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Come misurare la normalità

Marco Bascetta

«Essere di casa a corte, perdio! Questo è salire. Stare e farsi vedere con i grandi, studiare i loro gusti, assecondarne le fantasie, servire i loro vizi, approvare le loro prevaricazioni: questo è il segreto». Non è un'intercettazione della procura di Milano, nemmeno il consiglio e l'auspicio di una mamma di velina, il manuale di Lele Mora o il diario di Emilio Fede. A parlare non è la nipote di Mubarak, ma un altro, più illustre nipote, quello di Rameau, lo straordinario personaggio scaturito dal genio critico di Denis Diderot negli anni '60 del diciottesimo secolo: «Un composto di fierezza e abiezione, di buon senso e disragione». Che tuttavia mette duramente alla prova le convinzioni del filosofo, i suoi principi, la sua visione del mondo e, strisciando nei cortili del potere, «snida la verità». Di fronte all'infido cortigiano con il suo cinico ossequio alla vanità del potere (e alla propria), il filosofo non può che dichiararsi «disorientato da tanta sagacia e tanta bassezza, da quella profluvie di idee volta a volta così giuste e così false, da una così totale perversità dei sentimenti, da una turpitudine così completa e da una franchezza così fuori dal comune».


Qualche secolo dopo le ragazze di Arcore e gli svariati servitori del cavaliere restano di gran lunga al di sotto della grandezza del personaggio, della sua lucidità e spregiudicatezza. Non meritano gli epiteti pesanti che Diderot riserva al suo interlocutore immaginario, ma neanche la radicalità critica che si trova costretto a riconoscergli. Nondimeno è indubbio che alcune cortigiane, occasionali e non, della reggia di Arcore abbiano decisamente contribuito a «snidare la verità» o almeno a strappare il sipario che la mascherava. Ma la questione principale non è quanto le ragazze e i prosseneti della corte berlusconiana si identifichino davvero con la parte che recitano, con il ruolo assegnatogli, quanto condividano la mentalità del monarca o invece la sfruttino, e magari la disprezzino, minandola, per i propri fini. La posizione femminile, e il suo gesto di insubordinazione, comportano una contraddizione e un attrito che il giovane Rameau, maschio e integrato dalla parte giusta nella gerarchia del potere patriarcale non poteva conoscere né agire. E tuttavia anche da quella sua posizione, che ostenta senza pudore né vergogna le proprie cattive qualità, molte verità vengano inesorabilmente a galla, seppure non ne consegua ribellione o scandalo, ma solo un caustico disincanto. Comunque una premessa necessaria. La questione decisiva è tuttavia un'altra. E cioè il fatto che, contrariamente a quanto ammetteva il più ardito dei philosophes alle prese con l'inafferrabile parassita, di fronte agli atti, alle confessioni e alle imprudenti confidenze telefoniche delle cortigiane di Arcore nessuno è oggi «disorientato», disposto a mettere alla prova le proprie convinzioni.

Il giudizio morale (e politico), quello dei gregari e degli ammiratori così come quello degli indignati e dei censori, procede diritto e senza esitazioni, senza rompere, come invece faceva l'abbietto nipote, per usare ancora le parole di Diderot, «la tediosa uniformità che la nostra educazione, le nostre convenzioni sociali, i nostri mille riguardi prestabiliti hanno diffuso». Senza romperla ed anzi riproponendola come ricetta per salvare il paese dalla deriva orgiastica del potere. L'azzardo del filosofo consisteva essenzialmente nel riconoscere che la sagace bassezza dell'opportunista mette in questione lo stesso metro con cui la si misura.

E, per tornare dall'ancien règime a quello attuale, ciò che difetta è appunto il coraggio di vedere quanto la pantomima berlusconiana metta a sua volta in questione il metro e le convenzioni con cui viene misurata, e cioè la «tediosa uniformità» dell'antiberlusconismo, quella politica ridotta a galateo, a rimpianto di una perduta sacralità, a feticcio legalitario e perbenismo di facciata che accomuna gli spettri «di buona volontà» delle più diverse parti politiche. Il sogno inconfessato, che sovente si esprime rivendicando un ritorno alla «normalità democratica», alla pulizia dell'immagine, al «decoro» dei comportamenti, è la restaurazione di quell'etica borghese che, già a partire dall'affermazione dei fascismi, era franata rovinosamente. E le cui versioni, rappezzate nel dopoguerra, sono state spazzate via senza rimedio dal capitale finanziario, dalle metamorfosi della produzione e dalle forme di vita che ne conseguono. La damnatio memoriae della stagione dei movimenti, l'oscuramento del pensiero femminista, il misconoscimento della sua radicalità, e a suo modo anche il revisionismo storico, sono i passaggi obbligati nella rimozione della catastrofe di quell'etica borghese che, messa tra parentesi la democrazia conflittuale e condizionata dalla lotta di classe seguita alla sconfitta dei fascismi, si vorrebbe tornare a contrapporre al perenne carnevale berlusconiano: una grottesca quaresima condivisa dal Pd fino a Gianfranco Fini e alla Conferenza episcopale.

