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ilponte

Bisogna difendere l’Occidente… Sì, ma quale Occidente?

di Marco Morra

nvdnnbkv.jpg1. Il silenzio dell’Occidente

Dove sono finiti i democratici europei? Quelli che imponevano sanzioni alla Russia? Quelli che ne escludevano gli atleti dalle competizioni internazionali? Quelli che si battevano il petto per non poter fare di più in difesa del popolo ucraino? Un genocidio si sta svolgendo sotto i nostri occhi. È ciò che ha affermato la Commissione d’inchiesta istituita dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite. In un rapporto di 72 pagine, pubblicato il 16 settembre, gli esperti dell’Onu hanno dichiarato che “le autorità e le forze di sicurezza israeliane hanno avuto e continuano ad avere l’intenzione genocida di distruggere, in tutto o in parte, i palestinesi nella striscia di Gaza”. L’operato dello Stato ebraico corrisponde ai criteri che definiscono il crimine di genocidio secondo la Convenzione dell’Onu del 1948: “(i) uccidere membri del gruppo; (ii) causare gravi danni fisici o mentali ai membri del gruppo; (iii) infliggere deliberatamente al gruppo condizioni di vita tali da provocarne la distruzione fisica, totale o parziale; e (iv) imporre misure volte a impedire le nascite all’interno del gruppo”[1].

Un genocidio, dunque, si sta svolgendo sotto i nostri occhi. Gli occhi indifferenti dei governi occidentali, della Commissione europea e degli alti comandi della Nato. Mentre Israele continua a fare affari con le aziende occidentali, ad ottenere liquidità dalle banche europee e statunitensi, a partecipare alle competizioni sportive in Europa e negli Stati Uniti. Un genocidio si sta svolgendo sotto gli occhi indifferenti dei liberali europei, dei conservatori europei, delle anime belle europee. La presunta superiorità morale dell’Occidente cade a pezzi di fronte all’ipocrisia delle sue classi dirigenti. Essa si rivela nient’altro che uno spauracchio ostentato pretestuosamente per giustificare la nuova guerra delle democrazie liberali contro i paesi non allineati ai loro interessi, con lo scopo di mantenere ed estendere il controllo di mercati, risorse strategiche e rotte commerciali. Avevamo già assistito al paradosso delle “guerre di democrazia”. Non potevamo ancora immaginare che un genocidio potesse compiersi sotto i nostri occhi nel silenzio degli Stati occidentali.

I crimini commessi dall’esercito israeliano nella striscia di Gaza sono molteplici e tutti pianificati: distruzione di strade, case, scuole, ospedali, moschee, università; interruzione di acqua, gas, elettricità, carburante; ostruzione dell’accesso di medicine e generi alimentari; uccisione, ferimento e mutilazione di centinaia di migliaia di civili; sfollamento forzato di quasi due milioni di gazawi. Le responsabilità dei più alti vertici dello Stato sono accertate dall’inchiesta delle Nazioni Unite e facilmente riscontrabili nella pubblica istigazione alla distruzione di Gaza da parte del presidente israeliano, Isaac Herzog, del primo ministro, Benjamin Netanyahu, dell’ex ministro della Difesa, Yoav Gallant, del ministro della Sicurezza Nazionale, Itamar Ben-Gvir, e del ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich. Le autorità israeliane non hanno intrapreso alcuna azione contro di loro per punire tale istigazione. Lo Stato di Israele è complice nella sua totalità, mentre continua a denunciare il “crescente antisemitismo nel mondo”.

Sono antisemiti gli esperti della Commissione d’inchiesta dell’Onu, la relatrice speciale per i diritti umani sui territori palestinesi occupati, Francesca Albanese, i giudici e i procuratori della Corte internazionale di giustizia dell’Aja, le centinaia di migliaia di manifestanti che protestano dal 7 ottobre contro i crimini dell’esercito israeliano. I governi occidentali hanno assecondato questa filastrocca, sostenendo il diritto di Israele a difendersi. Come se non sapessero che i fatti accaduti a Gaza negli ultimi due anni sono stati preceduti da decenni di occupazione illegale, apartheid e repressione perpetrati sull’intero territorio palestinese occupato, comprese la Cisgiordania e Gerusalemme Est, nel quadro di un’ideologia che richiedeva l’allontanamento della popolazione palestinese dalle proprie terre e la sua sostituzione[2].

