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Cina, un fatto fuori teoria

di Pierluigi Fagan

congresso pccLe teorie hanno due nemici impenitenti, le contraddizioni tra teorie e piccoli fatti e i grandi fatti fuori teoria. Il primo nemico lavora di guerriglia accumulando anomalie fino a che c’è una rivoluzione paradigmatica che impone il cambiamento delle teoria. Quella nuova si troverà di nuovo con la stesso problema e con lo stesso esito finale ma per un certo tempo sarà vigente perché più “adatta”. Il secondo nemico invece convive con la teoria dominante semplicemente spartendosi le aree di dominio. In sostanza le teorie hanno una vigenza locale, presuppongono un universale da una particolare, almeno fino a che eventi di contesto non rendono impossibile ignorare questo altro mondo in cui quella teoria incontra grandi fatti del tutto alieni ai suoi paradigmi. Questo secondo caso è quello del nuovo incontro tra mondo occidentale e mondo cinese. La Cina è un grande fatto fuori teoria per i paradigmi occidentali e quindi anche il reciproco, tant’è che i cinesi, quando usano concetti provenienti dal linguaggio-pensiero occidentale, ci tengono a specificare la dicitura “con caratteristiche cinesi”. Quali sono queste “caratteristiche cinesi”?

Dal 221 a.C., la Cina è un sistema unico, ovvero che ha una sua omogeneità interna maggiore di quanto non abbia col suo esterno. La cultura cinese ha alcuni paradigmi inviolabili, uno di questi è la sua longeva sostanziale unità interna che guarda al periodo di poco più di duecento anni precedente il -221, detto degli “Stati combattenti”, come ad un paradigma assolutamente negativo.

Se gli Stati combattenti cinesi, all’inizio, erano solo sette, il nostro medioevo è stato una macedonia impazzita di tutti contro tutti. Ancora quando ci si addensò nei nuovi Stati-nazione, Hobbes aveva gioco facile e ricordare che ogni uomo è lupo per l’altro uomo, una antropologia impensabile per un cinese. Dal punto di vista cinese, questa idea è propriamente barbara ed è l’esatto opposto del significato di civiltà dove per civiltà s’intende uno spazio comune ordinato in qualche modo, che tenta di regolare le contraddizioni ma in primis, congiura per non renderle esplosive garantendo la vivibilità del vivere associato. L’armonia della vita associata dovrebbe rispecchiare idealmente quella naturale (il concetto di Cielo). Penso che ad un cinese che studi la storia europea e poi occidentale, l’intero nostro iper-conflittuale quadro storico sembrerà abbastanza insensato come del resto appare a molti di noi la loro storia fatta di riti, culto della relazione indiretta, ordine prima e sopra ogni altra cosa.

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La prima dinastia cinese estesa, quella Han, costruì una tradizione a ritroso secondo la quale, l’unità indivisibile della Cina, risaliva addirittura al 1500 a.C. circa. Tre dinastie antiche, la Xia poi ritenuta storicamente dubbia, la Shang e la Zhou divisa in due diversi periodi, precedevano la rottura dell’unità sfociata nei famosi due secoli di conflitto ed instabilità, prima che uno dei regni, il regno di Qin (che si legge “cin”) da cui il primo imperatore Qin Shi Huangdì autore tra l’altro della muraglia cinese e dell’esercito di terracotta, prevalesse su tutti gli altri fondando l’Impero. Questo terminò ufficialmente nel 1911 ma per molti versi, si potrebbe dire che pur cambiando la sua forma e le logiche interne, esso è continuato ancora fino ai giorni nostri. La Cina quindi, ha due caratteristiche storiche diverse dalle nostre. La prima è l’unità di luogo, quando si dice “Cina” si dice un luogo ben preciso e non uno spazio dinamico con centro erratico (Atene-Roma-Parigi-Amsterdam-Londra-New York) com’è nella nostra storia. La seconda è la coerenza culturale che ha radici e sviluppo di un unico tronco che parte forse addirittura quattro-cinquemila anni fa ed attraverso uno snodo posto circa duemilacinquecento anni fa (Confucio, Laozi ed il taoismo, scuole dello Yin e dello Yang, scuole di strategia etc.), giunge poi ai giorni nostri. Diversamente, la nostra successione di Antica Grecia, periodo alessandrino, periodo romano, medioevo, modernità europea e poi anglo-americana è un sentiero ben meno lineare in cui ogni tratto si è formato spesso in opposizione-distruzione al precedente, superandolo, mantenendone solo alcune caratteristiche, introducendone di nuove. Quali sono le ragioni di questa storia così diversa dalla nostra?

