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Marxismo e questione nazionale

di Sabato Danzilli

La disputa tra comunisti e nazionalisti nella Germania anni Venti nel nuovo libro di Stefano Azzarà

corteo di donne a PietrogradoIl panorama politico degli ultimi tempi sembra essere dominato dallo scontro tra i sostenitori acritici dell’integrazione europea e i “sovranisti” euroscettici. Si tratta di una contrapposizione che si rivela fittizia e del tutto interna a fazioni della classe dominante. Essa tuttavia ha coinvolto anche la cosiddetta sinistra di classe, che si dimostra incapace nel suo elemento maggioritario di sfuggire dal fare codismo all’una o all’altra posizione. Il fronte di chi invoca una supposta maggiore sovranità e democrazia, possibile solo sul terreno dello Stato-nazione, si allarga infatti sempre di più, e aumenta il numero di chi propone un’alleanza che vada oltre la destra e la sinistra, in nome di un comune interesse nazionale, contro il neoliberismo e il capitalismo finanziario dell’alta borghesia cosmopolita.

Il libro di Stefano G. Azzarà, Comunisti, fascisti e questione nazionale. Germania 1923: fronte rossobruno o guerra d’egemonia?[1], uscito di recente per i tipi Mimesis, giunge a fare chiarezza sui rapporti tra marxismo e questione nazionale in un momento in cui il dibattito su questi temi è particolarmente vivace. Azzarà affronta il problema da un punto di vista storico, confrontandosi con una situazione che presenta forti parallelismi con l’attualità e che, più di altre, può dunque fornire chiavi di lettura per un’analisi più consapevole della fase storica presente. Come esplicitato dal sottotitolo, il momento storico considerato è quello della Germania dei primi anni Venti. L’occupazione francese della Ruhr in rappresaglia ai ritardi nei pagamenti delle riparazioni di guerra da parte tedesca e la debole “resistenza passiva” del governo guidato da Cuno rendeva urgente la riflessione sulla reale indipendenza del paese. Nella prima parte del volume l’Autore esamina nel dettaglio la polemica del 1923 tra i comunisti e i gruppi neonazionalisti. Essa era seguita a un ricordo di Leo Schlageter, un militante nazionalista tedesco ucciso dai soldati francesi, che Karl Radek aveva fatto in un discorso pronunciato a una seduta dell’esecutivo dell’Internazionale Comunista.

Pochi giorni dopo il testo era stato ripubblicato da Rote Fahne, il quotidiano del KPD, e ampiamente diffuso per fini propagandistici. In questo discorso Radek apriva a un fronte unito di tutti i lavoratori, in grado di poter lottare contro l’imperialismo francese. Arthur Moeller van den Bruck, principale esponente della Rivoluzione conservatrice tedesca, consapevole dell’attrattiva che una tale proposta avrebbe potuto avere per la piccola borghesia, rispose all’esponente bolscevico. Questo diede l’avvio a un’accesa disputa ideologica attorno a materialismo storico, nazionalismo e questione nazionale. La seconda parte del volume di Azzarà è una nuova edizione della raccolta dei principali interventi del dibattito.

La Germania, come ricorda l’Autore, è sempre stata al centro dell’interesse del movimento operaio internazionale. In particolare era stata proprio la nascita del KPD che aveva convinto i bolscevichi che fossero maturati i tempi per la fondazione della Terza Internazionale. Si trattava infatti di un campo di battaglia decisivo per la rivoluzione mondiale, e, prima ancora, per la stessa sopravvivenza della rivoluzione sovietica. La rivoluzione tedesca era inoltre anche un tema che toccava direttamente alcuni nuclei centrali della teoria marxista: se secondo il paradigma secondointernazionalista la rivoluzione sarebbe dovuta partire dai punti alti dello sviluppo capitalistico, nemmeno la teoria leniniana della rottura degli anelli deboli della catena imperialistica superava del tutto questa concezione, in quanto per Lenin e per il Comintern era assolutamente necessaria al più presto una diffusione della rivoluzione in Occidente per garantire un futuro alla Russia sovietica. Per tale ragione l’Internazionale comunista era intervenuta direttamente nella politica del KPD sin dall’immediato dopoguerra, e aveva seguito ogni passo dello scontro tra i comunisti tedeschi e la nuova destra nazionalista.