Adesso però il Re è nudo. E con il volto tremendo del colonialismo sionista emergono le complicità più o meno latenti degli Stati europei e quelle plateali degli Stati Uniti d’America. I primi restano a guardare, avanzando timide proteste formali di fronte all’invasione finale della striscia di Gaza. La Commissione europea annuncia dazi per 227 milioni di euro sulle importazioni da Israele e sanzioni ad personam verso i ministri più estremisti del governo di Netanyahu. Nessuna misura è contemplata in merito all’esportazione di armi dall’Europa verso lo Stato ebraico. Nel complesso le sanzioni proposte sono ben poca cosa rispetto al volume di affari realizzato negli scambi tra l’Unione Europea e Israele nel corso del 2024. L’esistenza del popolo palestinese vale assai meno di 42,6 miliardi di euro. Secondo l’Eurostat, l’U.E. ha esportato beni per 26,7 miliardi e ne ha importati per 16 miliardi[3], confermandosi il principale partner commerciale dello Stato ebraico. In altri termini, l’Europa potrebbe fare molto. Eppure fa molto poco.

D’altra parte, le sanzioni proposte dalla Commissione risultano tanto più depotenziate in quanto vincolate al consenso della maggioranza qualificata degli Stati membri, tra i quali c’è chi si oppone a simili misure come la Germania e l’Italia. Se questi ultimi continuano a non riconoscere lo Stato di Palestina, due membri del G7 hanno deciso di farlo: è il caso di Francia e Regno Unito. Un riconoscimento che ha qualcosa di paradossale a due anni dall’inizio della guerra, specie in considerazione del fatto che questi Stati non hanno mai interrotto il trasferimento di armi verso Israele. Al contrario, non hanno esitato a reprimere le proteste che sorgevano dalla società civile, fino al caso limite della proscrizione di Palestine Action come organizzazione “terroristica” da parte del governo laburista in Gran Bretagna. A ogni modo, che si tratti delle sanzioni dell’U.E. o del riconoscimento dello Stato di Palestina, assistiamo a risoluzioni per lo più simboliche e adottate per motivi di politica interna. Operazioni di greenwashing, che non inficiano le relazioni economiche e diplomatiche con lo Stato ebraico.

L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, convocata il 22 settembre a New York, ha messo al centro la soluzione pacifica del conflitto israelo-palestinese e la creazione di uno Stato di Palestina accanto allo Stato di Israele. Di certo non è privo di significato che, in questa sede, l’Onu sia andata allo scontro con gli Stati Uniti e Israele. Nondimeno, la comunità internazionale non può limitarsi a chiedere un cessate il fuoco e il riconoscimento formale dello Stato di Palestina. Nelle condizioni attuali, non è possibile alcuna soluzione a due Stati. Gaza è distrutta, la Cisgiordania occupata, Gerusalemme est annessa allo Stato ebraico. È necessaria, invece, un’azione decisa e concertata che determini l’adozione di serie sanzioni economiche, l’embargo totale sulle armi e l’isolamento diplomatico del regime sionista. Simili misure sono ancora lontane dall’essere adottate. Invece abbiamo assistito alle sanzioni emesse dagli Stati Uniti ai danni di giudici e procuratori della Corte penale internazionale, per aver emesso mandati di cattura contro Netanyahu e Gallant, e di Francesca Albanese, per la pubblicazione di un rapporto in cui indaga gli interessi delle aziende occidentali dietro l’occupazione israeliana della Palestina[4].

D’altra parte, l’amministrazione di Trump ha più volte ribadito il loro “sostegno e impegno incondizionati” al governo di Benjamin Netanyahu, come dichiarato dal Segretario di Stato, Marco Rubio, in una conferenza stampa a Gerusalemme, il 15 settembre. Gli Stati Uniti sono stati l’unico membro del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ad aver posto il veto alla risoluzione votata il 18 settembre per chiedere a Israele una “tregua immediata, incondizionata e permanente nella striscia di Gaza” e la rimozione “di tutte le restrizioni al trasferimento di aiuti umanitari e alla loro sicura distribuzione alla popolazione”[5]. In quella sede, la rappresentante statunitense ha fatto appello alle responsabilità di Hamas e al diritto di Israele a difendersi. Israele è presentato come vittima del fondamentalismo islamico, mentre bombarda decine di migliaia di civili inermi e malgrado si possa seriamente dubitare che ciò che è rimasto di Hamas in azione – circa 7.500 militanti secondo le stime israeliane – costituisca realmente una minaccia per l’esistenza di uno degli stati tecnologicamente più avanzati e meglio armati del mondo[6].

