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Che scandalo: il congresso Cgil discute su diverse scelte sindacali!

di Giorgio Cremaschi

Con l’accordo sottoscritto dai sindacati dei chimici dovrebbe essere chiaro a tutti che in Cgil ci sono linee diverse, se non opposte sulle scelte contrattuali. I chimici della Cgil hanno sostanzialmente accettato ciò che i metalmeccanici della Cgil hanno totalmente respinto. Questa diversificazione profonda non avviene su una piccola questione, ma su temi di fondo che riguardano il futuro dei contratti nazionali, i diritti, il salario flessibile, insomma, sulla vita stessa del sindacato. E’ incomprensibile allora lo scandalo di chi si lamenta che questo congresso sia con diverse mozioni. Dovrebbe essere normale che un congresso decide sulla politica sindacale e che quando ci sono posizioni diverse, siano gli iscritti a scegliere. E’ chiaro che non possono avere contemporaneamente ragione coloro che accettano il nuovo sistema contrattuale e coloro che lo respingono subendo gli accordi separati. Continuare a far finta che scelte opposte siano valide entrambe è un segno di crisi della Cgil che va affrontato fino in fondo.

La Cgil ha detto no sacrosanti alla politica economica del governo e alla controriforma del sistema contrattuale. Ma sempre più spesso a questi no non segue né una coerenza generalizzata dei comportamenti successivi, né tantomeno l’elaborazione di una piattaforma e una pratica adeguati a far sì che quei no divengano punti di partenza di una forte iniziativa sindacale. La Cgil di questi ultimi anni vive in un perenne bivio. Da un lato le sua storia più profonda la induce a rifiutare scelte che distruggono la solidarietà e l’uguaglianza tra i lavoratori. Dall’altro la pratica e la cultura della concertazione e a volte semplicemente l’amor del quieto vivere, la conducono nell’angolo dell’inconcludenza e della rassegnazione al meno peggio.

Pensiamo a cosa sta succedendo nei rinnovi dei contratti nazionali. Ma davvero è indifferente per i lavoratori se il salario dei contratti nazionali ha una decorrenza di due oppure di tre anni? Davvero siamo arrivati a questa superficialità e insensibilità sulle retribuzioni dei lavoratori?

E’ bene ricordare che il contratto nazionale una volta effettivamente durava tre anni. C’era però una piccola differenza, assieme al contratto nazionale c’era la scala mobile. Per cui anche se il contratto nazionale durava più a lungo o non garantiva il salario dagli improvvisi aumenti dei prezzi, c’era un meccanismo automatico di tutela delle retribuzioni. Che fu abolito il 31 luglio del 1992. Proprio a compensazione di quel disastroso accordo l’anno successivo, nel luglio del ’93, fu sottoscritta un’intesa che stabiliva un nuovo regime contrattuale, dove la durata dei contratti veniva accorciata a due anni per la parte salariale. Il ragionamento fatto da noti salarialisti, come l’allora presidente del Consiglio Ciampi, era che se si toglieva la garanzia automatica dei salari rispetto all’inflazione, la durata dei contratti doveva essere più breve di prima proprio per evitare che tutto il rischio salariale si scaricasse sui lavoratori.

Quel sistema ha comunque compresso i salari perché li ha vincolati per lungo tempo all’inflazione programmata a livello nazionale e alla flessibilità a livello aziendale. Tuttavia l’accordo separato di quest’anno tra Confindustria, Governo, Cisl e Uil, è riuscito persino a peggiorare l’intesa del ‘93 perché ha semplicemente allungato i tempi del contratto senza aggiungere alcuna garanzia. Fin qui tutto chiaro, in questo giudizio sta una delle motivazioni del no della Cgil all’accordo sottoscritto dagli altri.

Tuttavia a questo punto stiamo assistendo a una serie di eventi che contraddicono proprio questo giudizio. Tutte le categorie della Cgil, esclusa la Fiom, hanno sinora presentato piattaforme su tre anni e, quelle che hanno sottoscritto accordi, non hanno inserito nel testo alcuna garanzia di recupero automatico dei salari come compensazione del contratto più lungo. Nella sostanza hanno accettato l’impostazione salariale della Confindustria, di Cisl e Uil. Da ultima la Fillea-Cgil, nel settore industriale del legno, si prepara addirittura da sola a disdettare il contratto normativo che dura due anni e che scade nel marzo del 2012, per passare al sistema salariale e normativo di tre, quello che nei metalmeccanici hanno fatto Fim e Uilm.

Inoltre, non c’è una sola categoria, a parte la Fiom, che nei contratti in corso rivendichi e pratichi il referendum tra le lavoratrici e i lavoratori. Questo sia quando le piattaforme sono unitarie, sia quando sono separate.

