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La versione del Dragone: oltre la “fine della storia”

di Francesco Giuseppe Laureti

xi jinping biden 1200 1024x538Un ammonimento inequivocabile giunge forte e chiaro dalle celebrazioni del Centenario del Partito comunista cinese e, qualora l’Occidente non vi avesse prestato sufficiente attenzione, dovrebbe porre rimedio alla propria distrazione. Mentre il panorama politico e geopolitico internazionale non lascia dubbi sull’intensificarsi della competizione globale tra “aquila a stelle e strisce” e “dragone rosso”, il discorso pronunciato il primo luglio 2021 dal Segretario del PCC e Presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping ha sciolto più di qualche interrogativo avanzato dagli esperti di relazioni internazionali. Sarà la sua allocuzione a fungere da filo conduttore dell’analisi che segue e che toccherà tematiche di natura storico-politica, economica e culturale sollevate dal Presidente cinese, che per l’occasione indossava la tipica divisa di Mao Zedong.

 

Alle radici del risveglio dell’orgoglio nazionale

Non si può comprendere il nuovo corso della politica estera cinese senza la consapevolezza di quanto il “secolo della vergogna” e l’imperialismo europeo – che nella versione occidentale corrisponde a un periodo di prepotente sviluppo economico e tecnico-scientifico – rappresentino una ferita aperta nella memoria collettiva della Cina. A grandi linee è lo stesso Xi Xinping a ripercorrere la tremenda pagina storica:

La nazione cinese è una grande nazione. Con una storia di più di 5mila anni, la Cina ha dato un contributo indelebile al progresso della civiltà umana. Dopo la ‘guerra dell’oppio’ del 1840, tuttavia, la Cina fu progressivamente ridotta in una società semi-colonizzata e semi-feudale e patì le più gravi violenze mai sperimentate. Il Paese subì una pesante umiliazione, la gente sopportò un terribile dolore e la civiltà cinese piombò nell’oscurità.”

Sono le “guerre dell’oppio” nell’Ottocento, generalmente trascurate nei manuali di storia liceali in Italia, ad aprire una stagione di penetrazione coloniale e subordinazione ad “armi e acciaio” occidentali. All’imperatore cinese vengono imposte dure condizioni di pace, di sconfitta in sconfitta militare, attraverso i trattati ineguali (tra tutti si ricorda il trattato di Nanchino del 1842) e il Celeste Impero non solo deve garantire alle flotte mercantili europee il libero accesso ai porti commerciali, come Shanghai e Canton, ma assiste impotente alla propria frammentazione per via dell’ascesa dei cosiddetti “signori della guerra”, che le potenze coloniali foraggiano per mantenere il Palazzo Proibito sotto scacco.

Viene così inaugurata la “politica della porta aperta”, che sta a significare il totale assoggettamento di porti e mercati cinesi agli interessi economici, politici e militari stranieri. Un impero che aveva improntato la propria politica interna al mantenimento dello status quo, dell’armonia sociale e dell’equilibrio economico si ritrova tutt’a un tratto sotto il tiro delle cannoniere britanniche e francesi. Da una simile umiliazione sarebbe nato uno spirito di rivalsa nazionale ben incarnato dalla Lega Giurata – poi Kuomintang – istituita nei primi anni del Novecento dal medico cinese Sun Yat-Sen. È da sottolineare come i principi ispiratori della Lega abbiano lasciato un’impronta indelebile nella cultura della nascente nazione cinese: indipendenza nazionale, conferimento del potere al popolo e perseguimento del benessere del Paese. Xi Jinping non tralascia neppure questo passaggio storico:

Per salvare la nazione dal pericolo, il popolo cinese mise in atto una coraggiosa lotta. Come patrioti volenterosi cercarono di ricostruire la nazione, il movimento T’ai-p’ing, il movimento della riforma del 1898, il movimento Yihetuan e la rivoluzione del 1911 si susseguirono uno dopo l’altro […], ma tutti si risolsero in un fallimento.”

 

La natura ambigua di un nazionalismo cinese “in uscita”

A questo punto, Xi Jinping omette un passaggio cruciale, che riguarda l’esito deludente della spedizione diplomatica a Versailles nel 1919 e l’ascesa del Partito nazionalista e militarista del Kuomintang sotto la guida implacabile del “generalissimo” Chang Kai Shek. Nulla deve apparire casuale, poiché la cesura deve permettere al Segretario di porre l’accento sul momento epocale della Rivoluzione d’ottobre e del successivo trapianto della dottrina marxista-leninista in Cina. Varrà ricordare comunque che, nell’arco di tempo che va dal 1921 alla fine della Seconda guerra mondiale, l’Unione Sovietica si impegna nell’addestramento di soldati e quadri sia nazionalisti che comunisti in apposite accademie come quella di Wampoa.