L’interpretazione del fascismo più diffusa tra i comunisti europei era “larga”. Quest’etichetta comprendeva cioè tutti i gruppi della galassia di destra radicale. Tra chi affermava con forza la necessità di un’analisi scientifica nell’approcciarsi a questo pericoloso nemico, in rapida crescita, c’era Clara Zetkin, storica dirigente del movimento operaio tedesco. Nella sua analisi il fascismo era «l’espressione classica più forte e più concentrata dell’offensiva generale intrapresa dalla borghesia mondiale in questo momento» contro il proletariato[2], ed era una conseguenza diretta della guerra. Il conflitto mondiale aveva radicalmente tramortito l’economia capitalistica nel suo complesso, e portato, oltre che all’impoverimento ulteriore del proletariato, la proletarizzazione in massa della piccola borghesia, dei piccoli coltivatori e degli intellettuali. Questa situazione, unita alla presenza di moltissimi ex-ufficiali, che si erano ritrovati disoccupati, aveva fornito un terreno fertile al fascismo. La linea incerta e ambigua tenuta dalla socialdemocrazia all’inizio e alla conclusione della guerra aveva impedito uno sbocco rivoluzionario in senso marxista, e enormi masse di politicamente sradicati avevano trovato rifugio nel fascismo. Esso si presentava come un movimento capace di permettere alla borghesia europea la tutela dell’ordine proprietario, superando i limiti imposti dal liberalismo e mantenendo le masse in una prospettiva virtualmente rivoluzionaria. Il fascismo si era infatti presentato inizialmente come un movimento rivoluzionario, addirittura anticapitalista, e tuttavia aveva dovuto ben presto sacrificare i suoi obiettivi radicali per mantenere unite le forze borghesi che lo sostenevano, e manifestarsi poi come la repressione più bruta del movimento operaio. E tuttavia, sottolineava Zetkin, il fascismo andava combattuto non solo militarmente, rispondendo allo squadrismo fascista con la difesa proletaria, ma anche e soprattutto politicamente e ideologicamente. Bisognava cioè metterne in luce la natura ibrida e composita, farne emergere le contraddizioni intrinseche e minarlo quindi “dall’interno”. La stessa sconfitta militare del fascismo non sarebbe stata possibile senza la sua sconfitta politica e ideologica. La lettura di Clara Zetkin è molto simile a quella che una decina di anni dopo farà del fascismo italiano Palmiro Togliatti nel celeberrimo corso sugli avversari[3]. Come mette bene in luce Azzarà, nonostante Zetkin fosse ancora legata a una corrispondenza immediata e meccanica tra posizione, interessi e consapevolezza di classe, la sua intuizione del fascismo come movimento reazionario di massa e la sua proposta pratica di una grande offensiva egemonica che catturasse gli strati sociali precipitati nel fascismo, allargando i confini tradizionali del radicamento sociale comunista, era particolarmente acuta e feconda di spunti pratici. Il partito comunista sarebbe dovuto diventare per Zetkin la guida non solo dei lavoratori salariati, ma anche dei lavoratori intellettuali, e di tutti i ceti produttivi della nazione, ossia di tutti gli strati sociali che aspirano «a una civiltà superiore e si pongono in crescente contrasto con l’ordine capitalistico». Era quindi un chiaro superamento del marxismo secondointernazionalista, che si riferiva, dopo la presa del potere da parte del fascismo in Italia, soprattutto alla Germania, dove anche gli ambienti della destra erano alle prese con un radicale rinnovamento teorico e pratico rispetto all’epoca guglielmina.

Karl Radek, responsabile del Comintern per la Germania in quel 1923, si poneva sulla stessa linea di Clara Zetkin, andando ancora oltre, perché si proponeva, con l’omaggio ad Albert Leo Schlageter, di riconoscere perfino delle ragioni al neonazionalismo tedesco. La vicenda di Schlageter andava infatti per Radek oltre quella del singolo e diventava paradigma della vicenda della Germania intera. Essa riguardava lo stato di sottomissione del paese, dovuto alla subordinazione determinata dall’imperialismo delle potenze capitalistiche. L’operazione di Radek teneva quindi ben chiaro il contesto internazionale, e, afferma Azzarà, «coglieva l’essenza agonistica dell’egemonia […] il suo essere nulla di più e nulla di meno che un ulteriore campo di battaglia relazionale, nella cui pratica lo stesso impianto teorico di partenza viene allargato e rinnovato»[4]. Ed è bene mettere in evidenza quest’ultimo punto, in quanto l’offensiva egemonica di Radek era possibile solo con la forza di strumenti teorici rigorosi e strutturati, allargabili, rinnovabili, ma fondati su elementi solidi. Non si tratta quindi per nulla di una forma ante litteram di pensiero debole, o transpolitico o tanto meno di nazionalboscevismo, che era stato, anzi, duramente combattuto dallo stesso Radek nel 1919-1920 (oltre che da Lenin ne L’estremismo malattia infantile del comunismo) nella sua polemica con Heinrich Laufenberg e Fritz Wolffheim.

