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sinistra

Stati Uniti e Cina allo scontro globale

Introduzione

di Raffaele Sciortino

Raffaele Sciortino: Stati Uniti e Cina allo scontro globale. Strutture, strategie, contingenze, Asterios, 2022

COP. ISBN STATI UNITI E CINA I marxisti, non potendo oggi essere protagonisti della storia, nulla di meglio possono augurare che la catastrofe, sociale, politica e bellica, della signoria americana sul mondo capitalistico

Amadeo Bordiga

Il lavoro qui presentato cade in un contesto caratterizzato dal probabile approssimarsi di una nuova recessione economica globale, da una temperatura delle relazioni internazionali divenuta rovente con la guerra in Ucraina e, ancora, dall’intreccio fra crisi dei prezzi alimentari ed energetici e disastro climatico. Mentre all’orizzonte è il tema del libro si profila l’urto possente tra Stati Uniti e Cina. È un caos crescente e generalizzato che non si limita alle sfere alte della politica e dell’economia, ma sempre più incide nella vita quotidiana di centinaia di milioni di persone.

Günther Anders ha scritto che la forza di una concezione non sta tanto nelle risposte che dà, quanto nelle domande che soffoca. Ora, il delinearsi di una nuova qualità della dinamica storica stante la vera e propria crisi della civiltà capitalistica, palese solo che non ci si faccia abbacinare dallo spettacolo infomediatico sta facendo (ri)emergere alcuni interrogativi che l’ideologia euforizzante del capitale globale in ascesa ha per decenni soffocato. Non solo fuori dall’Occidente, ma nello stesso mondo occidentale, dove i dilemmi del rapporto tra sé e il resto iniziano ad incrinare la camicia di forza delle ipocrisie postdemocratiche.

Questo libro vuol essere un contributo, attraverso la messa a fuoco del contesto emergente, alle domande che segneranno la nuova geistige situation der zeit.

Lo fa riprendendo il filo di quello precedente I dieci anni che sconvolsero il mondo nel quale si metteva in prospettiva il decennio seguito allo scoppio della crisi globale per cercare di individuare, nei diversi quadranti geostorici, punti di non ritorno nella dinamica intrecciata del mercato mondiale, degli assetti geopolitici e dei rapporti di classe in particolare, focalizzando l’emergere del neopopulismo nelle società occidentali a conclusione della parabola discendente del movimento operaio classico e della crisi irreversibile della sinistra. Vi si delineava un inizio, si noti, di disarticolazione del sistema-mondo.

Questa chiave di lettura sistemica viene ora più precisamente definita e messa alla prova applicandola, per così dire, al nesso Stati Uniti/Cina. Che non viene letto a sé come relazione tra grandi potenze, bensì come asse fondamentale degli assemblaggi del capitalismo globale e banco di prova della loro tenuta/crisi. In gioco c’è il tutto del sistema mondiale, non semplicemente due sue componenti, ancorché le principali.

È questo il nodo oggi cruciale per l’evoluzione del capitalismo: la direttrice di scontro frontale tra i due pesi massimi esprime, più in profondità, l’urgenza di una ristrutturazione complessiva del rapporto di capitale, e dunque tra le classi, che al momento si avvita invece in una crisi apparentemente senza vie d’uscita. Un assunto che, appaia plausibile o meno, può essere “posto”, cioè pienamente dimostrato, solo alla fine dell’intero ragionamento (à la Hegel). Il lettore troverà comunque nel prologo una sintesi introduttiva del nesso costitutivo tra globalizzazione (riproduzione capitalistica internazionalizzata), egemonia statunitense basata sull’imperialismo del dollaro, collocazione (asimmetrica) della Cina nella divisione internazionale del lavoro data. Ciò, di nuovo, a evitare i possibili fraintendimenti di una ristretta lettura geopolitica. La lente geopolitica viene ampiamente usata, va da sé, ma sempre nel quadro di una visione d’insieme delle contraddizioni del capitalismo globale, inter-borghesi e di classe, a indicarne i passaggi in cui la crisi della valorizzazione si fa acuta divenendo crisi socio-politica e la competizione inter-capitalistica scontro aperto. Geopolitica, dunque, come economia e politica concentrate allo stadio dell’imperialismo.

Il libro inizia allora con il tentativo di una diagnosi più precisa dello stato generale della globalizzazione. Che risulta attualmente di rallentamento caratterizzato da alcuni importanti smottamenti più che di vera e propria de-globalizzazione (Prima parte: Crisi nella globalizzazione). È l’indice di una accumulazione mondiale sempre più asfittica, ma ancora al di qua di una precipitazione catastrofica. In effetti, però, le linee di faglia delle future rotture sono già evidenti in primis lo sforzo statunitense di disaccoppiare l’economia cinese dai segmenti alti del mercato mondiale cui Pechino sta cercando di accedere ed emergeranno prepotentemente a misura che l’economia mondiale entrerà in una nuova, decisa crisi. Ma il ritmo del dis/assemblaggio è dettato da variabili molteplici in ultima istanza, la dinamica dell’accumulazione mondiale e della lotta di classe e il passaggio a un più deciso corso di de-globalizzazione non si darà senza una precipitazione economica e, di qui, una crisi geopolitica importante che vedrà coinvolta direttamente la Cina.

