un mezzo (Mittel), è diventato il fine (Zweck). Questo movimento pratico può essere osservato nei suoi più splendidi risultati guardando gli ouvriers socialisti francesi riuniti. Fumare, bere, mangiare ecc. non sono qui semplici mezzi dello stare assieme o mezzi per stare assieme. La società, l’unione (Verein), la conversazione, che ha sempre come scopo la società, gli basta; presso di loro la fratellanza degli uomini non è una vuota parola, ma una verità, e la nobiltà dell’umanità risplende verso di noi da quelle figure indurite dal lavoro.

(Karl Marx, Manoscritti economico filosofici, Orthotes, 2018, Napoli-Salerno, pagg. 217-8)

A partire da questo, allora, possiamo concludere dicendo che Heidegger giustamente indica due tipi di verità, una contenutistica (precisione) e una logico-ontologico-essenziale (verità in senso di alètheia); la linea lungo la quale però bisogna “riformare” Heidegger è quella dell’agenzia dell’uomo, perché la sua tesi che la verità ci si rivela (essa), e che ci “accade” come Evento, lasciando evolvere la situazione in autonomia è, se mi si permette, sbagliata. Perché se non siamo noi ad influenzarla saranno altre cose, il vuoto non esiste mai; il fatto che la lascitezza-abbandono (Gelassenheit), “noluntas” o rinuncia della volontà in altri termini, permetta una connessione più profonda con l’essere è falsa, perché questa apertura sì permette di osservare le cose per come sono e meno per come vorremmo che fossero, ma d’altro canto non siamo forse noi ad averci a che fare ? E’ una posizione simile a quella di molti prospettivisti, o “atei del giudizio”: le cose stanno così come stanno, punto e basta; ma come possiamo, vivendo noi in una società, relazionandoci noi con la realtà che ci sta intorno, subirla acriticamente? Possiamo e dobbiamo poter giudicare ciò che c’è, che ci accade e che facciamo come bene o male, come giusto o sbagliato, perché viviamo in un mondo con il quale abbiamo a che fare e nel quale possiamo sentirci meglio o peggio. Tali posizioni e passiviste hanno portato ad ideologie deviate, convulse, uno dei nemici più grandi per un movimento rivoluzionario e affermativo a causa del loro seducente “esaurimento”, “stanchezza”, passività, lontani dalla “violenza” del fascismo, del nazionalismo o dell’autoritarismo; sto parlando dell’accelerazionismo (di cui qua riporto un esempio tristemente rappresentativo; non sto nemmeno a discuterne la lettura errata di Deleuze, il punto è il pericolo di questa “liberazione dalla volontà”).

Heidegger, comunque, è uno dei pensatori con cui bisogna per forza fare i conti per due essenziali aspetti: ha spostato in una direzione feconda e importante la ricerca filosofica (e a riguardo ha cose estremamente interessanti da dire) e mantiene comunque caratteristiche sintomatiche dell’ideologia (ma anche della coscienza, più genuinamente) capitalistica di passivismo e di preoccupazione per l’esistenza e la macchinicità, oltre che per l’inautenticità, riuscendo in modo molto significativo ad essere uno dei pensatori più importanti del secolo scorso, cosa che dimostra appunto “l’efficacia sociale” delle sue idee, e di rimbalzo la situazione sociale alla base; allora bisogna sia recuperarlo, seppur in modo critico e instaurandoci un dialogo, sia saperlo studiare come caso esemplare dell’uomo della “società di massa”, del nazismo e della ricostruzione che si sente schiacciato, affrontandolo in modo consapevole e serio.

 

Bridge – Le discorsività nel gioco politico-sociale

Posti in evidenza i tre punti fondamentali nella sezione precedente, ora possiamo orientarci verso i modi in cui la verità ottiene efficacia e forma sociale, oltre che contenuto: le discorsività.

Non le analizzeremo, in questa breve parentesi di approfondimento, in modo “genealogico”, ovvero individuando più che delle forze sottostanti un insieme di fattori congiunturali che hanno permesso la nascita e diffusione ed efficacia di una discorsività. Seppur interessante ed utile, tale compito è già stato svolto da Foucault in modo egregio (specialmente nei corsi dal 1970 al 1979 al Collège de France), con l’obiettivo che “non sarebbe tanto di fabbricare degli attrezzi, ma di costruire delle bombe, perché una volta utilizzate le bombe che si sono costruite, nessun altro potrà servirsene”. Il suo ruolo “non è tanto [occuparsi] del problema della sociologia delle classi, [quanto] del metodo strategico relativo alla lotta”. Essa si fa correttamente attraverso delle organizzazioni politiche (partito, sindacato, consiglio) come già osservato e teorizzato dal radicalismo del 1800, ma anche attraverso propaganda e contropropaganda, con produzione culturale (quanto viene sottovalutato il ruolo di una narrativa o cinematografia proletaria!) quanto elaborazione filosofica, e del resto anche con l’azione diretta, la solidarietà alle minoranze o ai gruppi oppressi, l’aiuto nei posti di lavoro ai lavoratori scioperanti ecc.

Nella sezione che segue faremo un “volo di gabbiano” su due periodi principali della Grecia Antica, quello Classico e quello Ellenistico, allo scopo di esaminare come dallo stesso problema, ovvero la riforma della polis, determinati tipi di produzione veritativa (tesi di fondo, mentalità) facciano sgorgare tipi di prassi politica, filosofica, sociale e normativa diversi tra loro e con effetti a loro volta diversi.

Ciò che è importante mettere in evidenza è il ruolo appunto “strategico” dei discorsi in quanto usati per giustificare o per delegittimare un’organizzazione del potere, un’istituzione, un’usanza; la produzione della verità necessita di fonti prime, che possono essere site nell’uomo singolo e individuale (questo avviene oggi specialmente), nella natura (sofismo/cinismo), nella collettività (normativa/diritto positivo), nella sacralità (teocrazia); e parte delle “mosse” discorsive è la dislocazione o il rafforzamento di tali fonti. Che poi se la religione è fonte di verità non sono automaticamente i preti, o il clero in generale, a detenere il potere politico diretto: storicamente abbiamo potuto osservare la figura di mediazione del sovrano fare da ponte tra i signori feudali guerrieri e il ceto religioso; sia la guerra sia la religione erano fonti di verità e di legittimità per quanto riguarda la capacità, la meritevolezza di un sovrano.