Schlageter era un avversario di classe, che con i suoi camerati nella Ruhr aveva represso i comunisti ancor più di quanto avesse combattuto l’occupazione francese. Radek affermava però che egli non aveva fatto questo perché aveva in odio i lavoratori ma perché era convinto di servire il popolo tedesco. Il piccolo borghese Schlageter non era infatti organico alla grande borghesia: i suoi interessi immediati sarebbero stati in linea teorica a essa contrapposti, e tuttavia egli dimostrava di esserne succube sul piano ideologico. Tuttavia questa presa d’atto era la base di partenza per poter sferrare una battaglia per l’egemonia che strappasse i ceti medi e gli strati della piccola borghesia patriottica dall’influenza del grande capitale, purché il movimento operaio riuscisse a rivolgersi a tutte le classi sociali schiacciate dal conflitto tra alta borghesia e proletariato[5]. Azzarà fa bene a notare come qui Radek superava quel residuo di legame meccanicistico tra posizione di classe e coscienza di classe che, come abbiamo visto sopra, si trovava ancora in Zetkin.

Nella situazione concreta della Germania di Weimar era chiaramente la questione nazionale il terreno su cui condurre l’offensiva per strappare i ceti medi al neonazionalismo in ascesa. Radek provava a mettere in contraddizione il movimento völkisch tedesco su questo terreno, da cui esso traeva la sua maggior forza. Egli metteva i völkisch di fronte all’alternativa se combattere contro il capitalismo imperialista dell’Intesa o contro la Russia sovietica, dato che nella lotta di liberazione dall’imperialismo era proprio la Russia che poteva costituire una valida alleata della Germania. Nell’analisi del Comintern la Germania del primo dopoguerra non apparteneva più infatti al gruppo degli Stati imperialisti com’era stata durante l’impero guglielmino e svolgeva invece il ruolo inedito di semicolonia nel cuore dell’Europa stessa.

Il fondamento teorico di quest’analisi stava nell’analisi leniniana della mutata forma della lotta di classe dopo il 1917, per cui nessuna rivoluzione proletaria poteva avvenire senza una precedente lotta di liberazione nazionale dal giogo imperialista. È chiaro che qui si scontravano due differenti letture dell’imperialismo: quella già espressa da Lenin ne L’Imperialismo fase suprema del capitalismo e quella luxemburghiana, esemplificata dal classico L’accumulazione del capitale, ancora dominante nella KPD. Com’è noto, la differenza è profonda. Per Lenin, infatti, l’imperialismo è una competizione tra Stati, le cui differenze nello sviluppo economico vengono acuite dallo sviluppo capitalistico. Per Rosa Luxemburg, invece, l’imperialismo è determinato dal grado di maturazione dello sviluppo mondiale del capitale, ed è perciò un fenomeno esclusivamente internazionale. L’analisi della rivoluzionaria spartachista continua mettendo in luce che il processo capitalistico è un processo puramente sistemico, incarnato solo per caso in una determinata contingenza storica da questa o quella potenza imperialistica. Per questo motivo Rosa Luxemburg nega che il diritto all’autodeterminazione dei popoli sia valido per le società borghesi come per i popoli colonizzati. Inoltre lo stesso programma borghese democratico costituisce un mantello della politica imperialistica. È chiaro, quindi, che era impossibile per il luxemburghismo dare una risposta alla situazione concreta della questione nazionale tedesca e offrire le basi teoriche per un’alleanza tra le classi. La posizione di Radek, tuttavia, come abbiamo visto, era sulla scia di Lenin. Bisognava, per Radek, che la classe operaia denunciasse la connivenza del grande capitale tedesco con l’imperialismo, affinché conquistasse la maggioranza degli sfruttati alla propria causa. Il movimento operaio tedesco doveva mostrare che la propria causa era allo stesso tempo la causa della liberazione nazionale, e doveva farsi classe dirigente di un fronte di tutti i lavoratori manuali e intellettuali. Avvertiva Radek che il fallimento della classe operaia avrebbe portato allo sfruttamento intensivo dello stesso ceto medio.