E, nonostante la palese distanza ideologica tra comunisti di Mao e nazionalisti di Chang Kai Shek, si possono rilevare alcuni elementi di analogia: l’importanza della coesione nazionale contro le ingerenze esterne, l’irreggimentazione della società cinese e la conservazione del sostrato culturale del confucianesimo. Che i custodi della memoria del Partito comunista lo ammettano o no, l’orizzonte politico-culturale delle due formazioni è in parte equiparabile. In particolare, la difesa strenua dell’indipendenza da qualsiasi minaccia straniera – impegno cui il Kuomintang viene meno nella guerra civile contro i comunisti avvalendosi del sostegno statunitense – resta, nei decenni a venire, un pilastro della sicurezza nazionale cinese, che si esplica sia a livello politico che a livello economico.

Al di là della gestione centralizzata dell’economia dettata dall’ideologia politica, non deve sorprendere che lo scudo di impenetrabilità della Repubblica Popolare limiti per alcune aziende straniere, considerate sgradite per ragioni di tutela degli interessi nazionali, il libero accesso al mercato domestico, primi fra tutti giganti del BigTech occidentali come Google e Facebook. Ecco che il “grande muro d’acciaio” che evoca il Presidente cinese nel suo discorso rappresenta un concetto di difesa della sovranità che racchiude tutte le dimensioni della sicurezza nazionale, compreso il Golden Shield Project diretto dal Ministero della Pubblica Sicurezza della Repubblica Popolare. Concepito per monitorare e stabilire a quali siti si possa avere accesso all’interno del territorio cinese, lo scudo è stato giudicato come il sistema di filtraggio dei contenuti in Rete più sofisticato in circolazione e garantisce una sorta di “sovranità digitale” alla Cina.

Se non potrebbe esserci dimensione più critica della sicurezza nazionale di quella menzionata, specialmente in un periodo storico in cui il rivale statunitense viene colpito da cyberattacchi e campagne di disinformazione senza precedenti – e lo certifica BlackRock nel suo Geopolitical risk dashboard di giugno 2021 -, Pechino ha imbastito buona parte della propria strategia di “neo-imperialismo economico” su infrastrutture, investimenti diretti esteri (IDE) e soft power nelle sue diverse declinazioni.

Quello che si prefigge di costruire la Cina, nelle parole di Xi Jinping, è “un nuovo genere di relazioni internazionali e una comunità umana con un futuro condiviso”, promuovendo lo sviluppo della Belt and Road Initiative e sfruttando i notevoli progressi compiuti da Pechino per “fornire nuove opportunità al mondo”. Da notare come la reazione imperialista della Cina non appartenga alla genetica del Celeste Impero, ma si sia resa necessaria a seguito della diffusione su scala globale di un sistema liberal-capitalistico di marca occidentale che il Partito comunista cinese si è sforzato di piegare agli interessi nazionali.

 

Fin dove arriva il “Grande Sogno Cinese”

Non c’è dubbio sul fatto che la “diplomazia dei vaccini” adottata da Pechino non abbia sortito gli effetti desiderati, eppure è evidente il credito che la Cina è riuscita ad assicurarsi nei Paesi coinvolti nella Belt and Road e anche al di fuori del tracciato della Via della Seta, in America Latina e Africa. Un messaggio chiaro ai concorrenti occidentali era stato lanciato da Gibuti già nel novembre 2017, quando era stato raggiunto un accordo di partenariato strategico tra Pechino e il piccolo Stato africano: è allora che il “dragone rosso” ha dato segno di voler allungare le proprie mire oltre lo spazio irrinunciabile del Mar Cinese Orientale e Meridionale. Lampante è l’importanza centrale dell’hub logistico e militare di Gibuti, situato su una rotta che viene attraversata ogni anno da 20.000 navi e da cui passa fino al 20 per cento delle esportazioni mondiali.

Piantando una bandierina vicino allo stretto di Bab-el-Mandeb, Pechino si inserisce in un quadrante geografico soggetto a forte instabilità politica ed economica in qualità di attore impegnato nella stabilizzazione e nella promozione dello sviluppo socioeconomico della regione. E, a dimostrazione di ciò, si è dedicata fin da subito a grandi progetti infrastrutturali che migliorassero la connettività tra Etiopia, Kenya e Gibuti, dei quali la prima necessita di uno sbocco sul mare.

Tuttavia, prima ancora che le sirene di allarme si sollevassero dai Balcani, dove grande scalpore ha destato il caso degli investimenti cinesi in Montenegro, proprio in Africa si è profilato lo spettro della “diplomazia della trappola del debito”: gli IDE verrebbero erogati sotto condizioni severissime, come la cessione, in caso di insolvenza, di sovranità del Paese debitore su alcuni territori a favore della Cina. D’altra parte, se i territori in ballo sono ricchi di terre rare (e in particolare di litio e coltan), come accade in Congo e Afghanistan, ciò non può che far gola specialmente alle imprese cinesi dell’elettronica, che, al pari di altri attori industriali, fungono da bracci operativi del Partito comunista cinese.