Nelle lezioni del 1978-1979 al Collège de France raccolte nel libro “La Nascita della Biopolitica”, Foucault, discutendo del neoliberalismo e in particolare dell’ordoliberalismo tedesco, parla di come il mercato diventi “fonte di verità”, sia il rivelatore di una politica giusta o sbagliata, di un sovrano meritevole e capace o meno. Nella discussione della prossima sezione ciò che vedremo saranno un insieme di “mosse” strategiche che decentrano la sorgente di verità per una critica del potere, oppure a tentativi di minare il potere dal suo stesso fondamento, oppure a tentativi di salvarlo sempre ricorrendo o ad una altra fonte o alla stessa ma rivisitata in qualche modo.

 

La questione della verità nella Grecia antica

La Grecia classica

Seppur con riferimento a (solo) due grandi testi, ovvero la Storia Alternativa della Filosofia di Costanzo Preve, e le lezioni di Foucault del 1971-72, la nostra esposizione vuole catturare il “cuore” pulsante della produzione veritativa greca. Nelle sue lezioni, Foucault traccia la genealogia del diritto greco, dove inizialmente le famiglie nobili tramandavano in via orale le leggi e il giudizio veniva svolto con preventiva ammissione del colpevole o, in caso di giuramento falso, la punizione degli dèi; per approdare secoli dopo alle tavole scritte di legge, e a procedimenti giudiziari tramite tribuna popolare. Una cosa davvero simile era accaduta anche a Roma, risultando con la sanzione della legge scritta sulle XII Tavole.

Foucault espone anche la relazione della verità con il divino, la relazione degli dèi con la città, i rapporti di forza nella polis che le hanno fatte evolvere. L’autore parla poi di come l’ascesa economica (grazie all’espansione del commercio) e militare (gli eserciti oplitici erano costituiti da “cittadini in armi”, e non più da sola cavalleria nobile) del piccolo artigianato e commercio rafforzò i ceti medio-bassi, creando una dissonanza tra i reali poteri della polis e il sistema giuridico ereditato dal passato, palesemente sotto il controllo dell’aristocrazia; il popolo dei “cittadini comuni”, forte di maggiore influenza economica e militare, poté ottenere la scrittura delle leggi, che ora erano di dominio e, di conseguenza, creazione pubblica: la base della democrazia. La lotta tra δῆμος (demos, popolo) e ἄριστοι (i “migliori”, i nobili) si tradusse in una lotta per la legge orale o per la legge scritta: ciò evidenzia a) la sempreverde pianta della lotta di classe, b) come le sovrastrutture cambino in virtù della struttura economica, e c) che le sovrastrutture non sono neutrali, ovvero l’organizzazione politico-giuridico-ideologico-religiosa può essere benefica ad una o un’altra parte sociale.

La differenza tra la primordiale organizzazione aristocratico-guerriera degli Achei e la moderna polis democratica Greca era infatti non solo “sociale”, ma anche economica, politica, culturale. E se, in tempi arcaici la religione era rivelazione della verità, la fonte della verità (rigorosamente in mano all’aristocrazia che amministrava i riti liturgici), in tempi classici lo era diventata la filosofia; una disciplina veritativa, alla ricerca dell’ἀρχή [archè, principio] della polis e della natura, della κοινωνία [koinonia, fondamento comune], del μέτρον [metron, misura], al fine di scongiurare l’ὕβϱις [hybris, eccesso, tracotanza]. Una ricerca finalizzata all’armonia, all’equilibrio della comunità, da Parmenide definita Essere sferico [da σφαιρικός, sfairikos, sferico, “globale, totale”], da Democrito definita Atomo [ἄτομος, indivisibile] ecc.

Tutto ruota intorno a questo aspetto comunitario, e se ne fa portavoce la filosofia, ne è fonte, ne è strumento. A tal fine ritengo importante il dilemma Socrate-Sofisti-Platone, perché esso racchiude un problema estremamente importante: è il primo grande confronto (che ci sia agevolmente pervenuto tra le mani, e con una importante diffusione oggi) tra discorsi: verità “interiore”, verità “esteriore” e verità “ideale”.

 

Socrate, i sofisti e Platone: paradigmi veritativi differenti

Socrate sosteneva il ruolo pedagogico del dialogo, della “maieutica” (ovvero dell'”arte ostetrica”), e per dei motivi importanti. Infatti, coloro che prendono parte al “parto” sono la “partorente”, l'”ostetrica” e il neonato. L’ostetrica ha il ruolo di aiutare la partorente a far uscire il neonato, non per forza con la violenza, con gli strattoni, ma anche solo dando l’indicazione di respirare o di spingere al momento giusto. La partorente è l’origine del neonato, il neonato è prodotto da essa. Quello che cercava di fare il buon ostetrico Socrate era impedire che i bambini piovessero dal cielo degli dèi o dall’Acropoli dell’aristocrazia; ma venissero dall’interlocutore, dal cittadino. La verità non si cercava più “al di fuori”, nel governo della polis o negli insegnamenti, come testimonia la lettera VII di Platone (qui il testo completo) nella quale egli ricorda la decadenza di Atene e l’onnipresente ingiustizia. Appellarsi allora all’intimo senso di giustizia, di bellezza, di coraggio ecc. delle persone è stato il capolavoro di Socrate; non con l’obiettivo di insegnargli qualcosa, oppure di fare una catasta di opinioni, ma per costruire insieme un insieme di definizioni, di obiettivi, di idee.

Tale “sommovimento” delegittimante la classe dominante (che Socrate provocava con il suo “saper di non sapere”) non è ben chiaro come contestualizzarlo a livello politico, perché di Socrate si sa tutto sommato poco, ed egli era critico anche del dominio spartano (tanto che quando i Trenta Tiranni lo incaricarono di arrestare un generale della guerra del Peloponneso, pur di non commettere un’ingiustizia, piuttosto che andare a Salamina egli tornò a casa), ma ciò che possiamo ipotizzare era un progetto di rifondazione della polis, e sappiamo per certo che il metodo dialogico contrastava con il metodo monologico dei sofisti (che si ritenevano saggi, a differenza degli interlocutori cui insegnavano) e che sosteneva una giustizia più alta di quella della città (nell’Apologia, Socrate si appella a quella degli dèi), oltre che il ruolo particolare del filosofo come inquisitore della realtà; comunque Socrate ritrova la Verità nel tessuto della comunità, mentre per Platone la cosa sarà un po’ diversa.