Per quanto riguarda l’Italia, il governo di Meloni si distingue di certo per una coerenza esemplare: non vuole far nulla e nulla promette di fare. Roma allinea la sua politica estera a quella di Washington. Meloni e i suoi ministri si limitano a sostenere a parole la soluzione di “due popoli, due Stati”. Nei fatti neppure riconoscono lo Stato di Palestina e alimentano il business di armi e tecnologie con l’alleato sionista. La Leonardo S.p.A. è il secondo più importante partner internazionale della Lockheed Martin nel programma F-35, contribuendo alle fasi di progettazione e sviluppo, produzione di componenti, assemblaggio finale e prova. Dopo l’ottobre 2023, questi aerei hanno permesso all’aviazione israeliana di sganciare circa 85 mila tonnellate di bombe sulla striscia di Gaza. Con buona pace del Ministero dell’Economia e delle Finanze, che controlla la Leonardo in qualità di socio di maggioranza con il 30,2% di quote. Lo scorso anno l’Italia ha esportato armi e munizioni verso Israele per circa 5,8 milioni di euro e tecnologie per la navigazione aerea e spaziale per un valore di 34 milioni di euro. Nello stesso periodo, si sono quintuplicare le importazioni dallo Stato ebraico per un valore di 154,9 milioni di euro, rendendolo il secondo partner commerciale della penisola in materia di importazioni militari dopo gli Stati Uniti[7]. Non proprio quella che si dice una rottura delle relazioni commerciali.

In questo contesto, non c’è nulla di più ipocrita dei balbettii delle anime pie occidentali che oppongono, alla condanna dello Stato ebraico, il ricordo del 7 ottobre. Come a dire che le responsabilità del genocidio in atto sono attribuibili all’attacco di Hamas e che gli avvenimenti di Gaza sono la legittima conseguenza del diritto di Israele a difendersi. Non possiamo soffermarci, in questa sede, sulla storia di quasi ottant’anni di occupazione illegale e di apartheid a cui è stato sottoposto il popolo palestinese dalla prima guerra arabo-israeliana del 1948 a oggi. Ci basterà menzionare che alla vigilia del 7 ottobre, l’80% della popolazione della striscia viveva in condizioni di povertà a causa dell’embargo a cui era sottoposta da Israele. Ci basterà ricordare che si contano 6.500 palestinesi uccisi e 158 mila feriti dall’esercito sionista tra il 2008 e l’ottobre di due anni or sono[8]. Ci basterà fare riferimento all’assurda cifra di 371 colonie e avamposti illegali costruiti sui territori palestinesi occupati, oppure a quella di 2.600 ettari requisiti illegalmente dalle autorità ebraiche in Cisgiordania per assegnarli a insediamenti israeliani dal dicembre 2022 a oggi. Tutto questo non ha nulla a che fare con il diritto di Israele a difendersi, ma riflette un piano intenzionale e di lungo periodo di sostituzione etnica e di annessione dei territori palestinesi[9]. Un piano che conta già 750 mila coloni israeliani insediati in Cisgiordania su una popolazione di 3,3 milioni di palestinesi.

