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marx xxi

Perchè Confindustria scarica le piccole imprese

di Pasquale Cicalese

confindustria monza milano“Alla più debole produttività dell’Italia nel confronto con gli altri principali paesi europei contribuisce anche una struttura produttiva sbilanciata verso le piccole e piccolissime imprese. La produttività delle imprese italiane con almeno 250 addetti è più del doppio di quella delle aziende con meno di 10 addetti; tale divario è solo del 48 per cento in Germania. Queste differenze si sono ampliate durante la recessione per effetto di un calo maggiore della produttività delle piccole imprese italiane rispetto a quelle tedesche. Per contro le aziende italiane di media dimensione (50-249 addetti), la cui produttività era già lievemente più elevata prima della crisi, tra il 2007 e il 2013 hanno registrato incrementi maggiori di quelli osservati in Germania (Banca d’italia, Relazione Finale, pag. 64 Roma 31 maggio 2016).

“Gli interventi sugli istituti di gestione delle crisi d’impresa varati l’estate scorsa e le ulteriori misure di recente approvate potranno facilitare il risanamento delle aziende in crisi reversibile e favorire l’uscita dal mercato di quelle non più profittevoli (”Ignazio Visco, Considerazioni finali del Governatore, pag. 12 Roma 31 maggio 2016).

“Se la generalizzazione della legislazione sulle fabbriche quale mezzo di difesa fisico e intellettuale della classe operaia è diventata inevitabile, essa, d’altra parte, generalizza e accelera la trasformazione dei processi lavorativi, compiuti su scala minima, in processi lavorativi combinati su scala larga, sociale, e con ciò la concentrazione di capitale ed il dominio esclusivo del regime di fabbrica. Essa distrugge tutte le forme antiquate e transitorie, dietro le quali si nasconde ancora in parte il dominio del capitale, e le sostituisce con il suo dominio diretto, senza maschera” (Karl Marx, Il capitale, Libro I pag. 349 Editori Riuniti 1989).

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Grafico 6.1 della Relazione Finale della banca centrale italiana a pagina 63: è riferita alla produttività oraria del lavoro. In totale è stagnante da almeno un decennio, con i servizi che calano. Ma è l’industria la vera sorpresa: nel 2007 raggiunge quota 107, con la crisi crolla a 100, ma dal 2009 in poi schizza in alto, fino ad arrivare a quota 118, quando i servizi calano a 98 e quella totale ristagna.

E’ accaduto che con la crisi il grado di intensificazione dei ritmi di lavoro nelle fabbriche italiane ha raggiunto vette inimmaginabili fino a pochi anni fa, a tal punto che Bankitalia scrive letteralmente che nelle medie aziende italiane della manifattura la produttività è superiore alle corrispettive tedesche.

Chi guida una media azienda italiana, magari export oriented, in questi anni ha guadagnato moltissimo e per giunta comprimendo ancor di più il costo del lavoro. Dunque, raccontano fandonie tutti i media che parlano di produttività in declino: quella totale ristagna perché il tasso di accumulazione, gli investimenti in conto capitale, sia pubblici che privati, sono crollati negli ultimi vent’anni; quanto ai servizi è da notare il grado di regolamentazione e scarsa concorrenza di molti settori ad essa legata.

Ma se si parla di manifattura, di industria in senso stretto, la produttività, almeno nelle medie grandi aziende, non ha nulla da invidiare a quella di altri paesi, tutt’altro. Perché allora si parla di contrattazione aziendale e “contratti di produttività”?

Il sistema industriale italiano vuole scaricare unicamente sulla forza lavoro operaia (ma non erano scomparsi?) il peso dell’aumento della produttività, visto che nei servizi non vuole o non può, data la rete di interessi cospicui che lì vi si annidano, incidere.

Quanto alla produttività totale dei fattori produttivi, quelli hanno a che vedere con i vincoli europei che impediscono spesa pubblica legata ad investimenti, a meno che tagli settori di spesa sociale…

Come faranno ad aumentare la produttività nella manifattura? Confindustria sentenzia la scomparsa futura della micro e piccola impresa.

