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prismo

La distopia sbagliata

di Dario De Marco

In epoca di Trump e “fatti alternativi”, 1984 di George Orwell è tornato a scalare le classifiche di vendita. Ma siamo sicuri che il classico dell'autore britannico sia la distopia più adatta a raccontare il tempo in cui viviamo?

Distopia 1Ho visto milioni di persone terrorizzate dall’idea di essere osservate dal Big Brother; le ho viste alzare lo sguardo al cielo con angoscia, e non trovarci nessun occhio; le ho viste abbassare la testa, alquanto rincuorate, e mettersi in coda per comprare l’ultimo smartphone con videocamera a 16 megapixel e grandangolo a 135°.

Se ci trovassimo in un romanzo paranoide di Philip K. Dick, si potrebbe iniziare il discorso in questi termini. E forse anche finirlo, senza aggiungere altro. Invece siamo nella cosiddetta “realtà”: dobbiamo parlare di “fatti”, dobbiamo partire dalla cronaca, dobbiamo iniziare così:

Da quando Donald Trump ha iniziato il suo mandato presidenziale, il libro 1984 di George Orwell ha conosciuto un boom di vendite, fino addirittura a tornare in classifica. Comprensibile. Una realtà in cui il passato è modificabile a seconda delle convenienze politiche, e in cui una persona può credere vera un’affermazione e la sua smentita, in barba al principio elementare di non contraddizione, ricorda da vicino la distopia orwelliana. Alternative facts, il bipensiero. Eppure. Una società del controllo, oppressiva, violenta, totalitaria: siamo proprio sicuri di essere preoccupati per la distopia giusta?

Ecco, il 1984 è arrivato, e non è successo niente. Così, all’incirca, scriveva il teorico dei media Neil Postman più di trent’anni fa. Ora, si dirà, è facile prendersi gioco di Orwell che, per una ingenua suggestione (’48 che diventa ’84) aveva ambientato il suo futuro appena trentasei anni dopo; e non come i furbetti della fantascienza che datano 10.000 d.C., e voglio vedere chi mi smentisce. È solo una questione di prospettive, in fondo: diamo tempo al tempo, e tutti i futuri saranno passato, tutte le distopie diventeranno ucronie – o, come diceva Keynes, nel lungo periodo avremo tutti torto. Ma il punto è un altro. Proseguiva Postman, mettendo a confronto la distopia orwelliana con l’altrettanto celebre Il mondo nuovo di Aldous Huxley:

“Orwell immagina che saremo sopraffatti da un dittatore. Nella visione di Huxley non sarà il Grande Fratello a toglierci l’autonomia, la cultura e la storia. La gente sarà felice di essere oppressa e adorerà la tecnologia che libera dalla fatica di pensare. Orwell temeva che i libri sarebbero stati banditi; Huxley, non che i libri fossero vietati, ma che non ci fosse più nessuno desideroso di leggerli. Orwell temeva coloro che ci avrebbero privato delle informazioni; Huxley, quelli che ce ne avrebbero date troppe, fino a ridurci alla passività e all’egoismo. Orwell temeva che la nostra sarebbe stata una civiltà di schiavi; Huxley, che sarebbe stata una cultura cafonesca, ricca solo di sensazioni e bambinate. Nel Ritorno al mondo nuovo, i libertari e i razionalisti –  sempre pronti ad opporsi al tiranno – ‘non tennero conto che gli uomini hanno un appetito pressoché insaziabile di distrazioni’. In 1984, aggiunge Huxley, la gente è tenuta sotto controllo con le punizioni; nel Mondo nuovo, con i piaceri. In breve, Orwell temeva che saremmo stati distrutti da ciò che odiamo, Huxley, da ciò che amiamo”.

Anche oggi a qualcuno il dubbio è venuto: guardate che sono ben altre, le distopie in ballo! Eppure è Orwell che viene citato e stracitato, additato tutt’oggi e da autorevoli pulpiti come il più lucido profeta del XX secolo. E non c’era bisogno di aspettare Trump: le occorrenze su Google per “Orwell” sono 24 milioni e rotti, per Huxley 21: poco distacco; ma se cerchiamo i libri, “Huxley Brave New World” si ferma sotto il mezzo milione, “Orwell 1984” di milioni ne fa 14.

Orwell disegnava un mondo diviso fra tre meganazioni, una più totalitaria dell’altra. In Oceania governa il Grande Fratello, che come Dio vede tutti ma nessuno l’ha mai visto. La società è divisa in due caste, gli impiegati che sono bombardati dalla propaganda e sottoposti al controllo, gli uomini di fatica che sono forza bruta neanche degna di preoccupazione. Il sesso è scoraggiato, e volto solo alla procreazione. Per legge, dal vocabolario vengono estirpate alcune parole, quelle che incoraggerebbero il pensiero, il ragionamento (neolingua). Analogamente, viene in continuazione cancellato e riscritto il passato.