Per i sofisti, con il fallimento della comunità si profilava il collasso della verità comunitaria stessa. Questo portò ad un’ottica relativistica e individualistica, dove la verità è l’opinione del saggio più saggio (o bravo a convincere della propria saggezza) dell’altro. Siccome la verità non si poteva costruire nella comunità (per cui bisognava riferirsi agli individui), né essa era contenuta in tutti gli uomini, l’insegnamento e lo sviluppo della retorica furono l’arsenale ideologico e tecnico della lotta sofistica; è un discorso non dialogico, non dialettico, bensì retorico, eristico, oratorio, monologico. Con la scomparsa della verità del Νόμος (nomos, legge, regola) c’è un ripiego verso la φύσις (physis, natura), ritenuta come portatrice di un fondamento etico più “radicale” e “vero”. Ciò implica però che la verità allora non è qualcosa che si costruisce, bensì che si scopre: questo è il fondamento che dà senso alla figura del saggio, che ha scoperto la verità e che può insegnarla agli altri.

Platone, a diritto il figlio intellettuale di Socrate, ne raccolse il testimone continuando la lotta antisofistica del maestro; la sua opera è sterminata, e qui non è il luogo (né io ho le competenze) per affrontarla. Detto ciò, voglio far notare tre aspetti del pensiero platonico:

  • Il ruolo veritativo-politico della filosofia
  • L’elaborazione di un metodo conoscitivo: la dialettica
  • La critica alla società

 

1 – Il ruolo veritativo-politico della filosofia

Al giorno d’oggi può parere strano il ruolo fondamentale che Platone assegnava ai filosofi nell’organizzazione della città. Com’è possibile che volesse dei blateroni al governo piuttosto che degli economisti, o degli strateghi militari, o dei tecnici in generale ?

La nostra difficoltà è concepire una verità di tipo filosofico: oggi la verità infatti è scientifica, è economica. Ma in quel contesto la verità era morale, etica, estetica, religiosa; in un certo senso, l’economia e la scienza (e le persone che ne facevano le veci) non avevano ancora abbastanza influenza sulla società perché tali discorsi potessero avere un’importanza. Per Platone la verità da trovare era quella filosofica, il Bene e le idee che ogni cittadino conservava dentro di sé (qui fa capolino il pensiero di Socrate), ma che i filosofi avevano conosciuto meglio durante il tempo speso nell’Iperuranio. Insomma, i filosofi erano ritenuti più sensibili al bene e all’ideale.

Questo gli permetteva di poter valutare con saggezza i princìpi coi quali regolare la polis. Tale “ceto” di filosofi-governanti avrebbe dovuto vivere in comunione assoluta (pur non essendo comunismo come inteso da noi, leggi qui) per non essere suscettibili alle tentazioni del denaro, della ricchezza e del possesso, perché in caso contrario:

[…] condurranno tutta la loro vita odiando e odiati, insidiando e insidiati, temendo molto piú spesso e molto di piú i nemici interni che gli esterni; ed eccoli già correre sull’orlo della rovina, essi e il resto dei cittadini.

(Platone, Opere, vol. II, Laterza, Bari, 1967, pag. 240)

Il ceto dominante dei philosophes sarebbe stato necessario a causa dell’illusorietà del mondo, nella quale cade la maggior parte delle persone: si pensi al mito della caverna, in cui l’ombra è il “mondo” della δόξα [doxa, opinione], nella quale vivono gli uomini, a parte pochi che riescono ad uscire e contemplare il mondo delle Idee, inizialmente venendo accecati all’uscita dall’oblio e scoprendo la verità ἀλήθεια [a-letheia, assenza di oblio, disvelamento], per i quali la verità è disvelata ma che, cercando di portarla agli uomini del mondo delle ombre, vengono derisi, picchiati e infine uccisi. Platone infatti scrive:

E se dovesse discernere nuovamente quelle ombre e contendere con coloro che sono rimasti sempre prigionieri, nel periodo in cui ha la vista offuscata, prima che gli occhi tornino allo stato normale? e se questo periodo in cui rifà l’abitudine fosse piuttosto lungo? Non sarebbe egli allora oggetto di riso? e non si direbbe di lui che dalla sua ascesa torna con gli occhi rovinati e che non vale neppure la pena di tentare di andar su? E chi prendesse a sciogliere e a condurre su quei prigionieri, forse che non l’ucciderebbero, se potessero averlo tra le mani e ammazzarlo?

(Platone, Opere, vol. II, Laterza, Bari, 1967, pag. 342)

I falsi leader, coloro che si nutrono di oscurità, menzogna e inganno sono i più grandi nemici dei filosofi perché hanno più da perdere degli altri con la redenzione, con il disvelamento della verità. Inonda di luce la tana del verme ed egli si contorcerà fino a nascondersi di nuovo. Platone raccontava amaramente la fine del suo maestro, Socrate, sfortunato ad esser effettivamente caduto nelle mani degli sciocchi osservatori dell’ombra.

 

2 – L'elaborazione di un metodo conoscitivo: la dialettica

Come districarsi nell’ombra, nell’opinione, per poter creare verità e sapere ? Platone su questo aspetto è stato il fondatore della dialettica; spiegato dal suo alter ego letterario Socrate…

– Non sarebbe affatto privo di ricompensa cogliere scientificamente il significato di due procedimenti. … Uno: abbracciare in uno sguardo d’insieme e ricondurre ad un’unica forma ciò che è molteplice e disseminato affinché, definendo ciascun aspetto, si attinga chiarezza intorno a ciò di cui si intenda ogni volta insegnare….

» E qual è l’altro procedimento che dici, o Socrate?

– Consiste nella capacità di smembrare l’oggetto in specie, seguendo le nervature naturali, guardandosi dal lacerarne alcuna parte come potrebbe fare un cattivo macellaio.

(Platone, Fedro, 265 d-e)

Essenzialmente la dialettica è un procedimento conoscitivo che crea differenza, smembra l’oggetto in specie a partire da un oggetto inizialmente intero, omogeneo, inconosciuto. La differenziazione viene creata nel moto del pensiero, in un metodo tendenzialmente dicotomico, ovvero distinguendo una cosa dall’altra; poi, in essa, possono distinguersi ulteriori determinazioni diverse e così via.

Avendo svolto tale differenziazione, per Platone si rende necessario ricomprendere tutto ciò nell’unica forma (diremmo noi nell’universale), avendone perciò mostrato la concretizzazione: il risultato del procedimento è che l’universale si è reso concreto, e il particolare ha ricevuto connessione, è partecipe di qualcosa che prima poteva non essere evidente. In termini hegeliani diremmo che abbiamo una comprensione del particolare, ovvero di un oggetto singolare che compartecipa dell’universale, e nel quale l’universale prende forma.