Qui c’è da fare una nota: l’organo del padronato ha avuto le elezioni per la presidenza, vi concorrevano Vacchi e Boccia, quest’ultimo rappresentante della piccola impresa, mentre il primo è il classico esempio della mini multinazionale tascabile italiana, con un fatturato di 1 miliardo.

Vince Boccia, con Confindustria spaccata letteralmente in due. Poco tempo dopo, nell’insediarsi, Boccia pronuncia un discorso che fa scalpore dicendo che piccolo non è più bello e che bisogna che si creino più medio grandi aziende.

Vacchi aveva presentato un programma tipico della grande industria. Presidente della bolognese Ima, Vacchi mesi fa parlava di “contratto di filiera”, vale a dire la costruzione di una filiera unica per settori e tipologie merceologiche che dalla grande impresa si dipanava fino alla piccola.

Portava l’esempio della sua società: dopo la crisi mondiale del 2007 l’Ima ha acquisito partecipazione societarie di imprese sue fornitrici, hanno stabilito processi produttivi uniformi, condiviso comune forza lavoro si è investito su queste società fino al punto che la rete bolognese dell’Ima in pochi anni è passata da un fatturato di 17 milioni ad uno di 220.

Vacchi ritiene che questo processo debba essere applicato in tutti i distretti industriali italiani e che il Jobs Act, che ha eliminato tra l’altro l’articolo 18, dà la possibilità di questa nuova configurazione produttiva, perché con la riforma del mercato del lavoro, ciò che era un’eccezione per le piccole imprese, vale a dire la non applicazione dello Statuto dei Lavoratori, ora lo era anche per la media grande azienda.

Boccia, guarda caso, fa suo poco dopo il contratto di filiera facendo capire che le piccole imprese devono essere per lo più abbandonate al loro destino. Come faranno? Nelle Considerazioni Finali, così come in altri contesti istituzionali, il governatore Visco invita le banche ad essere protagoniste della “ristrutturazione industriale” dovuta alla digitalizzazione produttiva che permette un salto di qualità tecnologica alle imprese manifatturiere.

Il tutto passa, come già avevamo accennato, attraverso la  gestione delle sofferenze bancarie, con in più due novità. La prima: dal 2017, secondo le nuove regole del Comitato di Basilea sulla regolamentazione bancaria, la banca che vuole finanziare, ad esempio, un’impresa senza rating adeguato deve accantonare in bilancio una somma corrispettiva. Figurarsi per quelle con rating negativo, che sono tantissime. Ed interviene il secondo aspetto: nelle prossime settimane vedrà alla luce il decreto legge “Finanza per la crescita”: secondo indiscrezioni di stampa è previsto, tra l’altro, che imprese non finanziarie, dunque industriali, possano acquistare sofferenze bancarie. Cosa potrebbe succedere? Una media grande azienda acquista a 30 una garanzia valutata 100 di una piccola impresa ormai priva di qualsiasi sostegno bancario e certa al fallimento. Con pochi soldi può acquisire questa azienda fortemente svalutata, incorporarla e per questa via uniformare i processi produttivi della nuova frontiera della digitalizzazione.

Dunque, concentrazione manifatturiera per via bancaria e salto tecnologico. Con i miliardi delle sofferenze bancarie decine, se non centinaia di migliaia di aziende manifatturiere verrebbero svalutate e acquisite a poco prezzo dalle circa 5 mila mini multinazionali che a quel punto, secondo il modello di Vacchi e con l’aggiunta della fine della contrattazione nazionale a favore della contrattazione aziendale, questo secondo il modello del presidente di Federmeccanica Storchi, verrebbero concentrate. Con questo schema la produttività, vale a dire il grado di sfruttamento della forza lavoro, arriverebbe ai  livelli delle multinazionali e nascerebbero poli produttivi metropolitani sul modello giapponese delle keiretzu, conglomerati tra multinazionali e piccole imprese fornitrici, finanziariamente controllate dalla casa madre.