Arthur Moeller van den Bruck, pensatore col quale Azzarà si è già confrontato in diverse sue opere precedenti, si era dimostrato subito conscio del pericolo che l’operazione portata avanti dal Comintern costituiva per la galassia völkisch, di cui era uno dei principali e più acuti esponenti. La sua risposta alla proposta di fronte unico mostra molto chiaramente la divergenza strutturale tra comunismo e nazionalismo. Egli accetta la posta in gioco e tenta di rovesciare l’offensiva, dimostrando i limiti del marxismo nell’affrontare la questione nazionale tedesca, limiti che egli poneva nel messianismo economicistico della teoria marxista, che – a suo avviso – stavano venendo fuori nella vicenda storica dell’URSS. Alle prese con la reale pratica di governo i bolscevichi erano dovuti scendere a pesanti compromessi sul terreno di una Realpolitik. Il marxismo, continua Moeller van den Bruck, non poteva riuscire ad allargare senza contraddizioni il concetto di lavoratore [Arbeiter] ai ceti medi. La mossa comunista era solo tattica, in quanto i comunisti erano in difficoltà, perché, al contrario che come da loro previsto, la guerra mondiale non aveva portato al crollo del capitalismo ma a un capitalismo di nuovo tipo, persino rafforzato. Questo capitalismo, come sosteneva anche un altro pensatore conservatore come Oswald Spengler, non era più quello liberista pre-bellico, ma un capitalismo nazionale e che aveva acquisito l’importanza della pianificazione. In questo tipo di capitalismo capitale e lavoro non erano più in contrasto, come voleva il marxismo, perché al centro c’era la comunità nazionale, intesa in maniera organica. Per Moeller van den Bruck, questa nuova forma di organizzazione economica aveva quindi del tutto invalidato l’analisi marxiana sul plusvalore. Egli distingueva inoltre il marxismo dal leninismo, perché il leninismo era nella sua lettura un tentativo disperato di tappare le falle dell’universalismo marxiano. Ma anche se Lenin rendeva “flessibile” l’internazionalismo, si rivelava anch’egli incapace di affrontare la questione nazionale. Aggiungeva inoltre Moeller van den Bruck, riguardo alla possibilità che il proletariato tedesco si facesse classe dirigente, che questa classe ne era del tutto incapace. È chiaro che esso poi costituiva solo una frazione del popolo tedesco, vero e proprio organismo vivente. Le classi che avrebbero dovuto guidare la Germania dovevano essere quelle che lo avevano storicamente fatto e che ne avevano guadagnato il diritto per merito. In sintesi per il leader dei völkisch c’erano da un lato il marxismo e il leninismo, incapaci di trattare la questione nazionale, a causa del loro universalismo, e dall’altro il particolarismo organicistico del neonazionalismo, portatore di una visione unitaria della Volksgemeinschaft e di una concezione anti-egualitaria. Ribaltando del tutto la proposta di Radek, Moeller van den Bruck conclude affermando che per dimostrarsi davvero patriottici i comunisti dovevano accettare la guida dei nazionalisti nella causa del popolo tedesco.

Il dibattito del 1923 tra Radek e Moeller van den Bruck, con i suoi strascichi, si rivela secondo Azzarà come un «dialogo tra sordi» che mette in luce l’incompatibilità tra l’universalismo concreto del materialismo storico e il particolarismo delle storicità del nazionalismo. Era questa differenza a rendere davvero incompatibili i comunisti e i völkisch. Questo risultato ne costituisce la lezione più ricca di contenuti per la lettura del presente. L’Autore raffronta, attraverso la storia della ricezione della proposta di Radek, la battaglia egemonica del 1923 con le poco originali ma sempre più frequenti teorizzazioni di “nuovi fronti popolari” tra tutti i critici del capitalismo finanziario, che si leggono ora da parte di esponenti degli ambienti più disparati. Sin dalla sua uscita, il testo di Radek è stato infatti usato o come esempio di una possibile alleanza anticapitalista oltre la destra e la sinistra oppure, da socialdemocratici e liberali, come esempio per poter gettare nell’ambiguo e strumentale calderone del totalitarismo il comunismo, estremismo opposto e convergente col nazifascismo. Un grande merito del libro è quello di mostrare con chiarezza che non siamo di fronte né ad un’unione dei critici della modernizzazione né ad un incontro di totalitarismi, perché le matrici filosofiche alla base rispettivamente di comunismo e nazionalismo sono tra loro irriducibili e contrapposte. Emerge infatti chiaramente la distinzione tra la linea di Radek e della Terza Internazionale, appartenente in pieno all’universalismo marxista, e mirante a fare della classe operaia la guida del movimento di liberazione nazionale tedesco, e il particolarismo nazionalboscevico, che avrebbe reso la classe operaia subalterna a un “popolo” inteso naturalisticamente. Come chiaramente particolaristica era la filosofia del neonazionalismo tedesco, che mirava a ricreare nelle forme mutate degli anni Venti l’imperialismo tedesco. La teoria liberale di un’attrazione tra i due estremismi si rivela perciò fallace, se si prende in considerazione questa profonda incompatibilità filosofica di fondo.