Infine, l’azione di uno Stato – specie se democratico – dovrebbe distinguersi in maniera sostanziale da quella di un’organizzazione terroristica, come è stata definita Hamas. Uno Stato non dovrebbe uccidere decine di migliaia di civili indifesi. Uno Stato non dovrebbe distruggere case, ospedali, scuole, campi coltivati e pescherecci di un altro popolo per ridurlo alla fame e alla malattia[10]. Uno Stato non dovrebbe violare i diritti umani e il diritto internazionale che garantiscono l’autodeterminazione dei popoli e la loro convivenza pacifica. Eppure tutto questo sta accadendo sotto i nostri occhi con l’indifferenza di fatto della maggior parte dei governi occidentali. Ciò che sta accadendo in Medio Oriente coinvolge tutti noi in prima persona poiché comporta la negazione più palese dei principi fondamentali del diritto su cui si è fondato finora l’ordine giuridico internazionale. Stiamo assistendo al collasso del mondo che abbiamo finora conosciuto. Stiamo entrando in un’epoca di sconvolgimenti, dove la guerra diventa la norma, la pace una parola vuota. L’inazione dell’Occidente equivale a una legittimazione del crimine come mezzo di risoluzione dei conflitti internazionali. Israele ha violato la sovranità territoriale di almeno sette stati arabi dall’ottobre 2023 a oggi, perpetrando azioni di guerra in Gaza, Siria, Libano, Iran, Qatar, Yemen e colpendo con droni la flotta della Global Sumud Flotilla in Tunisia. Per molto meno la Russia è stata dichiarata una minaccia esistenziale per l’intero Occidente. Il mondo arabo però non è l’Occidente, ma un territorio da piegare ai suoi interessi. Soprattutto se si tratta di stati “canaglia”, ovvero non subalterni all’imperialismo occidentale: prima si trattava dell’Iraq, poi dell’Iran e dei suoi alleati. Il genocidio in Palestina non denuncia soltanto le responsabilità dirette del colonialismo sionista e dell’imperialismo nordamericano, smaschera la crisi profonda del capitalismo europeo nella fase putrescente del suo sviluppo.

 

2. Una minaccia esistenziale?

Il silenzio degli Stati occidentali di fronte all’offensiva israeliana in Medio Oriente fa il paio con il loro interventismo antirusso nella guerra in Ucraina. Un sottile filo rosso unisce le due aree di conflitto: la necessità del capitalismo occidentale di ricorrere alla guerra per superare una crisi strutturale di lungo periodo. I capi di Stato e di governo dei paesi della Nato continuano a diffondere allarmismo e false notizie su una presunta minaccia russa. Da più parti si sente dire che bisogna difendere l’Occidente. La Francia sta perfino paventando l’idea di inviare truppe sul campo in Ucraina. Soltanto nelle ultime settimane si è parlato: di un presunto attacco elettronico al Gps dell’aereo di Ursula von der Leyen, in atterraggio in Bulgaria, smentito dalle stesse autorità di Sofia; di uno sciame di droni russi in volo nei cieli di Varsavia, a cui sono stati attribuiti i danni a un’abitazione nella Polonia orientale, salvo poi scoprire che questi erano stati prodotti dall’impatto di un missile polacco; infine la presunta incursione di 3 Mig russi sull’Estonia, com’è stato presentato lo sconfinamento degli aerei militari nello spazio aereo estone per la durata di dodici minuti. Episodi accidentali o minacce intenzionali? Si è parlato di provocazioni, in altri casi di operazioni finalizzate a testare la prontezza delle difese Nato. Eppure non ci sono prove. La questione va affrontata da un altro punto di vista: la Russia è realmente una minaccia esistenziale per la nostra sicurezza?

L’invasione russa dell’Ucraina è un crimine internazionale e come tale va condannato. Ciò non toglie che questa invasione segue precedenti tensioni che vedono enormi responsabilità dell’U.E. e della Nato. La guerra in Ucraina può essere considerata un’offensiva militare con scopi difensivi. In altri termini, è una guerra provocata dall’Occidente. La Nato arma Kiev dal 2014. Ne ha addestrato i soldati durante la guerra civile scoppiata dopo il colpo di Stato chiamato Euromaidan, che ha prodotto la caduta del presidente filorusso eletto e l’istituzione di un governo ucraino filo-occidentale. Ha fornito a Kiev miliardi di dollari prima e durante l’invasione russa dell’Ucraina. Tuttora rifornisce l’esercito ucraino di armamenti sofisticati capaci di colpire in profondità il territorio russo. Lo scopo della Nato era quello di estendere il suo arsenale bellico fino ai confini della Russia. La strategia di Mosca, invece, consiste nel preservare una zona cuscinetto ai suoi confini, in quanto priva di barriere naturali che la separino dal resto dell’Europa[11]. Ciò rende indispensabile la messa in sicurezza del fronte occidentale attraverso l’alleanza con la Bielorussia e la neutralità, o il controllo, dell’Ucraina. Un precedente significativo è rappresentato dalla guerra in Georgia del 2008. Anche in quel caso la Russia s’impegnò in una guerra preventiva per impedire l’ingresso del paese nella Nato e preservare una zona neutrale nel Caucaso del Sud.