La ragione principale è probabilmente di origine geografica. La Cina attuale, pur essendo più grande come territorio rispetto a quella antica, non ha fatto altro che allargare un po’ i confini intorno ad un centro che si situa tra i due grandi fiumi principali che corrono più o meno paralleli in orizzontale da est ad ovest, non molto distanti l’uno dall’altro. Intorno a questo cuore fertile, non c’è semplicemente nulla di rilevante, terre con risorse o altre civiltà con cui commerciare o guerreggiare. A nord i contrafforti mongoli e la Manciuria e poi la Siberia orientale che sono aperte ai venti polari; a ovest il deserto fino alle catene montuose che separano dal centro Asia, ad est l’oceano, a sud per una parte i contrafforti dell’altipiano Yunnan-Guinzhou e del Tibet, per l’altra parte le foreste tropicali del sud est asiatico, anticamente poco abitate, non coltivabili e quindi poco interessanti. Di contro, il cuore fertile era eccezionalmente fertile poiché i due fiumi ed i loro affluenti davano ai corsi una portanza eccezionale, soggetta a flussi impetuosamente irregolari quindi esondazioni frequenti e coprenti le sponde in grande profondità. Infine, la geografia botanica, offrì miglio ed orzo ma poco dopo il riso ed il riso ha più raccolti l’anno, quindi la sussistenza era di tipo relativamente abbondante ed agricolo, quindi generatrice di un potere gerarchico centralizzato a cui si è chiesto il governo delle acque. Questo insieme di geografia-clima e sussistenza, generò una popolazione molto grande in rapporto a quella nostra già in antichità, poco meno di quattro volte superiore rispetto a quella dell’Impero romano alla sua massima estensione. In un certo senso, i cinesi erano obbligati a stare assieme un po’ come avviene con i diversi ingredienti della loro cucina quando si usa quella loro pentola profonda e svasata che si chiama “wok”[1].

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La loro è quindi stata una forma di civilizzazione precoce, per lo più unitaria, molto popolosa cioè densa. La loro cultura è cresciuta non con la nostra distruzione creatrice ma per più lenta e coerente evoluzione interna, non si è valsa dello scontro dialettico di opposizioni irriducibili ma di complementarietà, flessibilità, lento mutamento, non si è alimentata di competizione ma di cooperazione. Tolto il problematico periodo storico del grande Balzo in avanti e della Rivoluzione culturale, anche il periodo maoista precedente e successivo ma soprattutto il dopo-Mao, non ha spinto più di tanto il tasto del conflitto di classe perché il conflitto interno è sconsigliato dalla loro cultura che promana dalla loro storia che promana dalla loro geografia. Il primo e più importate principio del loro vivere associato è tenersi uniti per non precipitare in una anarchia suicida di tutti contro tutti e del resto una sostanziale unità culturale profonda rende un fatto l’estrema coerenza dell’essere cinese. Il loro relativo isolamento geografico e la massa importante di cui sono da sempre costituiti li ha concentrati sul problema della gestione interna e la loro società che, pur passando sotto la categoria dell’impero, non è stata una storia di invasioni e conquiste, tant’è che sono invece stati facilmente ed a lungo conquistati da giapponesi, europei, mancesi e mongoli. Di contro, mancesi e mongoli hanno sì conquistato il potere formale con le armi ma un attimo dopo sono entrati in un suadente percorso di sinizzazione che li ha inglobati nella tradizione culturale facendoli diventare esse stessi “cinesi”. I conquistatori vennero conquistati, inversione tipicamente cinese.