Azzarà propone di individuare le ragioni del fallimento della linea Schlageter nella «filosofia della storia che in quegli anni era ancora ampiamente dominante nel campo marxista […]. E cioè a quel messianismo utopistico, a quell’idea di una palingenesi morale e politica che avrebbe dovuto purificare in profondità la natura umana e la storia del mondo, che era consustanziale a gran parte del ‘marxismo occidentale’ e che prendeva le forme non solo di un ottimismo rivoluzionario ostinato ma anche di un dogmatismo che soltanto le lezioni della storia avrebbero alla lunga – e non per tutti i comunisti – corretto»[6]. I comunisti sarebbero stati, in definitiva, incapaci di uscire dagli schemi di un rigido economicismo, per porsi sul terreno dell’egemonia e della contingenza. La questione nazionale sarebbe stato proprio il terreno che nella storia del XX secolo avrebbe posto in modo maggiore in crisi gli schemi del marxismo occidentale.

L’Autore si colloca nella scia di Domenico Losurdo, che in molte opere aveva sottolineato la centralità della questione nazionale nei classici del marxismo, e distinto con nettezza l’internazionalismo comunista dalla falsa contrapposizione tra nazionalismo e cosmopolitismo citata all’inizio, oltre che rivendicato l’importanza della dicotomia destra/sinistra[7]. L’opera di Losurdo si era dedicata a comprendere e mostrare che i momenti storici più alti del movimento comunista internazionale siano stati quando l’emancipazione del proletariato dallo sfruttamento capitalistico è stata legata alle lotte di liberazione dal giogo coloniale. Anche Azzarà ribadisce con grande nitore l’importanza per il materialismo storico di essere un universalismo concreto, che si contrappone in modo netto al particolarismo delle destre e all’universalismo immediato della parte dominante della tradizione liberale. Inoltre l’Autore mostra come una posizione rigidamente economicista possa scivolare in un dogmatismo che diventa facilmente un utopismo, lontano dal materialismo storico. In una fase in cui si rincorre anche tra i comunisti la moda teorica che costituirebbe la scorciatoia salvifica, i capisaldi della tradizione hegelo-marxiana possono fornire una bussola per orientarsi e per svolgere una corretta e disincantata “analisi concreta della situazione concreta”. Per questo motivo il volume di Azzarà è fecondo di strumenti per evitare una lettura binaria e subalterna della contrapposizione tra fan acritici dell’integrazione europea ed euroscettici incalliti e contemporaneamente per non cadere in facili, ma fallaci, schematismi.

In conclusione si permetta una nota su Karl Radek, che si staglia come una figura a torto trascurata nella temperie degli anni Venti, anni che già Lukács nella postilla del 1970 alla riedizione italiana della sua biografia di Lenin ci invitava a prendere in considerazione per la ricostruzione del materialismo storico a causa delle sue condizioni particolarissime, purché lo si faccia «su un piano puramente storico»[8]. La sua posizione si caratterizza per una maturità e un padroneggiamento degli strumenti dialettici con pochi eguali, disinvolta eppure pienamente materialista. Egli è ormai libero dai rigidi e dogmatici schemi evoluzionistici, che avevano determinato l’impasse epistemologica della socialdemocrazia, divenuta subalterna all’alta borghesia. Il marxismo di Radek è storicistico nella sua accezione migliore, perché evita vie di fughe in quelle prospettive palingenetiche e utopistiche sopra accennate, in cui spesso la tradizione marxista è caduta. Una riscoperta della sua figura non potrebbe che giovare all’asfittico e sterile dibattito teorico dei nostri tempi.