Il Cremlino ha smentito più volte la presunta intenzione di allargare il conflitto ai paesi dell’Alleanza atlantica. D’altra parte, cosa ne trarrebbe la Russia da una guerra con l’Occidente? Un simile scontro non sarebbe sostenibile né dal punto di vista economico, né in termini militari. La Russia non è riuscita a conquistare neppure l’Ucraina, come potrebbe conquistare il resto dell’Europa? Le perdite subite dai russi dal 24 febbraio 2022 sono disastrose sia in termini umani che di mezzi. Si parla di centinaia di migliaia di morti e feriti e di circa 12 mila veicoli blindati distrutti[12]. I dati mostrano una situazione impari a svantaggio della Russia. Quest’ultima può contare su 150 milioni di abitanti, i paesi dell’Alleanza atlantica su 600 milioni. Mosca ha speso circa 461,6 miliardi di dollari internazionali in armamenti nel 2024, i paesi europei della Nato ne hanno spesi 719 miliardi (a parità di potere di acquisto)[13]. Francia, Polonia, Germania e Gran Bretagna dispongono, allo stato attuale, di più mezzi della gigante euroasiatico: aerei, navi da guerra, sottomarini, sistemi missilistici, persino l’arma nucleare. Se il punto fosse davvero assicurarsi una difesa dalla Russia, basterebbe rafforzare il coordinamento tra i vari eserciti europei, migliorarne l’efficacia operativa e l’efficienza in termini di risorse. Ma non è questo il punto.

Finora non dalla Russia è arrivata una minaccia per l’Europa, bensì proprio dall’Ucraina, responsabile della distruzione del Nord Stream, l’infrastruttura energetica che riforniva di gas russo a basso costo la Germania e altri paesi europei. Si è trattato davvero di un’operazione condotta, come alcuni sostengono, con il consenso del Pentagono? Di certo, gli Stati Uniti sono gli unici a trarre profitto dalla guerra in Ucraina, non solo per essere riuscirti a vincolare l’Europa alle proprie esportazioni di gas liquido naturale, che hanno sostituito le forniture di gas naturale della Russia, ma soprattutto per i profitti potenzialmente generati dalla corsa agli armamenti che lo scontro con il Cremlino ha prodotto. Il riarmo europeo è un doppio affare per Washington: ne sgraverà il bilancio dai costi della difesa europea e dell’Ucraina e favorirà le importazioni di armi statunitensi e la finanziarizzazione dell’economia continentale indebitata da parte dei grandi fondi finanziari (BlackRock, Vanguard e altri). La guerra in Ucraina ha aggravato la dipendenza europea da Washington in materia di energia, commercio, difesa e politica estera. La prova più recente è data dalla firma di un accordo commerciale umiliante in base al quale l’U.E. ha accettato di pagare dazi pari al 15% sulle proprie esportazioni negli Stati Uniti, mentre i prodotti statunitensi continueranno a entrare liberamente nel Vecchio continente. Resta aperta la sfida all’autonomia strategica europea riguardo la capacità dell’Europa di agire in modo indipendente su temi fondamentali come la difesa, l’energia e la tecnologia.

Il 12 marzo 2025, il Parlamento Europeo ha approvato il piano ReArm Europe proposto dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. Si tratta di un piano di difesa militare comunitario volto a rafforzare le capacità militari dell’Unione Europea e investire in tecnologie avanzate con un massiccio investimento di fondi pubblici e privati. Il progetto dovrebbe garantire la sicurezza dei cittadini europei entro un quinquennio, ma ci sono buone ragioni per temere che sortisca l’effetto opposto. Il riamo europeo sta già suscitando una risposta uguale e contrario da parte del vicino russo, spingendolo a incrementare le spese militari e rafforzare le proprie capacità belliche. Se le parti in campo sono portate a percepirsi reciprocamente come una minaccia, la corsa agli armamenti non farà altro che aumentare la loro ostilità e favorire una escalation che, anziché prevenirla, rischia di condurci dritti a una guerra atomica. Soprattutto in assenza di trattati internazionali che garantiscono il controllo sulla produzione di armamenti, non più in vigore da anni, come il Trattato sulle forze armate convenzionali (1990-2007) e il Trattato sulle forze nucleari di medio raggio (1987-2019). Non è privo di significato che la spesa militare a livello mondiale abbia raggiunto già da qualche anno il livello più alto dalla fine della Guerra fredda (2.055 miliardi di euro nel 2022). La tendenza alla guerra è già una realtà nel contesto internazionale. Una realtà che trova Israele, gli Stati Uniti e l’Unione Europea in prima linea.