Questa condizione antropologica massiva e costretta a confluire nel suo stesso centro dalla mancanza di un intorno di possibile fuga ha lungamente forgiato la mentalità cinese. Francois Jullien ne ha magnificamente descritto l’essenzialità ed al contempo la sostanziale diversità rispetto alla nostra, nel suo bellissimo “Essere o vivere”, frutto di decenni di studio e frequentazioni di quella cultura. Rimando alla lettura delle sue venti coppie di differenze nella comparazione tra noi e loro ma -in breve- si può dire che mentre la nostra cultura è fondata sull’ontologia dell’essere, la loro è fondata sull’ontologia della relazione. La Cina è il fatto macroscopico che esonda sistematicamente da ogni nostra teoria poiché ogni nostra teoria, espressa nella nostra lingua-pensiero che offre un set di concetti pensati e pregiudizi impensati, deriva da una diversa matrice geo-storica.

La loro quindi- è una storia ricca ma totalmente priva di soggettività significative, ordinata da una -per noi strana- forma. Questa “strana forma” la stessa che ha avuto la ribalta recente delle cronache col XIX Congresso di quello che loro chiamano Partito comunista cinese (comunismo o socialismo con “caratteristiche cinesi”) è stata ed ancora oggi è, un mondo ridotto che governa un mondo molto più esteso. Oggi, quel “partito” che invero non è una parte ma praticamente l’unica parte ridotta di un universo madre più grande (vi sono invero altri //english.cri.cn/1702/2004-11-1/This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.">otto partiti che collaborano col PCC esternamente in forma di “opposizione dialogante”), come è sempre stato nella loro storia, conta circa 90milioni di membri e fatte le debite proporzioni, dovrebbe essere più o meno simile in rapporti alla dimensione della burocrazia provinciale e centrale della forma imperiale, forma che aveva al suo culmine il Celeste, oggi Rosso, imperatore. Ma non un imperatore di tipo occidentale che tutto vede e comanda, bensì un imperatore “emergente”, un saggio figlio del Cielo che svolge funzione di sintesi di un mondo vasto e complesso il cui ordine dipende dall’intero funzionamento del sistema di cui è l’emersione pubblica. L’antica tradizione di filosofia politica imperiale cinese, diceva che il miglior imperatore è quello che non fa nulla oltre a presenziare ai riti simbolici. Se non faceva nulla voleva dire che tutto funzionava e se tutto funzionava voleva dire che la struttura a lui sottostante aveva ben svolto il suo compito. Così per l’antico stratega della guerra Sunzi, il miglior generale era quello che lavora indirettamente sulle condizioni di possibilità, sulla situazione in cui si colloca la tenzone intesa in senso -noi diremmo- “olistico”. Xi Jinping , in un certo senso, è un prestanome[2], per questo occupa tutte le possibili cariche di uffici che mai un singolo uomo potrebbe materialmente dirigere effettivamente, occorre solo capire in nome e per conto di chi o cosa.

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Così, noi ciecamente convinti sempre di essere “il mondo” e non “un mondo”, ancora oggi, come occidentali ed includendo nella definizione nord americani ed oceanici, siamo circa 950 milioni divisi in ben 50 Stati mentre loro sono uno Stato per ben 1.450 milioni di persone. Se immaginassimo la complessità di gestione, governo e ordine di un Impero occidentale comprendente tutti i nostri variegati popoli, non arriveremmo neanche a due terzi della loro massa. E’ chiaro che dal nostro punto di vista costruito su una storia e geografia del tutto diversa, si facciano teorie non in grado di comprendere quello che succede nell’altra metà del mondo. C’è un problema di in-comprensione tra questo nostro sistema ed il loro, viepiù grave dal momento che in questi giorni più che reportage che sfidino l’impenetrabilità delle dinamiche interne al PCC che governa quella entità geo-storicamente per noi così aliena, si leggono addirittura giudizi. Giudizi? e come proferire giudizi se neanche si sanno i fatti e seppure li sapessimo avremmo comunque il problema di iscriverli in una realtà per noi incommensurabile? E che pertinenza avrebbero poi questi giudizi dato che i parametri sono iscritti in una immagine di mondo che dovrebbe giudicare un altro mondo a cui attiene semmai una propria immagine relativa? Eppure la civiltà della democrazia di mercato (un evidente ossimoro la cui stravaganza si continua a non notare) dà continuamente giudizi sulla civiltà del Paese di Mezzo, senza sottoporsi alla fatica dell’apprendimento alcuno e della indeterminatezza della traduzione concettuale. Così la Cina, non può che rimanerci un fatto fuori teoria. Molto grosso il fatto e molto fuori dalla teoria.

