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Cgil: la svolta c’è. A destra

di Dino Greco

Seguiamo sempre con particolare interesse i fatti del movimento sindacale italiano. Ed in modo speciale ciò che si muove dentro la più grande e prestigiosa delle organizzazioni dei lavoratori, la Cgil, che ha appena concluso i lavori del suo XVI congresso. Quest’attenzione, mista a speranza, dipende dalla convinzione che lì resiste ancora un punto di coagulo del lavoro proletario potenzialmente capace di produrre azione collettiva, conflitto sociale e consapevolezza di sé: come classe e - almeno nelle espressioni più mature - come soggetto politico. Non è cosa trascurabile, nello scenario cupamente degenerativo della politica e nello zoppicante barcamenarsi della sinistra italiana. Eppure, l’accumulo di temi, di domande e problemi irrisolti che reclamavano un serio sforzo di elaborazione non hanno per nulla trovato, nel semestre di dibattito precongressuale e, soprattutto, nel suo esito finale, una risposta convincente.

Era necessario un cambio di rotta e di passo, tale da sottrarre la Cgil ad una politica traccheggiante, che da un lato l’ha vista rifiutare la firma dell’accordo capestro sul modello contrattuale sottoscritto da Cisl, Uil, Ugl con Confindustria, senza dall’altro trovare la forza di imboccare con determinazione la strada dell’autonomia rivendicativa, lasciando che ogni categoria - con l’eccezione dei metalmeccanici - gestisse in proprio una linea di sostanziale rientro nei ranghi.

La modestia della replica sindacale alla crisi e alla latitanza del governo che ha abbandonato i lavoratori al loro destino, è stata in questi mesi sconcertante. Le sporadiche mobilitazioni messe in campo hanno avuto più la caratteristica di una testimonianza, di una protesta fine a se stessa, condita con qualche estemporanea ed improvvisata proposta, che non il senso di una strategia, curata nell’insieme e nelle parti, su cui agire il conflitto sociale ed un confronto stringente con le controparti padronale e governativa. Sicché lo stesso “cuore” della relazione di Guglielmo Epifani, la proposta di un’intervento emergenziale, della durata di tre anni, per arginare il salasso occupazionale (correzione del carico fiscale, investimenti in ricerca e formazione, allentamento del patto di stabilità, riapertura del turn over nella scuola e nella sanità) è apparso fragile, privo della “ingegnerizzazione” necessaria a rendere credibile l’impianto, omissivo di ben più robusti interventi davvero capaci di ridisegnare il profilo di una strategia di cambiamento economico e sociale.

La circostanza che la Repubblica e Il Corriere della Sera abbiano dedicato al congressone esilissime note intorno alla trentesima pagina non è solo indice di una reiterata diffidenza verso il presunto, vituperato sindacato del “no”, quanto piuttosto la presa d’atto che vera “ciccia” da quell’assise non è uscita, e che, una volta spente le fioche luci dei riflettori, riprenderà il consueto tran-tran, nel quale alla pratica subalterna dei sindacati dichiaratamente collaborazionisti la Cgil opporrà intermittenti fuochi fatui, alternati ad autolesionistici ammiccamenti unitari, per nulla ricambiati dai partners sindacali e men che meno apprezzati dalla parte più combattiva della propria base.

Sappiamo che, nel precipitare della crisi finanziaria, l’Italia sconta elementi di debolezza strutturale profondi, originati dalla fragilità del suo apparato produttivo. Per difendere l’occupazione non basta dire che vanno riaperte le assunzioni nel pubblico impiego. Occorre impedire che l’esaurimento della cassa integrazione guadagni nel settore privato si traduca nel ricorso ai licenziamenti collettivi. Per scongiurare i quali bisognerebbe generalizzare il ricorso ai contratti di solidarietà, rivendicando che vi siano dedicate più consistenti risorse pubbliche ed impegnando un braccio di ferro con Confindustria che considera quello strumento (blocco dei licenziamenti + riduzione dell’orario di lavoro) come fumo negli occhi.

Così, per ottenere una redistribuzione del reddito di qualche significato, capace cioè di portare ristoro a redditi da lavoro ridotti ai minimi termini e ridare fiato alla domanda interna, non basta reclamare al governo pur sacrosante misure di riequilibrio fiscale, ma è indispensabile ricostruire una strategia contrattuale finalmente liberata da un moderatismo salariale che perdura da vent’anni e che non ha sortito alcuna contropartita in termini di investimenti e innovazione, per porsi l’obiettivo di aumentare il salario reale dei lavoratori, la quota di produttività che spetta al lavoro rispetto a quella che è stata ed è appannaggio del profitto e della rendita.

Ancora: se si rivendicano investimenti nella ricerca, nella formazione e a sostegno di un processo di riconversione ecosostenibile dell’economia, misure di correzione tributaria improntate ad un’equità di cui sino ad ora non s’è vista traccia, occorre dire, contemporaneamente, come e dove si possono reperire le risorse pubbliche necessarie. Non limitandosi ad evocare «una lotta senza quartiere all’evasione», ma chiedendo l’immediato varo di una tassa sui patrimoni, l’aumento del prelievo sulle rendite, il taglio secco delle spese militari, la revoca dei costosissimi impegni finanziari destinati ad opere di nessuna utilità, come il ponte sullo stretto di Messina, o persino dannose, come la Tav.

Se la Cgil non mostra consapevolezza dell’urgenza di una linea di netta discontinuità, nella quale impegnare tutta la propria capacità di mobilitazione e di conflitto, la ricetta greca finirà per abbattersi come un ciclone anche sul nostro Paese.

Nel volgere di tre lustri, il combinato disposto fra la destrutturazione del mercato del lavoro, la creazione di rapporti di lavoro sottocontribuiti, l’elevazione dell’età pensionabile, la modifica dei coefficienti di rivalutazione e l’introduzione del metodo di calcolo contributivo, ha provocato un vero e proprio sisma che ha devastato le aspettative di sicurezza sociale di una generazione e di quelle che verranno. Può il più grande sindacato italiano non porsi il problema di come provare a rimontare un dramma di queste proporzioni?

Nelle conclusioni del congresso di Rimini ci sono poi altre cose che alimentano la più seria preoccupazione. Non c’è chi non veda che mai come oggi si è aperta una divaricazione culturale e strategica fra la maggioranza che si raccoglie intorno a Guglielmo Epifani e la Fiom. Che il voto referendario dei lavoratori sugli accordi sia considerato niente più che un’opzione rimessa alla discrezionalità dei gruppi dirigenti e non un diritto irrevocabile dei lavoratori dice quanto il tema cruciale della democrazia sia tutt’altro che metabolizzato. Che la Cgil assegni alla Confederazione, statutariamente, la potestà esclusiva e dirimente di pronunciarsi in merito alle scelte dell’organizzazione, espropriando le categorie di qualsivoglia ruolo e prerogativa in tal senso, è indice di un avvitamento burocratico che impoverisce la dialettica interna e premia, nel nome dell’«unicità della Cgil», una pericolosa torsione verticistica, già sperimentata nel confronto sul modello contrattuale. In questa nuova geometria di poteri, paradossalmente, ogni categoria sarà legittimata, al proprio interno, ad agire secondo gli indirizzi più disparati: la difesa strenua del carattere inalienabile del contratto nazionale da parte dei metalmeccanici potrà così tranquillamente convivere con la disponibilità alle deroghe aziendali sottoscritta dai chimici. E così via.

Hanno di che rallegrarsi Cisl e Uil, le quali hanno ben compreso che la direzione (si fa per dire) dell’orchestra resterà saldamente nelle loro mani.

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