Cosa spinge, dunque, i vertici dell’U.E. a fomentare la paura di una minaccia russa? I venti di guerra che soffiano in Europa hanno lo scopo di spingere l’opinione pubblica ad accettare i costi sociali del riarmo. Eppure non l’imminenza di un attacco russo, ma interessi economici ben determinati si celano dietro il ReArm Europe. Decenni di politiche neoliberali incentrate sull’austerità e le liberalizzazioni hanno indebolito significativamente la struttura produttiva dell’eurozona. L’industria europea ha perso competitività e subisce drasticamente gli effetti del rincaro dei costi dell’energia e dei ritardi accumulati nell’innovazione tecnologica. La speranza di Bruxelles è che lo sviluppo dell’industria in settori strategici come difesa, hi-tech e aerospazio, e una progressiva integrazione dei capitali europei investiti in questa direzione, possano favorire il rilancio dell’eurozona. Per queste ragioni, l’Unione europea ha colto come un’opportunità la proposta presentata nell’ultimo vertice della Nato di portare la spesa militare al 5% del Pil entro il 2031. Questa decisione è stata assunta senza alcuna consultazione popolare e porterà a un ridimensionamento significativo della spesa sociale. Tradotto: a un impoverimento della popolazione. L’elevato livello di indebitamento pubblico farà in modo che il rilancio della competitività sia sostenuto dalla riduzione dei costi sociali[14]. Il risultato sarà che si spenderà più in difesa e sicurezza che in sanità, istruzione, cultura e pensioni[15].

A Parigi, Berlino e Varsavia, già si invitano i cittadini al sacrificio e alla disciplina. Il caso più emblematico è quello francese. Alla vigilia dell’approvazione del ReArm Europe, il Presidente Emmanuel Macron allertava i suoi cittadini: “Strasburgo-Ucraina sono solo 1.500 chilometri, non è molto lontano”[16]. La legge di pianificazione militare 2024-2030 ha portato la spesa militare dell’Esagono a 413 militari di euro, con un aumento progressivo di 3 miliardi l’anno sul periodo precedente. “Notre liberté a un prix”, continua a ripetere Macron. Si dice “difendere la libertà”, per dire “ridurre la spesa sociale”. La manovra finanziaria prevista dall’ex primo ministro François Bayrou prevedeva un ridimensionamento della spesa pubblica per 44 miliardi di euro per il 2026. Tra le misure più contestate: l’aumento del carico fiscale sulle pensioni, la riduzione dei rimborsi sui farmaci, la soppressione di due giorni festivi e il congelamento delle prestazioni sociali. Il Parlamento ha negato la fiducia, facendo cadere il governo, ma il tentativo rimane. Le élite europee stanno ingannando le loro popolazioni per assicurare nuovi tagli alla spesa pubblica e garantire il prelievo di denaro dai loro bilanci per investire in spese militari. In questo senso, mobilitarsi per la pace e contro il riarmo significa mobilitarsi per il welfare e per un’Europa sociale. In Italia questo è particolarmente vero. Nella penisola raggiungere l’obiettivo del 5% del Pil in dieci anni significa aumentare le spese militari di oltre 400 miliardi rispetto ai livelli attuali. Una scelta immorale a fronte del 25% della popolazione che vive sulla soglia della povertà assoluta. Nel 2025, l’Italia ha speso circa 32 miliardi, equivalenti al 2% del Pil, in difesa e sicurezza. L’obiettivo è spenderne più del doppio. Basti pensare che servirebbero circa 40 miliardi l’anno per risollevare le sorti del Sistema Sanitario Nazionale.