Tutto ciò avviene per Platone in forma dialogica: la centralità del λόγος [logos, discorso] è ovviamente greca; ma la differenza tra dia-logo, un discorso-interlocuzione in due, e un mono-logo di un esperto da solo, è che la verità si trova insieme con parità di parola [ἰσηγορία, isegorìa], per cui confronto. Invito il lettore a leggere il link collegato ad ogni parola greca per approfondimento. Le idee vengono sì “ricordate”, ma ciò avviene tramite il confronto, tramite il dialogo, tramite lo spostarsi dell’indagine lungo linee inaspettate; il dialogo maieutico non perde importanza con Platone, anzi l’enorme maggioranza delle sue opere sono scritte sotto forma di dialogo.

L’obiettivo però non è la conoscenza speculativa: il sapere è anche politico, sociale, morale, pratico, e per questo il filosofo deve poter valutare ciò che ha appena conosciuto per poter dire se è bene o male, cosa farne. Per questo motivo, Platone introduce i “miti fondativi”, ovvero dei racconti che forniscono il paradigma valutativo con il quale poter dare un giudizio su quanto conosciuto dialetticamente.

Deleuze, a riguardo, dice:

Tale fondamento si trova determinato nel Fedro sotto la forma delle Idee, così come sono contemplate dalle anime che circolano al di sopra della volta celeste; nel Politico, sotto la forma del Dio-pastore che presiede di persona al movimento circolare dell’Universo. Centro o motore del circolo, il fondamento è istituito nel mito come principio di una prova o selezione, che conferisce tutto il suo senso al metodo della divisione fissando i gradi di una partecipazione elettiva.

[…]

Partecipare vuol dire avere parte, avere dopo, avere in secondo grado. Chi possiede in primo grado è il fondamento. Solo la Giustizia è giusta, dice Platone; quanto ai cosiddetti giusti, essi possiedono in secondo, in terzo o in quarto grado… o in simulacro, la qualità di essere giusti. Che solo la giustizia sia giusta, non è una semplice proposizione analitica. È la designazione dell’Idea come fondamento che possiede in primo grado.

(Gilles Deleuze, Differenza e Ripetizione, Raffaello Cortina Editore, 2018, pagg. 86-87)

Il mito fondativo, allora, costituisce il paradigma valutativo per rendere la ragion pura speculativa, dialettica, differenziante, una ragion pratica, un pensare morale. La filosofia platonica è valutativa (ciò è necessario specialmente se è ciò di cui si occupano i governatori della polis); così che il sapere diventa pratico, normativo, morale, veritativo, ed esce dai corridoi speculativi dei “blateroni” di oggi. Il compito del re-filosofo era la scoperta e il mantenimento di un metron, la misura di ogni cosa, per cui conoscerla e trovare dei “freni” [κατέχων, katechon] che impedissero l’eccesso, la tracotanza (la hybris).

 

3 – La critica alla società

Platone, inoltre, fu uno dei primi critici filosofici della sua realtà: la polis aveva ucciso il suo mentore, i sofisti diffondevano il veleno del relativismo coi loro discorsi oratòri e la legge non veniva rispettata. Il filosofo allora scrisse di una Repubblica, una polis organizzata idealmente; la mossa di Platone svolge il doppio ruolo di criticare ciò che gli stava intorno (specialmente in altri dialoghi), come di proporre qualcosa di diverso. Non avendo i greci una concezione della storia come la nostra, non poteva fare una critica “in avanti”, del tipo «ci aspetta qualcosa di diverso, un rivoluzionamento nella società che ci porterà a…», bensì ne fa una “in alto” dicendo «la verità è un’altra».

Ovvero, Platone è stato uno dei primi critici sistematici del mondo nel quale viveva. Non un pessimista, come ad esempio Schopenhauer; ma un riformatore, qualcuno che voleva ri-formare la comunità secondo altri principi, migliori. Il potere ad Atene non era amministrato e detenuto in modo “vero”, “genuino”, allora questa inconformità alla verità avrebbe portato la città a decadenza, fallimento, spregio agli dèi, disarmonia. La “non conformità alla misura” apre le porte al mondo dell’eccesso, del conflitto, della fine della città intesa comunitariamente.

Ciò a differenza dei sofisti, che invece eseguivano una critica «verso il basso», indicando le radici reali del diritto e dell’equilibrio nella physis, nella natura. La repulsione tra Platone e Sofisti era dovuta alla visione radicalmente diversa riguardo la possibilità di elaborare una etica comunitaria (perché per i sofisti non si trattava di elaborare, bensì di insegnare/scoprire), e per Platone assumevano questo ruolo pericoloso di scardinatori del valore del nomos. In questo, vedremo come nella filosofia ellenistica ci sono molti rimandi “sofistici” per quanto riguarda la soluzione al fallimento della polis e, per inferenza, del nomos.

Al tempo di Platone era anche diffuso il cinismo (di cui Diogene di Sinope è il più celebre esempio), che proponeva anch’esso un ritorno al vivere “naturale” dell’uomo, letteralmente come i cani (κύων, kyon) secondo gli altri abitanti di Atene che guardavano disgustati questi uomini vivere per strada apposta. Sono famosi gli scambi tra Diogene e Platone, nei quali spesso Platone aveva la peggio retoricamente parlando (Platone stava insegnando alla sua Accademia che cosa fosse l’uomo, categorizzandolo come un bipede senza penne, e Diogene irruppe nella sala brandendo un pollo spennato urlando “Questo è il tuo uomo!”), ma questa “furia del dileguare” e del “distruggere” di questo filosofo cinico che tentava appunto un “ritorno alle radici” era di enorme intralcio al programma di riforma e riqualificazione del nomos da parte di Platone. Due tipi di critica diversi che si fanno portatori di due programmi profondamente diversi. Ricorderei che è molto più facile, perlomeno retoricamente, distruggere piuttosto che creare e costruire, e per questo Diogene (complice anche un senso dell’humor di tutto rispetto) sembra così simpatico; ma al di là della simpatia giace un programma politico di ostacolamento verso coloro che cercavano di rifondarla nel nomos e in senso comunitario.