Quale sarebbe la straordinaria eticità della prima repubblica in base alla quale giudicare l'immoralità del Cavaliere e della sua corte? Le convenzioni sociali e i «riguardi prestabiliti» all'epoca dei grandi partiti di massa e delle loro doppie morali? Il moderatismo conservatore del terzo polo? L'autoritarismo prescrittivo della chiesa? Che prospettive apre un superamento del berlusconismo inteso come ritorno alla «normalità» e posto dunque sotto il segno della restaurazione? È la «normalità» di Marchionne e Marcegaglia quella che dobbiamo aspettarci? Le scemenze che si insegnano nei corsi di «etica aziendale»?

È ormai un'abitudine diffusa, tanto a destra quanto a sinistra, denigrare le idee «libertarie» della fine degli anni '60, imputando loro un principio di disordine corrosivo e irresponsabile che si sarebbe rovesciato alla fine nel libertinaggio berlusconiano ed altre «sregolatezze». E un antistatalismo radicale destinato ad assumere la forma del disprezzo e dell'elusione delle regole democratiche nonché a legittimare il più spietato liberismo. Da Sacconi e Gelmini fino al Pd, tutti sono ansiosi di chiudere a proprio vantaggio i conti con quella stagione e la sua ormai sfocata eredità, nell'intento, in realtà, di tappare la bocca alla rabbia del presente. Chi rimpiangendo l'autorità inflessibile dello Stato e i suoi severi depositari, chi rivendicando la libertà senza argini dell'impresa e le prerogative senza limiti degli avventurieri del mercato. Chi vagheggiando un punto di equilibrio tra i due totem della modernità.

La Santa alleanza tra la destra «perbene» e la sinistra moderata si distingue nel voler disciplinare, insieme alla conflittualità sociale e ai comportamenti dei governati, le trasgressioni pubbliche e private dei governanti. Con quale misura e quale linguaggio? C'entra o non c'entra qualcosa con il trionfo dei nani e delle ballerine una società che chiama un amore «investimento affettivo» e misura la cultura in crediti e debiti? Che considera le persone «capitale umano» ed esalta la competizione senza esclusione di colpi? Non è forse squisitamente meritocratico il cursus honorum che passa attraverso i festini e i lettoni di Arcore? Fa assai comodo confinare nell'anomalia, o nella patologia, il fenomeno Berlusconi, occultando le premesse e le condizioni da cui scaturisce.

In piazza si sventolano le copie della Costituzione, ma ben altri sono stati i rapporti di forze, le pratiche di potere, gli arbitrii che hanno sostanziato la «normalità» politica in questo paese. Troppe contraddizioni, troppi iniqui principi d'ordine, troppi discutibili personaggi, troppi complici del berlusconismo o della sua ideologia si nascondono oggi dietro la bandiera della Carta fondamentale.

La parola d'ordine della «dignità» delle donne ha portato in piazza centinaia di migliaia di persone. Ed è certo un bene che sia stato così. È un bene che il sistema di scambio tra sesso e potere, tra corpi e denaro sia stato investito, una volta portato alla luce del giorno, da un rifiuto di massa, da una insofferenza diffusa per quei rapporti e tutto ciò che li precede e ne discende. Ma con questa parola si possono intendere tante cose diverse, non solo quelle evocate da Stefano Rodotà contro il sopruso e la subordinazione, ma anche quelle che prescrivono Joseph Ratzinger e perfino il mullah Omar. Dovremmo uscire da Arcore per entrare nella «normalità» di una qualche sacrestia? Forse per ritrovare, più che la «dignità», i contenuti concreti che la sostanziano, converrebbe invece, come già fece il femminismo negli anni '70 e oggi le donne che hanno guardato con spirito critico alla mobilitazione del 13 febbraio, rimettere in questione il metro che la misura, il sistema di valori e di obbedienze che definiscono questa come altre parole. O forse, meglio ancora, trovarne di nuove.

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