Il senso di marcia è dato così dall’andamento e dalle modalità dello scontro sino-americano. Rintracciarne le cause di fondo e le linee potenziali di sviluppo alla luce delle strategie messe in campo e delle contraddizioni oggettive, è il compito della altre due parti del lavoro. L’intento di fondo non è descrittivo obiettivo che sarebbe fuori portata per chiunque così come la sequenza dei temi non è strettamente cronologica. Piuttosto, le due parti hanno focus specifici. Quella dedicata agli Stati Uniti tematizza la crisi sociale e politica interna e la difficoltà di articolare una Grand Strategy all’altezza della fase. La parte dedicata alla Cina ne ricostruisce, in sintesi, il corso storico di ascesa negli aspetti fondamentali: dalla questione agraria alla nuova strategia di sviluppo, dalla lotta di classe all’emergere del ceto medio, dalla proiezione esterna con le Nuove Vie della Seta ai primi passi dell’internazionalizzazione dello yuan, ai fattori di crescente attrito diplomatico-militare con Washington.

In estrema sintesi, il rapporto Stati Uniti/Cina si configura come uno scontro alle prime mosse ma inevitabile. Da un lato abbiamo un capitalismo in ascesa che ha ancora ampi margini di sviluppo quantitativi e qualitativi anche se non più nella forma eroica dell’“accumulazione socialista” e, dunque, non come un’isola chiusa ma direttamente vincolato al mercato mondiale e lavora contro le zavorre del passato anche per rimettere in discussione la ripartizione del plusvalore prodotto in loco ma in buona parte appropriato dall’imperialismo. Sul fronte opposto, abbiamo l’egemone mondiale che nello svolgere una funzione ordinativa a tutt’oggi indispensabile a scala internazionale suggellata dal dominio del dollaro opera un prelievo sempre più oneroso e destabilizzante per il capitale nel suo insieme e per il corso cinese in particolare. Nessuno dei due contendenti può rinunciare alla partita: Washington perché vi gioca il mantenimento della propria egemonia; Pechino perché la possibilità di completare la transizione a un moderno capitalismo, basato sulla modalità del plusvalore relativo e su un compromesso sociale socialdemocratico, dipende in ultima istanza dallo spazio di manovra sottratto all’imperialismo, pena il rinculo se non la disgregazione stanti i molteplici fattori di criticità interni. Di qui la contraddizione specifica di fase tra la necessità, speculare e opposta, per Cina e Stati Uniti di conservare la globalizzazione e l’urgenza di mettere in atto strategie che finiscono per minarla. La struttura torna a far premio sulle strategie rendendo l’equazione impossibile. In questo quadro, per entrambi la lotta di classe interna agirà come acceleratore dalle ripercussioni globali, seppure in un contesto assai differente da quello del ciclo di lotte dell’operaio massa in Occidente intrecciato con la sollevazione anticoloniale anti-occidentale.

Ne derivano alcune implicazioni importanti sintetizzate nel capitolo conclusivo sulla cui filigrana si articola l’intero libro.

Primo. Allo stato, l’ascesa cinese non è in grado di porre in senso proprio una sfida egemonica, il che postulerebbe non solo il declino secco della potenza statunitense, ma altresì la possibilitàcapacità del Dragone di sostituire lo specifico ruolo imperialista ricoperto da Washington alla scala dell’intero circuito capitalistico mondiale, ciò da cui Pechino è ad oggi lontanissima. Nessun se- colo cinese è in vista.

Secondo. La Cina ha di fronte a sé una sfida, questa sì, esistenziale: o fa un salto di sviluppo o la pressione imperialista rischia di far saltare il grado di sviluppo acquisito e con esso il compromesso sociale tra le classi e la tenuta dello stesso stato unitario. La classe lavoratrice cinese ha di fronte a sé questo groviglio intricato di fattore di classe e fattore nazionale. Il suo scioglimento dipende in ultima istanza dalla dinamica mondiale della lotta di classe. Ma l’indifferentismo rispetto al problema non può che portare acqua al mulino della crociata anti-cinese.

