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Euro-salvataggi. L’uscita dall’euro non è un’opzione, il default sovrano sì

Mario Seminerio

Nel pomeriggio di venerdì 6 maggio, un lancio dello Spiegel Online ha causato il panico sui mercati finanziari, europei e non solo, già reduci da una settimana di forti ribassi delle materie prime. Il giornale segnalava la convocazione di un meeting straordinario tra ministri delle Finanze della zona euro per affrontare la minaccia della Grecia di uscire dall’euro. Tentiamo di decodificare i segnali, e di capire cosa potrà accadere ora.

La premessa è che nel corso della scorsa settimana il Portogallo è giunto a definire, con Unione europea e Fondo Monetario Internazionale, le condizioni dell’assistenza finanziaria necessaria a fare uscire il paese da una profonda crisi di debito sovrano, alimentata da una cronica incapacità a crescere (solo lo 0,8 per cento medio, nell’ultimo decennio). Lisbona ha ottenuto condizioni piuttosto morbide, soprattutto dall’Ue, che finora era invece stata il “poliziotto cattivo” nei negoziati di salvataggio. Il realismo ha evidentemente consigliato di non serrare troppo il cappio al collo di paesi che, a causa dell’austerità imposta dalla manovra, vedono un crollo dei livelli di attività economica e (di conseguenza) un andamento esplosivo del rapporto debito-Pil.

Il prossimo 16 maggio gli europei decideranno quale tasso far pagare al Portogallo
, ma c’è motivo di ritenere che non sarà penalizzante come quello inizialmente applicato a Grecia ed Irlanda.

Riguardo quest’ultima, le ultime voci dai corridoi di Bruxelles ipotizzano una riduzione del costo del credito di emergenza, già limato di un punto percentuale per Atene il mese scorso, dopo che i greci avevano ottenuto un allungamento da tre a sette anni e mezzo dei termini di rimborso, per omogeneità con le condizioni spuntate dalla stessa Irlanda. Tenete d’occhio questo inseguimento di “agevolazioni” ai debitori: sono il punto centrale del nostro ragionamento.

Come leggere, quindi, i boatos di uscita della Grecia dall’euro?
A nostro giudizio, come un tentativo negoziale, con una vera e propria “sparata” (quella dell’uscita dall’euro), che tuttavia sottende una minaccia ben più temibile e credibile: il default sovrano della Grecia. Andiamo con ordine, partendo dal tema che sembra maggiormente appassionare giornali ed opinione pubblica italiani: è realmente possibile l’uscita dall’euro? No, per motivi politici ma soprattutto per modalità di attuazione, che causerebbero al paese uscente una devastazione senza precedenti.

Per meglio comprendere il punto, è utile rileggere quanto scritto nell’ormai lontano 2007 dall’economista Barry Eichengreen, ipotizzando l’uscita dalla moneta unica nientemeno che del nostro paese, attraverso un percorso a ritroso delle modalità di entrata nell’euro. Il problema, sosteneva Eichengreen, era la fondamentale asimmetria delle procedure: vale a dire, se l’entrata nell’euro rappresenta un processo relativamente semplice e pianificabile, il percorso inverso semplicemente non è praticabile. Riportiamo la traduzione di uno dei passaggi più significativi dell’esercizio di Eichengreen, ricordando che la scenario si riferisce alla reintroduzione della lira italiana:

    «Famiglie e imprese, anticipando la ridenominazione dei depositi sul mercato interno da euro a lire in via di deprezzamento, sposterebbero i loro depositi in altre banche dell’euro-area. Da ciò seguirebbe una corsa agli sportelli dell’intero sistema bancario nazionale. Gli investitori, anticipando la ridenominazione in lire dei loro crediti nei confronti del Governo italiano, si sposterebbero verso crediti di altri governi della zona, portando ad una crisi del mercato obbligazionario. Se il fattore scatenante fosse un dibattito parlamentare sull’abbandono della lira, sarebbe improbabile ottenere il soccorso della Bce come prestatore di ultima istanza. E un governo che si trovasse già in una posizione fiscale debole non sarebbe in grado di indebitarsi per salvare le banche e riacquistare il proprio debito. Questa sarebbe la madre di tutte le crisi finanziarie»


Come si vede, non c’è via d’uscita
. Anche perché, al default sul debito denominato in euro e convertito nella nuova valuta nazionale, difficilmente farebbe seguito un durevole recupero di competitività. La nuova divisa affonderebbe subito, scontando il deficit di credibilità dell’emittente; anche i titoli in essa denominati, oltre ad essere collocati in un mercato assai ristretto e poco profondo, dovrebbero pagare rendimenti nominali stratosferici. Con il crollo della nuova valuta contro euro, il paese subirebbe un uragano inflazionistico che porterebbe a tumulti sociali enormemente più gravi di quelli visti sinora, dopo l’adozione delle prime misure di austerità. Alla fine, non sarebbe implausibile attendersi forti aumenti salariali domestici sotto la pressione della piazza, e l’avvio di una spirale prezzi-salari che renderebbe effimera la competitività appena ritrovata.