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Data questa lunga premessa, veniamo al XIX Congresso appena conclusosi. A cappello, condividiamo questo articolo di China files[3] il quale -con lucida onestà- dice in sostanza che si può raccontare tutto ed il suo contrario rispetto alle dinamiche sottostanti gli eventi di ciò che succede all’interno del PCC, tanto poco ne sappiamo ed ancormeno possiamo dimostrare a supporto delle nostre tesi. Iscrivendoci quindi al libero campionato del “proietta anche tu le tue ipotesi”, avanziamo una doppia considerazione, dopo sul Congresso ma prima sulla sua narrazione occidentale.

Questa racconta una storia per la quale il “presidente di tutto” diventa ancorpiù “presidente” ed ancorpiù “di tutto”, assurge ai fasti dei grandi padri costituenti comparendo accanto a Mao e Deng, si contorna di uno staff di amici, non inserisce nel Politburo nessuno dei due possibili successori né alcuno dei altri sei sodali potrà sostituirlo per ragioni anagrafiche e quindi si suppone che potrebbe ulteriormente rimanere in carica anche dopo il 2022 avviandosi ad una lunga reggenza. Di contro la stessa lunga relazione introduttiva di Xi Jinping, diceva -tra l’altro- che il partito deve rinforzare la sua ideologia o sistema di pensiero ricordandosi di essere di matrice socio/comunista-cinese e quindi assumere come nuova contraddizione principale lo squilibrio quantitativo della distribuzione interna dei benefici dello sviluppo e quello qualitativo che nella fase quantitativa è stato messo in secondo piano (insomma un maggior benessere in senso largo ossia relativo, per il maggior numero ossia diffuso, riprendendo il canone utilitarista). Combattere la corruzione ovvero rinforzare la credibilità del politico nei confronti del popolo (che è stata anche letta come “usare” lo stigma della corruzione per fare fuori i fuori linea all’interno della diffusa dirigenza, nel più tipico riflesso dell’intrigo di Palazzo) perché il partito deve essere più presente, protagonista e direttivo nei diversi aspetti del funzionamento della società riportando altresì tutti i sistemi sociali ed istituzionali sotto il suo controllo e per farlo, deve essere credibile[4]. Occorrerà sviluppare cautamente ma risolutamente un impianto legislativo che sia il regolamento di gioco del funzionamento sociale, una tradizione anch’essa antica apparentemente fuori del canone maggiore, introdotta nel III secolo a.C. e nota come “legismo”. Si dovrà sviluppare la democrazia interna al PCC sempre però secondo l’interpretazione cinese del concetto di democrazia, interpretazione particolarmente oscura per noi occidentali. Rimaniamo stretti su questo argomento senza prendere in esame altre questioni sociali, economiche, militari, ambientali, di strategia e politica estera, pur presenti nella relazione di Xi Jinping. Questi punti sono coerenti e se sì come ci sembra, cosa dicono della visione che come alcuni hanno sottolineati arriva fino all’orizzonte degli eventi addirittura del 2049, un orizzonte temporale che a noi è precluso per principio visto che deleghiamo la dinamica del mondo a gli imperscrutabili funzionamenti magici del mercato che ci obbligano a rinunciare ad ogni pianificazione, progettualità, intenzionalità complessa, tanto c’è la provvidenziale “mano invisibile”?