 

Il mondo ellenistico

Nel passaggio da età classica ad età ellenistica si rese evidente l’estremo stato di esaurimento delle poleis greche a causa delle continue guerre tra loro, con la Persia e infine per la conquista del gangster (grazie a Costanzo Preve per il termine) Alessandro Magno. Con il rafforzamento del mercato schiavistico, le logoranti guerre, le epidemie e l’impoverimento del popolo, l’uguaglianza nella polis (che doveva oltretutto sottostare al dominio macedone, per cui la democrazia sarebbe stata “scomoda” per i dominatori), l’ἰσοῤῥοπία [isorropia, equilibrio], è stata sostituita da miseria e polarizzazione sociale.

Questo ha portato a due tipi di reazione: quella epicurea, ovvero la “ritirata” nel “giardino degli amici” dell’eredità comunitaria che prima si estendeva a tutta la città, e quella stoica di disobbedienza e protesta tramite indecenza (Ἀναίδεια, anaideia), in parte assorbita dal cinismo, come di “ritirata” nella coscienza e virtù individuale.

In un certo senso l’epicureismo si posiziona a metà tra la grecità classica e il “puro ellenismo” individualistico, data la sopravvivenza a livello comunitario della ricerca e rispetto di un metron, di una misura, di un contegno, di un limite; è importante come però il centro della vita non sia più la polis, bensì un sottoorgano, una sottocomunità, un “posto protetto”, al sicuro dal mondo esterno e nel quale si poteva godere della solidarietà dei compagni.

Lo stoicismo è invece il rinculo completo del disfacimento ellenistico della città: l’etica, la virtù, la responsabilità diventano esclusivamente individuali, e si cercano anche strumenti di protezione nei confronti del mondo esterno. L’atteggiamento di imperturbabilità (atarassia), l’analisi di quanto rientra nel nostro controllo e di quanto no, la coscienza consolatoria dell’inevitabilità della morte, dell’aver “fatto il possibile”, sono tutti indici di un ritrarsi dell’uomo dall’essere comunitario ad una dimensione duale me/non me, interno/esterno, che i greci classici non potevano comprendere appieno in quanto tali problemi non potevano porseli.

Hegel cataloga tali filosofie come “interiorità all’ombra del potere” e propugnanti “falsa libertà”, in quanto queste concezioni ormai individuali (o ristrettamente comunitarie) della libertà, della virtù e della giustizia non scalfiscono la reale non-libertà, la reale non-virtù, la reale non-giustizia collettivamente praticata. In un certo senso, sono l’arresa all’incontrollabilità dell’esterno per ripiegare verso qualcosa di interno, sia esso individuale o sottocomunitario.

Ma la cosa che caratterizza lo stoicismo in modo particolare è il ripiegare della fonte di verità della comunità, dal Νόμος (nomos, legge, regola) alla φύσις (physis, natura), all’interiorità dell’individuo o a quanto è più radicale rispetto alla comunità cittadina. La morte della verità “esterna” porta alla ricerca di qualcosa di interiormente vero, che possa riscattare e confortare la devastazione fuori dall’io. L’etica “naturalistica” dello stoicismo e l’individualismo sono ereditati dalla sofistica classica e dal cinismo di Diogene, che influì su e confluì nello stoicismo stesso. Non è nemmeno indifferente osservare, e ringrazio Preve per aver riportato esempi così preziosi, la natura “comunistica” dell’epicureismo e le tendenze critico-rivoluzionarie di diversi stoici (Sfero di Boristene tentò di reintrodurre la costituzione di Licurgo in modo più egualitario, senza ceti, Blossio di Cuma, sostenitore di Gracco ed emancipatore degli schiavi in Asia Minore, Evemero che scrisse la Sacra Iscrizione, testo utopico, e Giambulo che racconta di un viaggio fantastico in una terra dell’abbondanza).

Questo in parte per rispondere a Hegel per quanto riguarda l’arrendevolezza di tali movimenti; è indubbio però come le filosofie ellenistiche fossero una radicalizzazione della protesta contro il disfacimento della polis. Ed è assolutamente importante vedere come la “fonte” di verità sia allora stata trasportata dal nomos della polis alla physis, natura, o al nomos della comunità di compagni. La mossa ideologica del trovare una nuova fonte di verità è importante perché desautora le altre, fornendo il terreno teorico per l’elaborazione di ideologia e verità che spingono per il cambiamento dei rapporti di potere nella polis.

Nonostante tali atteggiamenti critici, l’individualismo fu allora un ripiegamento importante, anche perché evidenziava un certo tipo di aspetti (quelli individuali) e nascondeva quelli comunitari. Abbiamo a che fare con un occultamento-svelamento del tipo che abbiamo menzionato nella prima parte dell’articolo; ma è forse intrinsecamente negativo?

 

Le impostazioni teoriche: neutrali o partigiane?

Per quanto nel corso dell’articolo abbiamo avuto una leggera avversione all’individualismo, è importante considerare che la focalizzazione sull’individuo non è di per sé negativa (non è forse una parte della realtà anche quella ?), o positiva. Partiremo da un esempio diverso per capire per analogia e contrasto in che modo un approccio possa essere bivalente.

Nel corso del 1600 e 1700, in Inghilterra e Francia, i regimi subirono forti scossoni: nella prima la borghesia voleva delegittimare la monarchia puntando all’origine “conquistatrice” dell’aristocrazia normanna sul terreno del popolo sassone; nella seconda l’aristocrazia voleva combattere la crescente apertura del monarca nei confronti della borghesia (a cui vendeva titoli nobiliari e affidava cariche amministrative) delegittimando monarchia e borghesia come falsi eredi di Roma. Questo terreno teorico dell'”origine” fu poi usato dalle parti attaccate per controbattere; è la nascita di un discorso, di un ambito di problematizzazione della realtà circostante.

Oppure la forma contrattualistica, mediata dalla creazione di uno “stato originario”, ha fatto da scheletro a due teorie della società: quella di Rousseau, nella quale l’uomo corrotto dallo stato originario dal diritto di forza si “emancipa” in una società della Volontà Generale; e quella di Hobbes, nella quale la società della sfiducia, lo “stato naturale” (a riguardo gli appunti di Foucault sono molto interessanti), viene messa in ordine con la remissione della propria forza e diritto nelle mani di un sovrano, il Leviatano. Ci interessa l’uso dello stesso impianto teorico per giustificare da un lato un sistema Repubblicano, dall’altro uno Monarchico: ovvero lo stato originario e il fondamento contrattual-individuale del governo. Le strade poi divergono, giustificando due sistemi contrapposti.