Riguardo l’ipotetica uscita dalla valuta unica, inoltre, non bisogna farsi fuorviare da quanto fatto ad esempio dall’Argentina: loro avevano comunque una valuta nazionale, il cui aggancio al dollaro americano ha finito col saltare sotto il peso della divergenza macroeconomica. Né si dovrebbe dimenticare che un paese la cui valuta viene considerata sui mercati come carta straccia finisce (spesso al termine di un processo di iperinflazione) col “dollarizzarsi”, cioè con l’utilizzare, come mezzo di scambio e riserva di valore, una valuta estera di riserva internazionale. E nel caso di un paese europeo che tentasse di uscire dall’euro e subisse una violenta perturbazione valutaria ed inflazionistica, la dollarizzazione sarebbe in realtà una “eurizzazione”, con la moneta unica che esce dalla porta e rientra dalla finestra. Ironia della sorte, travestita da mercato.

Ciò premesso, per un paese che voglia disporre di leverage nei confronti della Ue (la famosa pistola greca alla tempia tedesca, e non solo tedesca), non serve minacciare l’uscita dall’euro, ma più semplicemente il default sul proprio debito sovrano. Ciò provocherebbe immediati attacchi speculativi agli altri anelli deboli della catena (Spagna e Italia, soprattutto), oltre a costringere Germania e Francia a salvare le proprie banche, colpite da imponenti minusvalenze sui titoli di stato, che andrebbero ricapitalizzate con fondi pubblici. Il paese che dichiara il default avrebbe certamente gravi problemi immediati a rifinanziarsi ma la permanenza nell’euro, per quanto ammaccato, servirebbe ancora da scudo per ripartire.

E quindi, che accadrà? Al momento sappiamo che l’Ue potrebbe fornire alla Grecia nuovi fondi di emergenza, magari attraverso lo European Financial Stabilisation Facility (EFSF), che acquisterebbe titoli di stato greci all’emissione, sostituendosi al mercato. Questa operazione potrebbe avvenire previa costituzione di garanzie reali da parte di Atene, anche se non necessariamente l’oro, come suggerito nei giorni scorsi da parte tedesca. Ma una cosa è soprattutto chiara, a Bruxelles: i termini dei finanziamenti devono essere ammorbiditi, i tempi di rientro devono essere allungati. Solo in questo modo è possibile tentare di evitare un fallimento, che oggi prende l’elegante nome di ristrutturazione. In realtà la ristrutturazione è in atto: come definire altrimenti le continue modifiche dei termini dei prestiti d’emergenza?

Da più parti si fa notare che gli aiuti sovranazionali mettono a rischio i crediti privati, che ai primi finiscono con l’essere subordinati. E’ vero, ma solo sul piano formale: gli aiuti sovranazionali servono in realtà per proteggere i creditori privati, cioè le banche che hanno investito nel debito sovrano dei paesi oggi in difficoltà. L’effetto collaterale e perverso di questo salvataggio delle banche camuffato da salvataggio sovrano è che, se i paesi “malati” non migliorano, cioè se non riescono a tornare sul mercato e convincere gli investitori privati a comprare nuovo debito da loro (debito col quale verrebbero rimborsati i vecchi creditori), l’assistenza sovranazionale deve continuare ad ammorbidire i termini ed a posporre i rimborsi e/o ridurne l’onerosità. E via così, in uno schema di Ponzi che sta diventando surreale.

Ultimo punto: la Grecia (ma anche l’Irlanda, ed in futuro il Portogallo) è quindi condannata all’infinito a non poter andare in default, cioè a non poter ridurre la propria esposizione debitoria pregressa? Non necessariamente: anzi, paradossalmente possiamo dire che, se il risanamento avrà successo, elevate saranno le probabilità di un default sovrano per la Grecia e gli altri. Perché? Presto detto: per un paese, raggiungere un avanzo primario significa che le entrate superano le spese, quest’ultime calcolate escludendo gli interessi sul debito. A questo punto, il paese potrebbe ricorrere ad un default “strategico” sul proprio debito, cioè a dire ai creditori esteri una frase del tipo:

    “Signori, non abbiamo più bisogno di altro debito per far funzionare lo stato, ce la facciamo da soli perché incassiamo più di quanto spendiamo. Anzi, per liberare risorse per la crescita e compensare i nostri cittadini delle sofferenze patite in questi anni, abbiamo deciso che rimborseremo solo il 50 per cento di quello che vi dobbiamo. Anzi, facciamo il 30 per cento, va, visto che dobbiamo garantire ai nostri depositanti che le nostre banche non falliranno. A loro rimborseremo il 100 per cento dei nostri titoli di stato, perché sono patriote, e non volgari speculatori come voi stranieri. Game over“


Se i PIG riusciranno a vedere l’alba dell’era dell’avanzo primario, i default e le ristrutturazioni avranno improvvisamente elevata probabilità di realizzarsi, e saranno tutti problemi delle banche creditrici, sempre che le medesime nel frattempo non abbiano aumentato gli accantonamenti a perdite, e possano quindi permettersi di incassare il default senza sanguinare troppo. Se invece i PIG non dovessero riuscire ad andare in avanzo primario, aspettatevi nuovi euro-psicodrammi e nuove rinegoziazioni dei salvataggi, da qui all’eternità. O meglio, da qui ad una effettiva unione politica. Ma l’uscita dall’euro, semplicemente, non è un’opzione.

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