Al di là delle semplificazioni di cappa e spada della narrazione occidentale che non vuole realmente comprendere ma solo giudicare, ci sembra che il cuore del governo e potere cinese sia preoccupato. La preoccupazione standard del potere cinese degli ultimi millenni (millenni non secoli o decenni) è sempre e soltanto una: il potenziale disordine. Il disordine è la malattia genetica per un sistema che oggi conta 1,4 miliardi di individui. Viepiù oggi dopo una lunga e tumultuosa cavalcata di crescita che è stata figlia anche di un necessario allentamento dei controlli e delle pianificazioni precise. Ancorpiù se si considera l’ambiente economico, finanziario e geopolitico del mondo a bassa crescita, multipolare, alle prese con i ritorni negativi della prima fase della globalizzazione anarchica che abbiamo avuto negli ultimi decenni. Non solo il mondo che è il contesto da cui tutti dipendono ed in particolare i cinesi che debbono alimentare la propria espansione per ottenere stabilizzazione interna, è sempre più disordinato ma questo effetto della prima vera interconnessione di tutti con tutti, sta dando vita ad una serie di reazioni ulteriormente disordinanti. Dalla Brexit a Trump, dalla lenta e senile agonia europea al ritorno dei russi, dal riarmo dei giapponesi alla pari situazione di difficile equilibrio indiano, dalla forte ma contraddittoria speranza africana alla sempre agitata convivenza tra le tribù mediorientali, per non parlare delle questioni ambientali, demografiche, culturali, tutto è in agitazione. E su tutta questa agitazione spontanea, quella indotta da coloro che rischiano di perdere le loro migliori condizioni di possibilità, ovvero gli USA. Di per sé, l’aumento degli attori e dei fattori della scena mondiale è di buon auspicio per i cinesi, se c’è mutamento, chi meglio della civiltà che si fonda su un antico libro che ha titolo “Classico dei mutamenti” (Yi Jing) può sentirsi a suo agio? Ma è altrettanto indubbio che in questo quadro aumenta la complessità e qui si pone il problema del rapporto tra complessità interna ad un universo di 1,4 mld di individui in marcia verso un futuro obbligato di crescita ma anche di potenziale aumento delle contraddizioni interne quindi disordine e la complessità esterna, competitiva, brusca, non sempre prevedibile e con molti soggetti interessati a creare ai cinesi più problemi di quanti essi non abbiano già di per sé al loro interno. Ecco allora i continui richiami all’unità nazionale, all’intolleranza immediata verso ogni autonomismo, al rapporto aperto ma controllato col mondo esterno, a non cadere vittime di trappole ideologiche che importando senza adattarli i concetti occidentali, creerebbero motivi di ulteriore contraddizione con la condizione cinese che ha diverso genotipo e fenotipo.

A governo e disciplina dei flussi tra questa ampolla esterna da cui la Cina dipende sempre più e quella interna che deve essere aggiustata ed alimentata ma non a qualsiasi prezzo, si pone la strozzatura del rinnovato ruolo del PCC e della sua dirigenza. Verranno tempi difficili, l’imperatore Segretario-Presidente deve poter rimanere simbolo longevo e continuativo per cui neanche si parla più di successione, lo si eleva a rango di padre nobile e saggio, si curerà sempre più la sua simbolizzazione a costo di reintrodurre una sorta di moderato e moderno culto della personalità. De resto, questa idea del mandato lungo, ha ampia tradizione dal lussemburghese Juncker al singaporiano Lee Hsie Loong, dal russo Putin alla tedesca Merkel e tendenzialmente anche il giapponese Shinzo Abe, non meno del turco Erdogan, delle dinastie americane e molti altri. Ma Xi è solo la punta dell’iceberg come lo sono poi anche tutti gli altri citati. E’ pigrizia e semplificazione della nostra filosofia politica pensare che sia mai davvero esistito il governo dell’Uno. In realtà ci sono certo diverse forme e percentuali di composizione del potere ma anche Napoleone, Hitler, Stalin o la regina Elisabetta I, hanno agito sempre assieme, in nome e per conto di un sistema sottostante. E’ stato sempre a comunque un governo dei Pochi, bisogna vedere quanto “pochi”. Con la pubblicizzazione della lotta per bande di potere del variegato Deep state americano, abbiamo appena intravisto quanto sia complessa l’articolazione di un potere che, nel caso americano ma non più di ogni altro caso, è sempre di dimensioni ed articolazione direttamente proporzionale alla grandezza e complessità del sistema che deve governare. Ridurre questa articolata complessità -ad unum- è difetto storico del nostro impianto analitico oggi peggiorato del dominio della semplificazione giornalistica e mediatica.