 

3. Difendere l’Occidente

La vita di decine di palestinesi vale molto di meno della vita di un solo israeliano. Non si spiegherebbe altrimenti perché ogniqualvolta un israeliano è vittima di un attacco terroristico i media e i governi occidentali si vestono a lutto, mentre le decine di palestinesi assassinati quotidianamente dall’esercito israeliano non contano nulla di più che un numero su una pagina di giornale. Lo stesso potrebbe dirsi per il tanto declamato “diritto a difendersi”, che legittimerebbe l’aggressione israeliana designandola come una guerra giusta. Israele ha potuto compiere le peggiori nefandezze in nome del diritto a difendersi dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, ma i palestinesi non hanno diritto a prendere le armi per riappropriarsi dei territori che lo Stato ebraico occupa illegalmente dal 1967. È connaturata all’Occidente una vocazione colonialista verso il resto del mondo. Ciò che oggi sta facendo Israele, ieri fecero gli Stati Uniti, il Regno Unito e i loro alleati. Come si potrebbe dimenticare la seconda guerra del golfo, le centinaia di migliaia di civili assassinati, le menzogne conclamate che diedero inizio all’invasione circa il tentativo del regime iraqeno di dotarsi di armi di distruzione di massa?

La Russia non ci invaderà. L’Iran non ci vuole morti. La Cina non è una minaccia per l’Occidente. Sono solo menzogne. L’unica minaccia per la pace proviene dall’Occidente stesso. I nostri governi preparano la guerra per garantire, non la pace, ma maggiori profitti alle imprese occidentali. Bisogna difendere l’Occidente, sì, ma da se stesso. E soprattutto quale Occidente? Non di certo quello che è rimasto a guardare mentre avanzava l’occupazione illegale della Cisgiordania e la distruzione di Gaza. Non quello che ha causato la morte di un milione e mezzo di essere umani in Iraq e in Afganistan agitando lo spettro della guerra al terrorismo. Non quello dell’austerità, delle privatizzazioni e dei tagli alla spesa pubblica, del “non ci sono i soldi” per la povera gente, quando poi i soldi si trovano sempre per salvare le banche private e fomentare le industrie della morte. Non di certo quello del Patto Atlantico, del colonialismo sionista e dell’imperialismo yankee. Ma l’Occidente è anche altro. L’Occidente è l’Onu e la Corte internazionale di giustizia, il diritto internazionale e la Dichiarazione universale dei diritti umani, la Global Sumud Flotilla e l’utopia di un mondo migliore. È questo l’Occidente che bisogna difendere.

Il genocidio del popolo palestinese ha mostrato l’impotenza delle istituzioni preposte alla tutela dell’ordine giuridico internazionale. Queste stesse istituzioni sono oggi attaccate da Israele e dagli Stati Uniti, accusate di antisemitismo e sottoposte a sanzioni. Per questo è necessario un ampio movimento di protesta che imponga dal basso il rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale. Da questo punto di vista, gli scioperi generali indetti dalla Cgt in Spagna e dall’Usb in Italia, la spedizione della Global Sumud Flotilla e il Movimento globale per Gaza ci indicano in maniera esemplare il cammino da percorrere. Coloro che oggi sostengono la pace non possono non mobilitarsi per la cessazione dell’occupazione di Gaza e la restituzione delle terre palestinesi illegalmente occupate dallo Stato ebraico. Coloro che oggi sostengono la pace non possono non rivendicare una soluzione diplomatica della guerra in Ucraina che, attestando i rapporti di forza esistenti, metta fine all’escalation in corso. Coloro che oggi sostengono la pace non possono non lottare attivamente per ottenere la rottura di ogni accordo militare con Israele e con gli Stati Uniti, quindi la fuoriuscita dell’Italia dalla Nato. Coloro che oggi sostengono la pace non possono non impegnarsi per il disarmo, la riduzione delle spese militari e l’aumento dei salari, delle pensioni e della spesa pubblica in sanità, istruzione, ricerca e cultura. La lotta per la pace è una lotta politica nei termini in cui esistono forze politiche che antepongono gli interessi di una minoranza di privilegiati al benessere e alla sopravvivenza della maggioranza dell’umanità. Di fronte a queste forze, soltanto gli ingenui e gli ipocriti possono dichiararsi neutrali.