Il potere si è sempre giustificato, e non solo in questo modo; per fare un rapido elenco, possiamo ricordare la giustificazione religiosa (monarchia assoluta), la giustificazione di valore bellico (monarchie feudali), la giustificazione contrattualistica (~XVIII secolo), la giustificazione nazional-culturale (XIX-XX secolo), la giustificazione economica (secondo XX secolo). Ovvero, il potere di volta in volta si è fregiato della capacità di essere vincitore sul campo di battaglia, oppure benedetto da Dio, oppure volere del Popolo, oppure unità della Nazione, oppure miglior mezzo per gestire l’economia, per giustificarsi. Giusto per parentesi, questa non è una lista cronologica, tutte queste si compenetrano al giorno d’oggi in forme e proporzioni diverse; è però di interesse capire quale sia egemone, dominante, dove e perché. È importante però che tali “discorsi” sono stati anche campo di delegittimazione, di controcondotta: basti pensare alla Riforma Protestante, ma come a movimenti comunisti cristiani (Ernst Bloch è uno dei massimi pensatori in questo senso), che usano il discorso religioso stesso in senso critico e ben diverso dalla giustificazione della monarchia e del potere della Chiesa. Ma possamo anche pensare all’utilizzo dell’individualismo (premessa del contrattualismo) volgendolo anche contro lo Stato (l’anarchismo di Max Stirner è un esempio, o Lysander Spooner) e alle disuguaglianze piuttosto che come arma teorica del “quello degli altri non mi riguarda”, o come ad esempio il discorso dell’origine e dell’eredità è stato luogo di scontro di borghesie e aristocrazie, o come ancora l’unità nazionale del Fascismo poteva essere minata dall’interno da particolarismi locali secessionistici.

Ciò che abbiamo davanti, allora, è un autentico Kampfplatz, come lo chiamava Kant: letteralmente “campo di battaglia” (di cui, tradizionalmente, si è sempre esaltata l’importanza della “battaglia”, ma con la nozione di discorso possiamo dare la giusta importanza anche al lato del “campo), dove ci si contende roccaforti, corridoi strategici, si compiono manovre e si sparano palle di cannone; il nostro obiettivo è capire se possiamo usare le risorse del nostro nemico, e usarle contro di lui.

Parte del nostro sforzo si muove in questa direzione: partendo dall’impianto concettuale di un’epoca, è possibile rivoltarsi contro di essa ? Per noi figli di un’era dominata dal neoliberalismo, dall’individualismo, dal problema dell’espressione, il comunismo si articola in modo diverso dall’eguaglianza, diventa anche una questione di espressione dell’individuo; allo stesso modo i “capitalisti”, o per altro dire gli apologeti, tendono a considerare il comunismo come un nivellement assoluto, l’eliminazione della differenza tra uomini a causa di un’uguaglianza totale, lo stampino; oppure, per altri versi, la considerazione egoistica della “natura” umana che si rivelerebbe incompatibile con la produzione e la redistribuzione comunitaria; o ancora, l’assenza di una verità esterna e il nichilismo atomistico-relativistico dell’opinione: <<Come puoi “forzare” una persona a pensarla come te ? Ognuno ha la sua opinione, perciò ognuno fa come vuole!>>

Parrebbe strano, ma al giorno d’oggi esistono persone che pensano queste cose, e sono tante. Possiamo però, da questi luoghi comuni, capire quali siano le preoccupazioni delle persone di oggi (e, nel caso fossero “impiantate” da altri e “inautentiche”, dispellere andandone a fondo), per poi mostrare l’insostenibilità delle posizioni di cui si fregiano con una critica immanente. Come fece Marx, nel 1867, con il Capitale: una Critica dell’Economia Politica, trovando i nessi sotterranei, le premesse non dette ed evidenziando le conclusioni paradossali e contraddittorie degli assunti capitalistici: un sostanziale sommovimento, sollevamento, scrostamento della patina ideologica di cui si faceva portatrice l’economia politica classica, usando contro essa stessa il suo contenuto di verità, come le sue menzogne. Una critica dell’economia politica svolta con le categorie dell’economia politica.

Noi non possiamo “fuggire” dalla nostra cultura. Possiamo però, all’interno di essa, muoverci nelle direzioni che vogliamo, seppur affrontando il mondo col taglio della nostra epoca a causa dei problemi che ci si parano davanti, e con la relativa “problematizzazione” che ne consegue. Essa allora fornisce strumenti con potenzialità e limitazioni, fa da superficie e campo nel quale si può (e deve) muovere un movimento di critica e di prassi, permettendoci inoltre l’uso di eredità, tradizioni dal passato, oppure degli slanci e delle potenzialità del futuro contro il presente.

 

Il doppio compito della critica

“De omnibus dubitandum”, il motto di Marx, rispecchia il suo animo di ricerca e di contrapposizione alla “opinione comune”, come d’altro canto a molti altri compagni socialisti e infine a sé stesso, nel suo costante moto di scrittura e revisione, di ideazione e di rifiuto, che era il suo modo di scrivere e pensare. Un costante stato di instabilità, non però instabilità “cattiva” di vuoto e di nichilismo, bensì instabilità “buona” di costante correzione e studio della realtà allo scopo di capire nel modo migliore possibile il mondo. Il suo strumento era la critica: dalla sua radice greca κριτικός, “giudicare”, era una presa di posizione nei confronti del mondo e della società.

Non si tratta però della critica “assoluta” di Bruno Bauer, che più tardi nella sua vita si separerà e contrapporrà a Marx dopo una lunga amicizia; la sterile critica di Bauer nasceva dalla convinzione che il sommovimento ideologico fosse sufficiente a creare cambiamento (più tardi nella sua vita egli si ritirò a vita privata in isolamento a Rixdorf, vicino Berlino).

La vita di Marx, oltre che la sua opera, testimonia il suo tipo di critica: agitatore, frequentatore dei circoli operai, giornalista, perseguitato, rivoluzionario, comunista; la critica di Marx era concreta, non astratta. Questo influiva sia sui suoi contenuti, perché il pane che masticava Marx era la realtà politica e gli eventi storici nei quali viveva, sia sulle conseguenze del suo pensiero rispetto a quello di Bauer, con il primo che ha influenzato movimenti rivoluzionari e non di tutto il XX secolo, segnandone la storia, e il secondo che viene ricordato più per le risposte di Marx che per le sue opere stesse. Per cui la critica essenzialmente deve essere pratica, politica, seppur possa orientarsi nelle direzioni più diverse come una teoria dell’estetica o la metafisica (ad esempio la teoria estetica di Lukacs).