C’è dunque un leader riconosciuto e c’è sempre una élite che a sua volta emerge da una sottostante struttura e questa linea articolata è la colonna vertebrale di una più ampia struttura che è il Partito comunista che è la colonna vertebrale di una più ampia struttura che è l’amministrazione pubblica cinese affiancata dall’area intellettuale, dall’ impresa privata e pubblica e dall’esercito, che sono le altre colonne vertebrali dell’intero corpo sociale dei 1,4 miliardi di cinesi. La Città proibita rappresentava in proporzione l’intero impero, il suo centro rappresentava in proporzione la Città, l’edificio centrale dove l’imperatore svolgeva i riti rappresentava in proporzione, il centro, la Città e l’impero tutto, come in un frattale[5]. L’imperatore celeste prendeva il mandato dal Cielo che era un concetto di ordine natural-religiosa, l’imperatore rosso prende il mandato dal Popolo che è un concetto di natura socio-storica. Ecco quindi che il “discorso del Congresso” ha detto che il Popolo ha ancora molti bisogni quanti-qualitativi da soddisfare, continuando la lunga marcia per l’impervia strada della crescita interna ed esterna come presenza nel mondo, che la prima riduzione deve svolgere ancora meglio i suoi compiti ovvero che per l’impresa privata ci saranno obiettivi di fare ancora di più e meglio coordinando l’interesse individuale con quello collettivo, quello nazionale da coniugare con l’espansione globale (e con obiettivi specifici per l’impresa pubblica). Che gli intellettuali dovranno coniugare la difficile equazione tra modernità cinese, ispirazione socio-comunista e longeva tradizione detta “confuciana” ma da intendersi come canone e quindi di ben più ricca ed articolata tradizione. Che l’amministrazione pubblica verrà misurata sull’efficienza e la correttezza di servizio (corruzione, competenza, raccordo territoriale), mentre l’esercito dovrà portare avanti lo sviluppo qualitativo nelle difficili sfide soprattutto della marina e dell’elettronica, senza incidere troppo nel bilancio generale che ha molti fattori da riequilibrare. Su tutti, i compiti del Partito che è la riduzione della riduzione, e che sarà chiamato a riprodurre al suo interno tutte queste istanze per governarle e coordinarle tramite la costruzione a gradoni che culmina con l’Assemblea, il nuovo Politburo e il confermato leader. Una concezione di partito che segue dappresso la tradizione leninista ma ovviamente con “caratteristiche cinesi”. Questa strategia vigerà a lungo e quindi non c’è motivo di pensare, in prospettiva, ad un cambio di leadership, poiché il leader è il garante del mandato e della strategia, questo richiamo al partito come riduzione strutturale delle altre strutture, tenterà di svolgere i difficili compiti di armonizzazione di tutte le forze che agitano e preoccupano le previsioni sul futuro cinese. Se ci riuscirà o meno, è un altro discorso.

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Se appare chiaro che il Partito è di ispirazione socio-comunista ma con caratteristiche cinesi dove queste ultime lo assimilano alla burocrazia imperiale confuciana, a molti occidentali anch’essi di ispirazione comunista, non sembra chiaro quanto questo richiamo ideale sia sincero e concreto o meramente formale. A costoro, per un più articolato e pertinente giudizio, forse mancano delle coordinate. Ad esempio la disponibilità a studiare la complessità dell’oggetto alieno Cina, quella contemporanea come quella dell’ultimo secolo che emerge da un sottostante plurisecolare a sua volta poggiato su un fondo addirittura millenario. Il comunismo cinese prese il potere nel 1949 dopo una lunga battaglia di liberazione nazionale, fu costretto dentro i limiti angusti di una condizione obiettivamente difficile sia per l’arretratezza interna, sia per l’inesperienza della sua classe dirigente aggravata da picchi di ideologia dogmatica, sia per la pressione limitante e condizionante di una congiuntura internazionale monopolizzata da occidentali e sovietici. Eppure, a differenza de sistema sovietico, sopravvisse e con Deng, facendo tesoro degli errori del periodo maoista, rilanciò una nuova fase molto pragmatica-realista i cui risultati odierni non possono che confermarne il relativo successo. Certo si è trattato di una diluizione della perfezione ideale del canone ma compensata dalla sua esistente concretezza a dimensioni che, ricordiamolo, assommano ad una volta e mezzo l’intero sistema occidentale euro-anglosassone. Capita spesso di notare che i “materialisti storici” sembrano non tenere in debito conto gli aspetti del materialismo che loro, aristocratici hegeliani dell’Idea, chiamano “volgare”, come la dimensione demografica, la collocazione geografica, la sostanza di cui sono fatti molti problemi concettualizzati da loro in una sorta di strutturalismo spesso più idealista che materialista. Appare dunque curiosa ma vera la situazione descritta a chiusura del suo pertinente “Il marxismo occidentale” da Domenico Losurdo, ovvero la persistente “scomunica” che gli scolastici marxisti occidentali continuano a reiterare verso quelli orientali: “Tanto più che la scomunica inflitta dal marxismo occidentale a quello orientale ha promosso la fine non dello scomunicato ma del protagonista della scomunica”. Una Chiesa ieratica quella del marxismo occidentale per lo più accademico, saccente e rancorosa ma senza fedeli che, ormai fuori da ogni concreta realtà che non sia il culto ermeneutico e molto litigioso dei Sacri Testi, condanna una pratica articolata e complessa che sopravvive da qualche decennio a contatto con gente reale, problemi reali, risultati reali, mondo nella sua accezione più estesa (e quanto “estesa”!), reale. In tal senso può esser utile, oltre al segnalato Losurdo, la lettura del bel libro di Diego Angelo Bertozzi “Cina. Da sabbia informe a potenza globale” che ripercorre con competenza quest’ultimo secolo di storia del gigante asiatico e per quanto riguarda la realtà concreta cinese il sintetico riassunto dello stato del’arte espresso in numero-peso-misura (un codice materialistico che tende a sfuggire ai materialisti storici) nel paragrafo “Da dove si parte”, di questo articolo (qui).