Note
[1] Stefano G. Azzarà, Comunisti, fascisti e questione nazionale. Germania 1923: fronte rossobruno o guerra d’egemonia?, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp.229, ISBN 978-88-5755-238-8
[2] «Der Faschismus ist der stärkste, der konzentrierteste, er ist der klassische Ausdruck der Generaloffensive der Weltbourgeoisie in diesem Augenblick.» Cit. ne “La lotta contro il fascismo”, il discorso pronunciato il 20 giugno 1923 alla plenaria dell’Esecutivo ristretto dell’Internazionale Comunista. Il testo completo è reperibile in originale al seguente link: https://www.marxists.org/deutsch/archiv/zetkin/1923/06/faschism.htm
[3] Il “corso sugli avversari” togliattiano fu tenuto all’inizio del 1935 presso la Scuola internazionale leninista di Mosca. Cfr. “Corso sugli avversari”, in Palmiro Togliatti, La politica nel pensiero e nell’azione. Scritti e discorsi 1917-1964, Bompiani, Milano, 2014, pp.263-382. È lo stesso Togliatti a ricordare proprio nell’incipit della prima lezione del corso l’intervento di Clara Zetkin in questione, contrapponendolo a quello di Amadeo Bordiga, il quale non vedeva differenza tra la democrazia borghese e la dittatura fascista e riteneva che esse si avvicendassero a vicenda. Pochi mesi dopo gli interventi citati, sempre nel 1923, Togliatti stesso aveva inviato un rapporto sul fascismo al Comintern. Cfr. “Un rapporto sul fascismo del 1923”, in ibid., pp.68-78.
[4] Azzarà, op.cit., p.32.
[5] Si confronti ad esempio con quanto Lenin scriveva ne L’estremismo malattia infantile del comunismo, parlando della rivoluzione d’Ottobre:
«Dopo aver realizzato la prima rivoluzione socialista, dopo aver abbattuto la borghesia in un paese, il proletariato di questo paese rimane ancora a lungo più debole [corsivo dell’Autore] della borghesia già solo in virtù dei formidabili legami internazionali della classe borghese […]. Si può vincere un nemico più potente soltanto con la massima tensione delle forze e all’immancabile [corsivo dell’Autore] condizione di utilizzare nel modo più diligente, accurato, cauto e abile, ogni contrasto di interessi [grassetto mio] tra la borghesia dei diversi paesi, tra i vari gruppi e le varie specie di borghesia all’interno di ogni singolo paese [grassetto mio], ogni benché minima possibilità di conquistare un alleato numericamente forte, pur se momentaneo, esitante, instabile, infido, condizionato. » Concludeva Lenin: «Chi non ha capito questo non ha capito un’acca né del marxismo né del moderno socialismo scientifico in generale [corsivo dell’Autore]». Vladimir Il’ič Lenin, L’estremismo malattia infantile del comunismo, in Lenin, Opere Complete, Editori Riuniti, Roma, 1967, vol.XXXI, p.60.
[6] Azzarà, op.cit., p.119.
[7] Per i suoi fini il libro si potrebbe inserire in un gruppo ideale con La sinistra assente (Domenico Losurdo, La sinistra assente, Carocci, Roma,2014), Il marxismo occidentale (Id., Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Laterza, Roma-Bari, 2017), e Nonostante Laclau di Azzarà stesso (Stefano G.Azzarà, Nonostante Laclau. Populismo ed egemonia nella crisi della democrazia moderna, Mimesis, Milano-Udine, 2017). In tutte queste opere (e non solo) gli Autori hanno evidenziato, in forme diverse, come, sia nella sua forma “imperiale” (la sinistra della “guerra umanitaria”) sia nella sua forma “populista” (la sinistra che vorrebbe rispondere alla crisi della democrazia moderna con un “populismo di sinistra” ma finisce con l’accettare un terreno regressivo, dominato dalle tendenze più particolaristiche) sia nella sua tradizione messianica e anarcoide contemporanea (la sinistra di un Negri o uno Žižek, che finisce per proporre, o riproporre, vecchi e nuovi “miti” e fughe nell’utopia) la cosiddetta sinistra dimostri di essere del tutto subalterna culturalmente al liberalismo e all’ideologia dell’imperialismo americano. Tutte queste forme dimostrano infatti di non avere strumenti per individuare e combattere la “contraddizione principale”, adeguandosi alle mode culturali (ossia puramente ideologiche) che di volta in volta si susseguono.
[8] György Lukács, “Postilla all’edizione italiana”, in Lenin. Unità e coerenza del suo pensiero, Einaudi, Torino, 1970, p.113.

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