L’obiettivo della nostra critica non è apologetico, non vuole giustificare ciò che c’è, ma vuole anzi sommuovere, lacerare lo stato di cose esistente. Allora il suo compito si rivela duplice: creare aperture nel presente e indicare la direzione da seguire nel futuro. Come ? La prima funzione viene assolta dalla critica immanente, in quanto mostra le aperture, le inconsistenze, le contraddizioni e i limiti del sistema nel sistema stesso, col sistema stesso; crea quella instabilità di cui parlavamo prima. La discriminante tra instabilità “buona” o “cattiva”, una costruttiva e una nichilistica, è la presenza di un principio orientativo; per cui serve anche una critica trascendente, che critica qualcosa “da fuori”, oltre le aperture create dalla critica immanente.

Che senso ha tutto questo ? Proviamo a pensare a come Marx, con la sua Critica dell’Economia Politica, abbia detonato una mina dentro l’economia politica classica, che fu progressivamente abbandonata (anche a causa della “nascita” del Marginalismo); se avesse subito criticato da fuori tale impostazione, essa si sarebbe potuta salvare perché la sua logica, seppur attaccata dall’esterno, al suo interno rimaneva salda: con il Capitale, invece, Marx la invalidò dall’interno impedendo ai suoi professatori di portarla avanti, a meno di cambiamenti sostanziali.

Abbiamo esaminato anche la lotta per la polis, operata tramite spostamenti e scarti, cambi di posizione rispetto alla tramontante etica comunitaria. In quel caso non abbiamo una critica immanente, anche a causa della sua formalizzazione teorica (oltre che alla “scoperta” della contraddizione reale) da parte di Hegel due millenni dopo; ma possiamo osservare l’uso della critica trascendente, tramite dislocazioni della fonte di verità altrove dall’oggetto, ad esempio criticando il nomos della polis in quanto “non conforme a natura”, pertanto fornendo il paradigma etico e la fonte veritativa a cui riferirsi, oltre ad invalidare l’oggetto criticato. In un certo senso anche Platone faceva una critica trascendente perché positivo e scostato dall’oggetto criticato (la normatività sociale della polis), seppur con l’obiettivo di riformarlo e non di scalzarlo, all’interno; una critica che fissava una fonte di verità diversa ma che manteneva la forma del nomos e la soluzione dei problemi della polis in esso.

La critica immanente, allora, opera una Destruktion, non tanto una distruzione nel senso di “annullamento”, quanto di destabilizzazione e riapertura di problemi dell’oggetto stesso, che sia un’ideologia, un modo di governo, un sistema economico o altro; la cosa fondamentale è che tale critica non è positiva in senso di creativa, bensì è una mossa preparatoria alla riapertura e ridirezione secondo un altro principio, o logica, o potere. Forse il lato più interessante della Critica dell’Economia Politica è che essa non è altro che l’inizio, il rischiaramento della nebbia prima della scelta della strada da intraprendere.

La critica deve allora essere sia immanente sia trascendente, perché l’una senza l’altra non riesce ad aver senso, e provoca soltanto confusione e divisione. Tale metodo è propedeutico ad introdurre le persone a sistemi di pensiero e prassi nuovi; un esempio ? La alt-right americana. In questo articolo su Medium, l’autrice spiega come l’estrema destra neo-nazista americana “adeschi” le persone (spesso giovani) introducendole piano piano all’antisemitismo e al conservatorismo prima fomentando il dubbio (questa tecnica si chiama gaslighting) e poi, nei varchi aperti dall’incertezza, facendo filtrare poco a poco la discriminazione razziale, l’identitarismo, il nazionalismo e il fascismo. Seppur in altri termini, intellettualmente meno elaborati, o agganciati a determinate tradizioni, non si tratta forse di fare prima una critica negativa e immanente e poi una positiva e trascendente ?

 

Nuove prospettive

Il problema è proprio questo: la “sinistra” in Italia è morta, e le frange più radicali faticano a costruire un’egemonia, sia ciò per prassi o per teoria sbagliata. L’estrema destra, intanto, si è “aggiornata” e riesce coerentemente, seppur dalle sue piccolissime nicchie, ad irradiare ideologie esclusivistiche, identitarie, razziste e nazionaliste. Il tessuto sociale è sensibile a questi temi perché la questione dell’identità oggi forse è più cocente e sentita che mai, anche a causa dell’avvertito pericolo “globalistico” e uniformante dell’economia capitalistica; cito Michel Foucault:

La società civile si presenterà sempre come insieme limitato, come insieme singolare in mezzo ad altri insiemi. La società civile, pertanto, non coinciderà con l’umanità in generale, bensì sarà formata da insiemi che si collocano allo stesso livello oppure a livelli differenti, che raggrupperanno gli individui all’interno di un certo numero di nuclei. È la società civile – sostiene Ferguson a far sì che l’individuo “abbracci il partito di una tribù o di una comunità”. La società civile non è umanitaria, bensì comunitaria. Ed è la società civile, infatti, ciò che vedremo apparire nella famiglia, nel villaggio, nella corporazione, e che vedremo apparire anche a livelli più elevati, fino alla stessa nazione.

[…]

Il legame economico svolgerà, all’interno della società civile in cui potrà prendere posto, un ruolo assai singolare. Da un lato, unirà gli individui gli uni agli altri grazie alla convergenza spontanea degli interessi, ma sarà anche, nello stesso tempo, principio di dissociazione.

(Michel Foucault, Nascita della Biopolitica, Feltrinelli, Milano, 2015, pag. 248)

La destra, specialmente quella più radicale (e, sotto questo punto di vista, direi che tenere d’occhio Diego Fusaro è fondamentale), riesce a rispondere con chiarezza a tematiche come la manipolazione genetica, la questione dell’immigrazione, quella dell’utero in affitto, dei diritti sul lavoro e delle lotte sindacali: è intollerabile non prendere posizioni o non curarsi o essere confusi su questi temi, perché di non solo pane vive l’uomo e aggiungerei che da questo punto di vista bisogna rinsaldare il legame con l’arte, con la letteratura, con l’etica. Il male infinito che fa l’economicismo non è soltanto quello di dare una lente sbagliata per interpretare i fenomeni, portando a prassi sbagliata e a mancata visione teorica; ma anche quello di non curarsi di queste questioni “marginali”, “secondarie” perché esclusiva “manifestazione” del movimento dell’economia, l’ultimo vagone del treno. E spesso, a livello di prassi politica, molti partiti e movimenti che si dichiarano non economicisti o contrari a tale impostazione finiscono comunque per esserlo: ciò si riflette nella prassi sbagliata, nella concentrazione su temi parziali (non di poca importanza, bensì ristretti !) e nella dissonanza tra quello che preoccupa le persone e quello di cui si cerca di farle preoccupare.