Forse riportare il fatto cinese dentro la teoria marxista potrebbe aiutare a modificare questa, se non altro portandola a misurarsi non sempre e solo con l’esercizio esegetico ma anche con le contraddizioni tra teorie e fatti concreti, non più solo nell’ipertrofico quanto ormai poco utile esercizio critico ma anche in quello costruttivo e programmatico. Fatti di un mondo sempre più complesso, potrebbero suggerire qualche revisione ad una teoria nata centocinquanta anni fa nel triangolo Germania-Francia-Gran Bretagna, il particolare che continua a credersi universale, e potrebbero favorire quella riviviscenza di un marxismo occidentale o marxismo con caratteristiche complesse, di cui avremmo tutti un gran bisogno, marxisti e non.


Riferimenti bibliografici:
F.Jullien, Essere o vivere. Il pensiero occidentale e il pensiero cinese in venti contrasti. Feltrinelli, 2016
D.Losurdo, Il Marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere. Laterza, 2017. Il pezzo citato si trova praticamente alla fine del saggio a pg. 193.
A. Bertozzi, Cina. Da sabbia informe a potenza globale. Imprimatur, 2016

Note
[1] La Cina è grande poco meno dell’Europa ma la sua parte abitabile è meno della metà di quella nostra. In questo spazio che dunque è ben meno della metà di quello europeo, vive un popolazione quasi tre volte la nostra. Solo il 15% del suo territorio è arabile ma con questo che è solo il 7% del terreno arabile del mondo, sfama il 20% della popolazione mondiale. La storicamente sofisticata regolamentazione della vita associata cinese, deriva da questo convivenza in uno spazio ristretto.
[2] “Prestanome” è forse esagerato ma poiché in questi giorni ho letto sulla stampa occidentale non pochi articoli-inchieste su chi è Xi Jinping, il padre, la moglie, vizi e virtù, penso sia contro-bilanciante suggerire una lettura meno personale e più strutturale.
[3] http://www.chinafile.com/reporting-opinion/viewpoint/why-do-we-keep-writing-about-chinese-politics-if-we-know-more-we-do
[4] Il problema dell’insofferenza verso la dilagante corruzione, portò ad un altro trauma della storia antica cinese, la Rivolta dei turbanti gialli (184-205) con cui finì la dinastia Han, portando altresì ad una nuova fase di conflitto interno detto Periodo dei Tre Regni.
[5] L’espressione “scatole cinesi” riprende questa geometria con cui il minore controlla il maggiore.

Comments

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Roberto
Saturday, 04 November 2017 13:01
Tutto vero, tutto giusto, tutto materiale, tutto reale ma che cosa c'entra la Cina odierna col marxismo? Sono forse state abolite le classi sociali o le differenze di classe (il numero dei miliardari cinesi è in continuo aumento e secondo solo a quello americano)? E' stato abolito o in via di abolizione lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo? A me sembra che il "celeste" sfruttamento dei lavoratori non abbia termine ma sia "serenamente" e "pacatamente" sempre in aumento sotto la guida del divino Xi e della sua casta di mandarini del PCC
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