Non deve sfuggire comunque la strategia trasversale perseguita da una classe dirigente cinese che ha puntato dagli anni ’90 a dominare le catene del valore globali – grazie a liberalizzazione dei capitali, trasferimento di know-how verso Est e cambiamenti nella distribuzione internazionale della forza-lavoro -, solleticando gli appetiti delle imprese occidentali e penetrando nel “ventre molle” di un’Unione Europea che solo di recente ha adottato deboli contromisure, come un meccanismo di monitoraggio degli investimenti diretti esteri. A guidare l’avanzata marittima del “dragone” verso Ovest sono state la Asian Infrastructure Investment Bank e COSCO Shipping, gigante della logistica nel trasporto dei TEU, che gestisce porti e flussi commerciali nell’Oceano Indiano, nel Mar Mediterraneo e nel Mare del Nord, al cuore del continente europeo.

Ma per agevolare gli scambi e le transazioni economiche Pechino non poteva non preoccuparsi di favorire la diffusione della lingua e cultura cinese all’estero, strumento di soft power che gli anglosassoni storicamente hanno saputo maneggiare con maestria. Fin dal 2004, gli Istituti Confucio fungono da bracci operativi del Ministero dell’Istruzione Cinese, entrando direttamente all’interno delle università e mettendo a disposizione insegnanti, materiale didattico e finanziamenti. Dal momento che non pochi dubbi sono sorti sulle finalità dell’operato degli Istituti, alcune università europee hanno tagliato i rapporti con quelli che da alcuni sinologi italiani sono considerate emanazioni dello Hanban, istituzione senza scopi di lucro affiliata al Ministero e diretta da un Consiglio costituito da membri d’alto rango e funzionari del Partito comunista.

 

Una narrazione storica da riscrivere

Sono queste alcune delle coordinate principali da tenere a mente per comprendere quale sia il percorso di “rigenerazione nazionale” delineato dal Segretario del Partito nel suo discorso (“national rejuvenation” compare per ben 24 volte). E il sentiero sembra già tracciato, a osservare la presenza pervasiva dell’azione cinese a livello internazionale.

È una Cina che non deve fare i conti con un passato di espansionismo coloniale, a differenza del concerto delle “Grandi Potenze” occidentali, quando mette piede in Africa e appare perciò più affidabile e credibile di ex colonizzatori come inglesi, francesi e tedeschi (non a caso questi ultimi sono corsi recentemente ai ripari ammettendo le proprie colpe per le violenze commesse ai danni dei popoli indigeni).

Una Cina che sostiene i processi di cooperazione internazionale nelle sedi del dialogo multilaterale; che, pur non potendo vantare un “Manifest Destiny” paragonabile a quello del “faro della democrazia statunitense”, ha elaborato con la Nuova Via della Seta un mythomoteur potente, che mira ad accrescere il prestigio internazionale del “dragone rosso” – nonostante le recenti accuse di aver impedito un coordinamento tempestivo tra Stati volto al contenimento della pandemia. Una Cina che sembra competere ad armi pari con i Paesi occidentali nella corsa allo sviluppo tecnologico e allo spazio.

Certo, finché il “dragone rosso” non si dimostrerà capace di insidiare la supremazia militare della “aquila a stelle e strisce”, gli analisti non avvertiranno particolari ragioni di allarme per il Dipartimento di Stato americano – benché sia stata osservata una presenza crescente di militari e private security company cinesi in Africa. Ma, se ci si ispira a un principio di relatività (non relativismo!) culturale e si guarda con spirito disincantato alla realtà, non si fatica ad ammettere che occidentali e cinesi hanno molto da apprendere gli uni dagli altri agli inizi del XXI secolo: l’umanesimo occidentale si fonda su un’esaltazione della dignità dell’essere umano e ha posto le basi per un paniere di diritti inalienabili e inviolabili della persona che sembrano sconosciuti alla cultura sinica, mentre una lezione viene impartita agli occidentali da un Partito comunista cinese che ha deciso di imbrigliare grandi compagnie come Ant Group e Tencent, poiché in possesso di dati, risorse economiche e tecnologie che potrebbero compromettere la gestione centralizzata dell’economia. Nella Repubblica Popolare non c’è potere economico che possa mettere in discussione il primato della classe politica, a differenza di quanto accade nel sistema liberal-capitalistico occidentale.

A lungo Europa e Stati Uniti si sono illusi di poter perseguire con spregiudicatezza i propri interessi politici ed economici turbando l’armonia interna del Celeste Impero. Tuttavia, è stato un errore persuadersi di poter scrivere pagine di storia contemporanea senza attribuire il giusto peso al trauma collettivo vissuto dal popolo cinese. D’altra parte, la “sindrome da terrore giallo”, che potrebbe diventare “sindrome da accerchiamento” per effetto della Belt and Road Initiative, non è altro che una percezione occidentale della reazione imperialista di Pechino alla violenza coloniale subita tra ‘800 e ‘900. Per l’Occidente è tempo di metter via le vecchie lenti di una coscienza storica influenzata da preconcetti e convinzioni di superiorità morale e assumere un approccio a-valutativo per comprendere quale direzione stia prendendo la storia, che non è giunta (ancora) al capolinea. Con buona pace di Fukuyama.

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