Note
[1] https://www.ohchr.org/sites/default/files/documents/hrbodies/hrcouncil/sessions-regular/session60/advance-version/a-hrc-60-crp-3.pdf
[2] https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2025/09/08/architettura-di-morte-contro-gaza-ecco-le-mappe-che-lo-dimostrano/8118731/
[3] https://it.euronews.com/my-europe/2025/06/24/le-relazioni-commerciali-tra-unione-europea-e-israele-in-cifre
[4] https://www.un.org/unispal/document/a-hrc-59-23-from-economy-of-occupation-to-economy-of-genocide-report-special-rapporteur-francesca-albanese-palestine-2025/
[5] https://news.un.org/en/story/2025/09/1165881?_gl=1*17qpc2l*_ga*MTMyMDUzMzA1Mi4xNzU1NDMzMDg4*_ga_TK9BQL5X7Z*czE3NTgzNjI3NTYkbzMkZzAkdDE3NTgzNjI3NTYkajYwJGwwJGgw
[6] Su questo rovesciamento delle parti tra carnefice e vittima, si veda E. Traverso, Gaza davanti alla storia, Editori Laterza, 2024, pp. 7-20.
[7] https://www.greenpeace.org/italy/storia/28540/leonardo-e-il-business-del-genocidio/
[8] United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs, “Data on Casualties”, 12 ottobre 2023, https://ochaopt.org/data/casualties.
[9] https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2025-09/israele-annessione-cisgiordania-palestina.html
[10] Le Nazioni Unite stimano che appena l’1.5% delle terre coltivabili della striscia di Gaza rimane accessibile e intatto. L’esercito israeliano ha preso di mira in modo sistematico le fonti di sussistenza della popolazione, distruggendo terreni agricoli, frutteti, uliveti, serre, pescherecci, allo scopo di indurre una carestia mortale e duratura nella striscia. Si veda https://www.theguardian.com/commentisfree/2025/sep/27/israel-ecocide-gaza-bombs-agricultural-land-genocide.
[11] https://www.lafionda.org/2025/08/26/la-retorica-della-minaccia-russa-come-alibi-per-il-riarmo-europeo/
[12] Hélène Richard, “Esiste una minaccia russa?”, Le Monde diplomatique/il manifesto, aprile 2025.
[13] https://osservatoriocpi.unicatt.it/ocpi-pubblicazioni-facciamo-chiarezza-nel-2024-la-spesa-militare-europea-eccedeva-quella-russa-del-58
[14] Si legga Frédéric Lebaron, “L’Europa conservatrice che verrà”, Le Monde diplomatique/il manifesto, luglio 2024.
[15] Gli Stati Uniti sono l’unico vero vincitore della guerra in Ucraina, non solo per aver vincolato l’Europa alle proprie esportazioni di gas liquido naturale, che hanno sostituito le forniture di gas naturale della Russia, ma soprattutto per i profitti potenzialmente generati dalla corsa agli armamenti che lo scontro con il nemico russo ha prodotto. Il riarmo europeo è un doppio affare per Washington. Da un lato, sgraverà il bilancio statunitense dai costi della difesa europea e dell’Ucraina, dall’altro favorirà l’incremento delle importazioni di armi dagli Stati Uniti e la finanziarizzazione dell’economia continentale indebitata da parte dei grandi fondi finanziari (BlackRock, Vanguard e altri).
[16] Si legga Hélène Richard, “Esiste una minaccia russa?”, Le Monde diplomatique/il manifesto, aprile 2025.
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Comments

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Franco Trondoli
Monday, 20 October 2025 10:21
La domanda è giusta.
I fatti sono che il sistema del capitale mondiale è un processo automatico ed impersonale. Non ci sono volontà in grado di modificarlo. Quindi deterministicamente e storicamente le crisi si oggettivizzano nei territori più deboli da tutti i punti di vista.
Economici, Sociali , Culturali ecc.
l'Europa intera , come territorio composito, diviso, ed attraversato da storie e culture diverse, è senza le risorse naturali necessarie per essere indipendente dal resto del mondo; anche volendolo; o quantomeno per contrattare degli scambi interdipendenti fruttuosi. Valgono le leggi dei più forti. Soprattutto Militari.
Quindi si trova in una situazione senza vie di uscita oggettive. Con in più, ovviamente, con delle coazioni a ripetere dei modelli di processi del capitale dai quali non si può evolvere autonomamente.
Il sistema non può che progressivamente collassare. In tutti i fatti della vita. Lo vediamo continuamente anche nelle relazioni umane e sociali di tutti i giorni. Morti e feriti in una società ormai sotto l'influsso del caos totale. Mettere ordine mi pare impossibile.
Cordiali Saluti
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