Huxley, sedici anni prima, immaginò un mondo unificato sotto lo stesso governo. La società è divisa in cinque categorie, da alfa a epsilon, in cui ogni membro è condizionato fin da prima di nascere, e ben contento di essere quello che è. Qualsiasi forma di malcontento è prevenuta e curata tramite la volontaria assunzione di una sostanza, il soma. Il sesso è fortemente incoraggiato, ma solo come forma di piacere (la procreazione avviene in vitro). La storia è disprezzata, il passato è beatamente ignorato da quasi tutta la popolazione.

Ora, guardiamoci un attimo intorno. Chiediamoci a chi assomigliamo di più. Dove sta la dittatura? Oggi siamo tutti liberi di dire e fare quello che vogliamo. Solo che quello che diciamo non conta un cappero. Dov’è il controllo? È fornito spontaneamente: le informazioni, le offriamo tramite social network; la pace sociale, la forniamo assumendo droghe, legali (alcol, fumo, psicofarmaci) e illegali ma altrettanto incoraggiate (eroina, cocaina). Il sesso? Ahahahah.

Aveva ragione Huxley, e torto Orwell – questo sostiene Neil Postman – ma la vulgata corrente pone sugli altari Orwell, e nell’oblio Huxley; o peggio (perché può esserci un peggio), pensa che tutto sommato i due avevano detto la stessa cosa, poi erano anche amici, e uno allievo dell’altro, ma chi di chi, boh? Aveva ragione Postman; eppure la stessa sorte (oblio, o peggio: assimilazione) è toccata a Postman stesso. L’ultima edizione di Divertirsi da morire è uscita da Marsilio ben 15 anni fa. E non mi sembra – non frequento più tanto il giro dei massmediologi (si chiameranno ancora così?) ma non mi sembra – che le sue impeccabili analisi, profetiche a loro volta, siano tanto al centro del dibattito (tutt’al più, una roba da fumetto). Aveva ragione Postman, a dire che aveva ragione Huxley. Eppure siamo qui, in ambasce per la distopia sbagliata. Perché? Mistero. O forse no.

Huxley scrive da un posto lontanissimo, il 1932 (anche se poi nel 1958 con Ritorno al mondo nuovo già se la potrà tirare a far vedere tutto quello che aveva azzeccato). E al di là degli orpelli fantascientifici (il 2540, il governo unico mondiale, le cinque caste) che ovviamente non trovano riscontro, vede delle sostanze senza neanche immaginare le forme: per esempio, paventa l’eugenetica prima della scoperta del Dna. Oppure: prevede gli effetti dei media senza parlare di media. È Orwell che parla di teleschermi – che sono visti ma anche vedono – ma è Huxley che centra il punto sul modo in cui il teleschermo eserciterà il controllo: facendoci divertire, divertire da morire.

https://youtu.be/hCoUNjjjlEQ

Nel video qui sopra Franco Battiato rilegge Aldous Huxley agli inizi della sua carriera, nel 1972.

Postman aveva visto la corsa al rimbambimento nella tv americana degli anni ’70 (che aveva portato un attore alla presidenza: l’attore!). Da noi il divertimento iniziò negli ’80 (allegria!), per scendere in campo a metà anni ’90. In effetti il ragionamento di Postman non era così differente – mutando gli attori da singoli individui a soggetti internazionali – da quello di Joseph Nye, inventore dell’abusato concetto di soft power: la “capacità di saper spingere gli altri a tenere condotte conformi a chi lo possiede, in virtù della forza attrattiva dei suoi valori, dei suoi modelli culturali, e senza il bisogno di impiegare la forza”. Sta a vedere poi perché uno è caduto nel dimenticatoio mentre l’altro è così cool (io un’idea ce l’avrei, ma ci arriviamo tra poco).

E oggi? Oggi il solo sentire parlare di television power fa ridere (per quanto…), ci evoca immagini di tenerezza, come il cadavere trafugato di Mike e le nonnette mezzo addormentate davanti allo schermo. Allora? La profezia di Huxley si è avverata, ma si è anche esaurita? Quando mai. Oggi siamo nell’impero del divertimento, nel bel mezzo: è un divertimento 2.0, che non corre solo in un senso, ma in entrambi. Con allegria, con consapevolezza, con accanimento, condividiamo in pubblico foto e dati personali, fatti privati e pensieri intimi. Se un tecnico del Socing arrivasse in casa nostra per installarci delle telecamere in ogni stanza, lo picchieremmo con un bastone nodoso. Invece facciamo la fila per comprarcele coi nostri soldi, e mettercele da soli in casa, anzi in tasca. Dice ma tanto a chi vuoi che interessino le scemenze che metto su facebook, a nessuno tranne ai miei amici. Certo. E a Trump.