Insomma, un toyotismo applicato ai distretti industriali italiani. Il tutto passa dalla gestione delle sofferenze bancarie, vero oggetto del desiderio di fondi esteri, fondi italiani, e imprese concorrenti, proprio perché possono, con poco, estrarne molto valore.

Svalorizzazione di capitale industriale di piccolo taglio, svendita per via bancaria, concentrazione  manifatturiera con applicazione della contrattazione aziendale lungo le metropoli diffuse del nord Italia.

Questo lo scenario che potrebbe accadere. Va da sé che, come dice Marx, se la produzione diviene sociale, al sindacato di categoria, a meno che abbia finalità concertative da sindacato giallo, si deve sostituire il sindacato metropolitano, l’unico che vede i nessi tra i vari settori produttivi concatenati. In Italia l’unico che risponde a questo modello è l’USB. Alla concentrazione manifatturiera si accompagna l’addensamento metropolitano di tutta la forza lavoro della produzione sociale, e solo un sindacato metropolitano, alla lunga, può rivendicare le istanze di questa forza lavoro che non è solo aziendale, ma appunto sociale, legati agli aspetti della vita metropolitana, dalla casa alla sanità, dall’istruzione ai servizi sociali. Con la contrattazione aziendale, e aggiungiamo il welfare aziendale, che fa sì che una parte sempre più cospicua del salario sia variabile e non più fisso (di modo che si raggiunga l’effetto dell’applicazione del cottimo di fabbrica) chi vi aderisce, sarà necessariamente un sindacato giallo proprio perché a quel livello il grado di dominio del capitale è totale. Per sfuggire a questa cappa, devi necessariamente creare il sindacato metropolitano, l’unico in grado, nella rete della produzione toyotista, di legare i nessi sociali delle rivendicazioni salariali. Urge che chi voglia capire il salto storico e culturale che fa Confindustria riveda processi, strategie e modalità di fare sindacato. Altrimenti non ne capisci il senso storico, o peggio, ne sei complice.

Il passaggio alla contrattazione aziendale segnerebbe l’imprimatur della Terza Repubblica assieme alla riforma costituzionale ed è un limite non darle il giusto peso. Lo hanno capito bene i lavoratori francesi, da più di un mese protagonisti di una lotta senza precedenti. Il welfare aziendale, i premi di produttività, che sostituiscono, il primo, il salario sociale globale di classe abbattuto per via statuale secondo i dettami europei  e il secondo la contrattazione nazionale, hanno come obiettivo ultimo la restaurazione del cottimo di fabbrica, il vero livello di modalità di estrazione di plusvalore a cui tende ogni capitalista. Una parte sempre più ampia del salario deve essere variabile, stabilita con discrezione dalla parte datoriale con la complicità dei sindacati gialli, a cui vengono dati la gestione dei fondi pensione e degli istituti del welfare aziendale. L’esempio del “contratto di filiera” dell’Ima di Vacchi, se applicato a tutta la manifattura, farebbe esplodere la produttività oraria del lavoro, il grado di sfruttamento sarebbe massimo, unito alla digitalizzazione della produzione. Una volta fatto questo, per il padronato sarà opportuno delegare la legge Fornero per sostituire forza lavoro anziana con giovani digitalizzati provenienti per lo più dalle scuole tecniche e professionali. Da qui si capisce la Buona Scuola e l’alternanza scuola lavoro.

Siamo agli albori della Terza Repubblica: la piccola impresa viene abbandonata, è l’ora del sistema della grande industria e della concentrazione manifatturiera, come controtendenza alla caduta del saggio di profitto. Ritorno all’Ottocento, con il movimento operaio che rispose con il mutualismo. Ecco perché a questo livello il sindacato di categoria lascia lo spazio al sindacato metropolitano. A meno che ti attrezzi per gestire welfare aziendale e fondi pensione, cosa che già fanno…

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