Terzo. Il nodo di fondo è sistemico: allo stato delle cose, gli Stati Uniti paiono sì in grado di difendere, bene o male, la propria egemonia o, almeno, il proprio dominio mondiale, ma a costo di minare gli assi portanti della globalizzazione, uno su tutti: l’intreccio fin qui virtuoso con la Cina. Senza poter prospettare al momento un nuovo ordine economico e geopolitico. Il caos è assicurato: un suo superamento non distruttivo per le classi lavoratrici e la comunità umana tutta è impossibile senza rimettere in discussione la peculiare configurazione dell’attuale imperialismo. Il che richiederebbe di ri-tematizzarlo, per lo meno, a livello di armi della critica (eresia?!).

Quarto. Ne deriva che la prospettiva di un nuovo ordine multipolare è assai incerta, per non dire del tutto improbabile. Con ciò, la prospettiva multipolarista rappresenta una sorta di riformismo da seguire attentamente, in quanto percorso e posizionamento di forze statali e sociali dialetticamente intrecciate, ma senza farsi illusioni sulla sua consequenzialità e realizzabilità.

Quinto. Una probabile direzione di marcia sembra essere quella di una disarticolazione sistemica che prefigura, è vero, scenari non proprio idillici, ma potrebbe anche aprire in prospettiva a una battaglia mondiale per la transizione a un diverso ordinamento sociale, nel quale la riproduzione della società venga sottratta ai meccanismi della competizione e del profitto. Qualunque sia il corso del sistema internazionale, è in ultima istanza il possente gioco delle forze sociali collettive a determinarne gli esiti: il che rende l’analisi di classe indispensabile. A meno di rassegnarsi al caos distruttivo e alle consolazioni identitarie e monotematiche irrimediabilmente fissate al frammentismo.

Prima di chiudere un’ultimissima considerazione. Inutile girarci intorno: questo libro, per quel tanto (o, piuttosto, poco) che avrà corso, non potrà evitare l’accusa di anti-americanismo. Basta intendersi. Oggi, non si può anche solo desiderare un altro mondo senza essere anche “anti-americani” intendendo con ciò non solo, in generale, essere contro il regime egemone dell’imperialismo, ma augurar(si) la catastrofe, sociale, politica e bellica, della signoria americana sul mondo capitalistico. Che è anche la con- ditio sine qua non della liberazione dell’energie delle classi lavoratrici nordamericane. Ad altri lasciamo l’illusione, o peggio, di essere anti-americani (senza virgolette) e non avanzare la minima esigenza di una organizzazione sociale non capitalistica.

Il lettore saprà certamente valutare da sé la validità o meno delle analisi proposte individuandovi anche questioni e temi che l’autore ha, nella migliore delle ipotesi, solo sfiorato dalla questione tutt’altro che storiografica del modo di produzione asiatico a quella della “transizione” e, ovviamente, le numerose lacune. Che siano di auspicio per futuri lavori non più solo individuali.

Lo studio per questo libro ha preso forma negli ultimi due anni, che hanno visto un notevole restringimento dell’area di dibattito precedentemente frequentata o auscultata, per fattori solo parzialmente dovuti alla pandemia. Tanto più preziosi per me, allora, il confronto continuativo con Stefano Vannicelli, Robert Ferro (che ha contribuito anche con la Nota sulla rendita fondiaria) e Emiliana Armano, nonché le conversazioni con Piero Pagliani, Maurizio Pentenero, Rosanna Maccarone, Alvise Grammatica. A Matteo Montaguti e Antonio Alia devo lo stimolo per la stesura del capitolo sulla classe media cinese presentato a un seminario da loro organizzato. Vorrei infine ringraziare oltre ai numerosi autori, in particolare cinesi, dai cui lavori ho tratto materiali e riflessioni Luca Bellocchio della Statale di Milano e l’editore e amico Asterios Delithanassis per il sostegno e la fiducia che mi hanno dimostrato.