Oppure. Prendiamo la neolingua: non c’è bisogno di renderla obbligatoria con la coercizione, punendo quelli che usano termini polisemici e stimolanti. Ci siamo arrivati da soli a parlare con 300 parole, le più semplici, e chissene. O i libri, la cultura: non è necessario mettere al rogo i volumi, tagliare le gambe ai giornali, censurare la ricerca scientifica: ora nessuno legge, troppa fatica, troppo impegno. Nessuno legge, e tutti scrivono: e chi non ha scritto almeno un romanzo, è però un opinionista compulsivo su twitter. Prendiamo poi l’informazione, in generale: qui l’interpretazione di Postman non invecchia, anzi diventa di giorno in giorno più esatta. La dittatura di Orwell ostacola, limita, restringe il flusso; la società di Huxley lo favorisce, lo ingrossa, lo amplifica, con il risultato di renderlo ingestibile, indigesto. È il noto fenomeno dell’information overload: a portata di un clic c’è tutto, c’è troppo; distogliamo lo sguardo, e siamo più ignoranti di prima.

(DISCLAIMER: Non sia mai qualcuno equivocasse: questo NON è un post che dà la colpa di tutti i mali del mondo a internet o ai social. Senza il web, per esempio, non sarei mai riuscito a scrivere questo articolo; senza i socialcosi, non avrei potuto intervallare la scrittura ascoltando un inedito di John Coltrane o scoprendo che su un blog c’è TUTTO L’io della mente di Hofstadter. Se usiamo facebook per i gattini e twitter per commentare in diretta le trasmissioni tv, gli strunzi siamo noi).

E allora? Se la profezia di Huxley – e la lettura di Postman – è così limpida, perché non è evidente? Perché non mandiamo in classifica Il mondo nuovo, perché non la smettiamo di drogarci di soma? Proprio perché il modello funziona. Il grillismo ha usucapito e corrotto il termine, e il concetto, altrimenti si potrebbe parlare di complotto. Se fossimo in un romanzo paranoide di Philip Dick, potremmo dare alla realtà la stessa interpretazione che Emmanuel Carrère diede del romanzo paranoico La svastica sul sole. Dick immaginò un mondo contemporaneo ma parallelo, con un passato diverso, un mondo in cui (come hanno fatto e faranno molti altri, tra cui Robert Harris) la guerra l’ha vinta Hitler, e non gli Alleati. Ma inserì in questa ucronia una meta-ucronia: mise tra i personaggi uno scrittore, che pubblica un romanzo in cui s’immagina che Hitler abbia perso la guerra; a un certo punto però succede qualcosa di strano, e il lettore intuisce che la verità non è quella del romanzo (Hitler ha vinto), ma quella del romanzo nel romanzo (Hitler ha perso): gli Alleati, i veri vincitori, hanno impiantato questa realtà fittizia per meglio governare. (Carrère poi va avanti nell’esegesi, e arriva a concludere che, mutatis mutandis, questo dovrebbe far dedurre a noi che la realtà è rovesciata, che Hitler ha vinto ma sta dominando il mondo facendoci credere di aver perso).

Insomma. Il modello Huxley funziona proprio perché è presentato come vincente il modello Orwell. Ha vinto Huxley, ma perché la vittoria sia completa, e il dominio assicurato, bisogna far credere che ha vinto Orwell. Come funziona? Così:

Ho visto migliaia di uomini mettersi in coda per comprare 1984; li ho visti abbassare la testa sulle pagine, pieni di angoscia; li ho visti alzare lo sguardo sulla realtà attorno a loro, e non trovarci il Grande Fratello, le telecamere obbligatorie, la psicopolizia; li ho visti che tiravano un sospiro di sollievo, e che tutti giulivi andavano a postare la foto del figlio che ha fatto pupù nella ciotola del gatto, LOL.


Dario De Marco
Ha fatto il giornalista (Sole24ore, Repubblica, Mattino...) e co-fondato il defunto mensile Giudizio Universale. Ha pubblicato Non siamo mai abbastanza, (66thand2nd) e Mia figlia spiegata a mia figlia (LiberAria). Non manca un blog: dariodemarco.wordpress.com

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lanfranco malaguti
Sunday, 11 June 2017 16:09
Sei molto in gamba!! Ora mi sento meno solo insieme ai miei pensieri eccentrici.
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