Non si tratta dell’intellettuale “nella sua torre d’avorio”, o anche di partiti politici che non si rendono conto della realtà: è una scelta consapevole, sarebbe ingenuo incolpare di “disconnessione”; il punto è questo problema di costume, di “uso” e abitudine che prende forma in questo rifiuto formale dell’economicismo ma che, sostanzialmente, porta a comportamenti di questo tipo, che ovviamente allontanano il popolino. Questo avviene anche a causa di una sensazione di superiorità, e dell’insegnamento del Marxismo come il tramandamento di precetti religiosi, con tanto di iconografia (ritratti, simbologia) e di messe (con annesse omelie). Il vero peccato è che questo fa scontare il sapere accumulato e prodotto da questi partiti e movimenti, scansandolo in quanto si giudica chi lo dice e non cosa dice; un altro enorme peccato è tutta l’energia, dedizione, passione e tempo che viene dedicata a causa giuste, che però tramite una teoria e un metodo sbagliato portano alla messa in pratica di, essenzialmente, azioni che non riescono a cogliere nel vivo molte, troppe persone.

La proposta allora non è quella di “rovesciare l’economicismo sulla sua testa” in virtù di un ideologismo sfrenato. Senza caderci, è altrettanto giusto osservare come il concetto di egemonia culturale di Gramsci non possa essere trapiantato ovunque e comunque. Ciò che però è importante è saper cogliere lo spunto, capire cosa intendesse e sfruttarlo ragionevolmente: le organizzazioni comuniste non devono concentrarsi esclusivamente sull’ideologia con la propaganda e la critica culturale, come non devono concentrarsi esclusivamente sull’economia con la messa in evidenza delle contraddizioni del modo di produzione capitalistico e lo studio della politica internazionale; l’attenzione verso la geopolitica, gli sviluppi economici e gli scontri d’interesse sono senza dubbio fecondi, orientativi e fondamentali per l’azione di un movimento rivoluzionario, quello che si chiede (e che è richiesto) è però ascolto nei confronti della cultura, perché è la sublimazione di come le persone si autocomprendono.

Qui si manifesta un problema da affrontare: non ci si può limitare allo studio di ristrette cricche di autori marxisti, seppur siano acuti, approfonditi ed efficaci; un movimento rivoluzionario per esistere ha bisogno di essere in connessione con il mondo che gli sta intorno, e questo comprende anche la connessione con i fenomeni culturali di un’epoca. La capacità di un movimento rivoluzionario di fornire risposte alle persone, di essere chiaro e, seppur saldo nelle sue posizioni, comprensivo, è chiave per avere efficacia sociale. A riguardo il mio approfondimento di Martin Heidegger sta dando frutti inaspettati, perché a livello “di coscienza” egli è, come già detto in precedenza, non solo un condensatore di problematiche e pensiero borghese, ma anche un grande filosofo che ha dato risposte decisamente interessanti, seppur da prendere con piglio critico.

Non propongo qui un “comunismo ermeneutico” o un “pensiero debole”, per cui la verità è totalitaria, o una rivoluzione senza soggetto, propongo invece la messa in considerazione del modo in cui l’uomo comprende il mondo e si autocomprende, osservando perciò da vicino i contenuti culturali (come gli strumenti culturali) per trovare le tensioni che vivono le persone al fine di riuscire a connettersi con esse a livello più profondo. Il problema di oggi è che il soggetto rivoluzionario del proletariato esiste, ma è scisso, è perso, è frantumato e antagonizzato; è rivoluzionario virtualmente e non attualmente, ovvero lo è in potenza. Il punto è dare un’impostazione corretta del problema dal punto di vista oggettivo e soggettivo: secondo me dal punto di vista soggettivo serve più attenzione verso certe dinamiche.

Si può approfondire il confronto col pensiero di Martin Heidegger tenendo conto delle osservazioni del professor Roberto Finelli:

A me sembra infatti che tutta la filosofia dell’esistenziale, da Kierkegaard a Nietzsche, da Heidegger a Derrida, ha sempre visto il sociale come il luogo dell’inautentico e del falsificante: come il luogo di una vita gregaria e massificata, a cui opporre l’autenticità dell’individuazione. Insomma come il luogo delle false verità e dei fallaci universali – il luogo della supposta verità oggettiva -, cui opporre, come Leben contro Logos, esistenza contro essenza, il valore, unico e irripetibile, dell’individualità

(Roberto Finelli, “Comunismo Ermeneutico. Da Heidegger a Marx : note critiche”, filosofiainmovimento.it)

Ciò è assolutamente vero, ma non si può respingere il contributo heideggeriano sulle questioni esistenziali e, direi, di comprensione ed autocomprensione. La via maestra per superare il problema individualistico può essere indicata da come le domande individuali vengano poste dall’esterno oggettivo come dalla storia dell’individuo, che rienterà in un susseguimento di ambiti sociali, e da come le risposte vengano fornite a livello sociale, se non come contenuti (anche se, al momento, direi che è parecchio indiscutibile sia così) perlomeno come forma, come articolazione, come impostazione di un certo tipo (e a riguardo Foucault ha fornito strumenti teorici di individuazione di tali “assi” di immenso valore).

Se al giorno d’oggi viene posto il problema del senso, perché lo si dovrebbe lasciare lì, al posto di incaricarsi di rispondergli ? La disattenzione verso il panorama “sovrastrutturale” in senso culturale è disarmante perché ricco di potenzialità non sfruttate.

Chiudiamo quindi il cerchio di questo articolo, ri-ponendo la questione della mentalità e della verità al fine di poter instaurare una connessione più salda e concreta con le masse. Si ripropone, allora, la lotta contro il capitale dal punto di vista oggettivo e soggettivo comprendendone il funzionamento, mostrandone le contraddizioni, radicando la resistenza proletaria nei territori e nei luoghi di lavoro, come cercando potenziale latente che il movimento di emancipazione del proletariato deve usare, data la dura lotta che perdura contro il modo di produzione capitalistico e i suoi funzionari.

Grazie per la lettura!

Sigma.

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