Comments

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Michele Castaldo
Friday, 11 November 2022 16:40
Il comunismo non ha santi in paradiso
È molto strano il dibattito nella frammentazione della sinistra perché in ogni intervento sia di gruppi che di singoli militanti non si riesce a capire bene l’ordine del problema, cioè da dove si parte, dove si intende arrivare col proprio ragionamento attraverso quali percorsi e con quali soggetti sociali di riferimento.
In questa prefazione del suo libro Raffaele Sciortino conclude per punti e scrive nel primo:
« Primo. Allo stato, l’ascesa cinese non è in grado di porre in senso proprio una sfida egemonica, il che postulerebbe non solo il declino secco della potenza statunitense, ma altresì la possibilità capacità del Dragone di sostituire lo specifico ruolo imperialista ricoperto da Washington alla scala dell’intero circuito capitalistico mondiale, ciò da cui Pechino è ad oggi lontanissima. Nessun se- colo cinese è in vista »
Premesso che nessuno di noi è stratega o riveste chissà quali importanti ruoli, si può soltanto, al più, cercare di individuare una qualche linea di tendenza obbligata del modo di produzione capitalistico che a questo stadio è monista e come tale va esaminato e non a compartimenti stagni come pensa Putin, ovvero di una multipolarità di sviluppo in una crisi che è generale. Vale per Putin come per Xi Jn ping o Biden o la squinternata Europa. Dunque il solo pensare che la Cina possa in qualche modo divenire una trazione di un modello di sviluppo è fuori da ogni logica materialisticamente attendibile.
Mentre sul secondo prosegue:
« Secondo. La Cina ha di fronte a sé una sfida, questa sì, esistenziale: o fa un salto di sviluppo o la pressione imperialista rischia di far saltare il grado di sviluppo acquisito e con esso il compromesso sociale tra le classi e la tenuta dello stesso stato unitario. La classe lavoratrice cinese ha di fronte a sé questo groviglio intricato di fattore di classe e fattore nazionale. Il suo scioglimento dipende in ultima istanza dalla dinamica mondiale della lotta di classe. Ma l’indifferentismo rispetto al problema non può che portare acqua al mulino della crociata anti-cinese .».
Sul secondo punto Raffaele rincorre ancora una volta la classe del proletariato come soggetto della storia, che avrebbe di fronte a sé un « groviglio intricato di fattore di classe e fattore nazionale ». Ma perché l’avrebbe il proletariato come classe? Chi glielo ha assegnato? Noi comunisti. Ma abbiamo mai interpellato i proletari sul loro ruolo storico che noi come corrente ideale del comunismo gli abbiamo assegnato? Se non lo abbiamo fatto perché continuiamo ad assegnargli questo ruolo, se poi lo stesso Raffaele aggiunge « Il suo scioglimento dipende in ultima istanza dalla dinamica mondiale della lotta di classe » se poi la dinamica della lotta di classe dipende dall’andamento della crisi del modo di produzione capitalistico? Insomma caro Raffaele: chi è il soggetto il moto-modo impersonale del capitalismo o le classi? Da questo equivoco teorico a 180 anni di distanza dal Manifesto dobbiamo uscire, altrimenti continuiamo a morderci i gomiti.
Detto in modo brutale il comunismo non ha santi in paradiso, non ha una classe cui affidare le sorti dell’umanità, mentre siamo d’accordo sul fatto che la sconfitta e il crack non dell’America ma dell’Occidente è conditio sine qua non della discesa in campo delle masse proletarie, ma per disperazione e non per convinzione storica o ideale. Altrimenti continuiamo a raccontarci le favole e non capitalizziamo per niente quello che la storia ci ha trasmesso fin dalla Rivoluzione francese.
Noi riponiamo la nostra fiducia e le nostre aspirazioni solo nell’implosione del modo di produzione che è un percorso obbligato e lo sanno bene i pensatori liberisti che non sanno più dove sbattere la testa. Al punto in cui è arrivato il moto-modo di produzione immaginare scenari diversi dall’implosione catastrofica vuol dire non aver compreso le leggi che lo hanno regolato, grazie alle quali ha avuto vita lunga ma come ogni cosa che inizia finisce. È la legge della materialistica della natura cui il capitalismo non può in alcun modo sottrarsi.
C’è un che fare e consiste nell’operare una critica radicale al capitalismo senza timore reverenziale e rincorrerlo nei suoi valori sulla democrazia e la libertà, valori sui quali ne discuterà l’araba fenice che sorgerà dall’implosione-
Michele Castaldo
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Franco Trondoli
Friday, 11 November 2022 20:02
Come sempre, circostanziato commento di Michele Castaldo.
Complimenti
Cordiali Saluti
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Franco Trondoli
Thursday, 10 November 2022 16:16
È da quando esistono gli "uomini" sulla terra che si menano senza tregua. Almeno da quando esiste la "pastorizia", dicono alcuni Studiosi che molti conoscono di certo.
Per cui non è solo perché esiste il "Capitalismo". O no ?.
I "deboli" vorrebbero la pace, ed invece i "forti" impongono progressivamente le guerre, molto astutamente e cinicamente. E vincono sempre..!! Perché ?.
Chi vorrebbe la pace soccombe da sempre..!! Perché ?.
I deboli dovrebbero diventare talmente forti da battere i "forti" che vogliono surrettiziamente e non le guerre...?
Ma chissà.. Bella impresa..la vedo dura..!
Cordiali Saluti
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roccosantagiuliana@gmail.com
Friday, 11 November 2022 10:02
Caro Trondoli, fossimo stati sempre pacifisti senza se e senza ma (noi sapiens) a quest'ora ci saremmo già estinti. Duro da ammettere ma è così.
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Franco Trondoli
Friday, 11 November 2022 12:08
Già.. è così !
Grazie
Cordiali Saluti
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