Naturalmente nelle sedi ufficiali della Cgil la cosa non suscita particolare discussione, hanno ragione i meccanici che lottano contro l’accordo separato e difendono i due anni, e anche quelle altre categorie che fanno accordi e piattaforme che già entrano nel nuovo sistema. Ha ragione la Fiom che considera discriminante nei rapporti unitari la democrazia sindacale, ma anche tutti coloro che invece la considerano meno importante dell’unità. Hanno ragione tutti quelli che fanno il contrario di tutti, viva la libertà.

Sarebbe questa un’intelligente tattica di depistaggio della Confindustria e del governo, se non corresse il rischio di mettere in confusione proprio le lavoratrici e i lavoratori più esposti sul fronte della lotta e dei contratti. Le poche volte che vanno in assemblea, i rappresentanti della Fim e della Uilm usano un solo argomento per contrastare la Fiom, visto che tutti gli altri sono indigeribili dai lavoratori: la Fiom fa una cosa e la Cgil e tutte le altre categorie un’altra. La Fiom è antiunitaria, mentre le altre categorie della Cgil no.

Mi si chiederà, ma c’è stata una discussione in Cgil su che linea affrontare per i contratti, come comportarsi, che strategie assumere? No. Una vera discussione, di quelle che si facevano una volta, nelle quali magari si aveva il coraggio di scontrarsi su posizioni contrattuali diverse, tutto questo non c’è stato. Eppure non stiamo parlando di accordi a sé stanti, ma di sistema contrattuale. Non stiamo parlando di un solo contratto, ma di come dovrebbero o dovranno essere i contratti nei prossimi dieci anni. E’ chiaro che su questo piano le scelte degli uni inevitabilmente riguardano, aiutano, o danneggiano tutti gli altri.

Gli stessi ragionamenti si potrebbero fare sulla politica economica, sulla lotta alla precarietà, sulle drammatiche battaglie per l’occupazione. I propositi, le indicazioni di fondo della Cgil sono giusti, ci mancherebbe altro non saremmo nel sindacato di Di Vittorio. Ma sono assolutamente differenti e a volte persino contrastanti le modalità concrete con le quali gli stessi problemi vengono affrontati dai diversi gruppi dirigenti.

Un congresso dovrebbe servire proprio a discutere di questo, a chiarire i problemi, a dirsi le difficoltà e le contraddizioni, a scegliere la linea più adeguata per affrontarle. Invece, da parte della maggioranza della confederazione si è proposta un’impostazione che è di pura continuità con quella, già fallita, varata nel congresso precedente. Senza nessun interrogativo, senza chiedersi perché nulla è andato come doveva andare, senza nessuna riflessione critica e autocritica sullo stato del sindacato. Quello che va male è colpa di tutti gli altri. Quello che va bene è merito nostro. Così non si va da nessuna parte.

Il documento alternativo ha il pregio di partire dalla constatazione della crisi del progetto dell’altro congresso e dalla necessità di costruire una nuova piattaforma e una nuova pratica sindacale. Per “La Cgil che vogliamo” i no della confederazione sono stati giusti, ma non possono diventare espedienti tattici, mentre si attende il ritorno della politica di sempre. Come è stato più volte affermato nel documento e da tutti i suoi sottoscrittori, la politica della concertazione, delle privatizzazioni, dell’accettazione delle compatibilità della spesa pubblica e del mercato, per la Cgil deve finire.

Se non si vuole prendere in considerazione il fatto che a sostenere queste posizioni c’è la maggioranza della Fiom, cioè di quella categoria che in questi anni ha rappresentato il meglio del conflitto e della resistenza sociale nel nostro paese. Se non si vuole considerare positivo il fatto che la più grande categoria degli attivi, la Funzione pubblica, partendo da una storia e da un’esperienza diversa, sia giunta a concordare posizioni comuni con la Fiom. Se proprio non si vuole tenere conto delle esperienze e delle lotte reali di questi anni, almeno si dia il giusto valore alla solenne affermazione, che c’è nel documento alternativo, di fine della concertazione. La fine della concertazione è una rivendicazione strategica della sinistra Cgil, da almeno vent’anni. Ora essa viene pienamente accolta in un documento congressuale che non è di piccole minoranze, ma che viene sottoscritto da una parte rilevante dei gruppi dirigenti. Questo dovrebbe essere accolto come il risultato di una lunga battaglia, invece proprio qui una parte della sinistra Cgil si ferma. Invece di guardare alla sostanza, ci si rifugia in argomentazioni burocratiche e incomprensibili sulla confederalità, oppure si gioca al gossip sui gruppi dirigenti. E’ proprio vero il vecchio adagio cinese: quando il dito indica la luna, lo sciocco guarda il dito.

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