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Le “due sinistre”

Dialogo con un compagno di Potere al Popolo

di Alessandro Visalli

sangue e suolo 5B1 5DIl testo che segue è la traccia di un dialogo insieme reale ed immaginario tra due posizioni per la ricostruzione della sinistra (o di una prospettiva socialista, che non è necessariamente la stessa cosa) in Italia. L’occasione è una lettura congiunta di un testo (“Dalla parte del lavoro”) proposto da un gruppo, il Network per il Socialismo (NSE), nel suo recente convegno di Fiuggi, che al momento aderisce a Liberi ed Uguali, anche se in posizione critica e provenendo da Sinistra Italiana (da ora SP, da “sinistra politica”), e la replica a questo di un compagno di Potere al Popolo (da ora SS da “sinistra sociale”). Il dialogo cerca di focalizzarsi più sulle dimensioni che uniscono rispetto a quelle che dividono, ma nel farlo non può evitare di individuare delle differenze nella prospettiva e nella cultura di provenienza.

La sinistra è sempre stata una costellazione di movimenti e tradizioni differenti. La principale differenza focalizzata è quella descritta nel libro “Insieme” di Richard Sennett: tra la “sinistra politica”, figlia del Marx che combatte Lassale, e la “sinistra sociale”, la cui tradizione risale agli sconfitti del socialismo (Kropotkin, Owen, Proudhon). Il movimento socialista ha sempre avuto diverse anime, il socialismo francese e quello tedesco, Proudhon e Robert Owen o Marx ed Engels. Il sindacato come occasione di aggregazione sociale o macchina da guerra a servizio del partito rivolto alla conquista della macchina dello stato, per farne lo strumento di una contro-dittatura (Lenin). Semplificando brutalmente linee che sono molto meno nette (lo stesso Marx contiene idee opposte, in particolare ai due estremi della sua vita), la “Critica al programma di Gotha” o i “Principi di Rochdale” di Owen. Secondo l’immagine che propone Sennett:

qualunque think tank pieno di cervelloni che sparano le loro ricette infallibili è l’erede dello spirito della vecchia sinistra politica; qualunque organizzazione di base che accoglie voci diverse, a volte contrastanti, a volte incoerenti, è l’erede dello spirito della vecchia sinistra sociale”.

Il dialogo che segue si inserisce pienamente in questa traccia, o almeno l’interlocutore lo ha visto in questo modo.

Le “due strade” si differenziano, sempre secondo Sennett, perché per la prima la collaborazione è un mezzo, mentre per la seconda è esso stesso il fine. L’obiettivo è lo scambio (quel che Sennett chiama “un fine dialogico”) mentre per la sinistra politica ciò che conta è giungere a conclusioni comuni ed efficaci (un “fine dialettico”). La tradizione della “sinistra sociale” punta a rafforzare il tessuto sociale sul territorio e l’azione politica ne è effetto secondario. Il difetto lo mette in evidenza Manuel Castells: chiunque ha mai operato in qualche movimento sa che tende a spegnersi, se il motore è l’entusiasmo e l’automobilitazione, ed a non essere sostenibile nel lungo periodo. Ad un certo punto si deve stabilizzare e creare delle strutture, ma queste in un certo senso tradiscono sempre. Determinano una riduzione burocratico-amministrativa (è la ferrea legge della oligarchia dell’ex socialista Roberto Michels), che del resto è molto ben visibile anche nella parabola del “terzo settore”, caro al nostro, che di fatto si è nel tempo ridotto ad una congiunzione tra Compagnia delle Opere, Lega delle Cooperative e Fondazioni Bancarie, connesso a valle dello smantellamento del sistema pubblico di garanzie e delle protezioni sociali a loro volta burocratizzate e soggette ad una riduzione amministrativa che è la parte vera della critica neoliberale anni ottanta e novanta.

Del resto nello stesso libro di Sennett, nell’ultima parte, è ricordato che collaborazione e competitività sono intimamente connesse. Occorre che le squadre si orientino a qualche obiettivo e quindi anche a qualche graduazione dell’aggressività. Guanxi, dunque.

La forma di progresso cui puntare deve trarre beneficio da entrambe le tradizioni, scriversi nel conflitto e scontro tra gruppi sociali (che sviluppano una loro guanxi) che portano se stessi in campo, visioni, esigenze e storie. Nessuna lotta per il riconoscimento (Hegel ripreso da Honneth) è possibile se non è insieme affermazione di sé e richiesta di potere, e se il sé non viene socialmente consolidato. Se, ad un certo punto (evocato Niklas Luhmann e i suoi sistemi autopoietici), in questa logica la razionalizzazione verso cui tende la freccia della storia viene letta solo come progressiva differenziazione e divisione del lavoro si risolverebbe in una frammentazione individualistica della società in monadi (in grumi socialmente densi, ma autoriferiti). Nessuna libertà, di individui o gruppi, può essere infatti disgiunta ed ottenuta senza conquistare una qualche rappresentazione condivisa della giustizia sociale. Tra questa (ovvero tra un ordine sociale che si può rappresentare ed accettare come ‘giusto’) e l’autodeterminazione esiste un nesso inscindibile. Ma tra la “libertà negativa” (quella liberale classica), la “libertà riflessiva” (quella kantiana, ideale di Habermas, che Berlin chiamava “positiva”) e la “libertà sociale” (nella quale la riflessione si radica nel mondo oggettivo, rendendo possibili i propri piani di vita) ci deve essere una relazione interna ed ascendente.

La seconda “libertà” (imperniata sull’autonomia) soggiace all’idea che il soggetto per essere libero deve pervenire a decisioni che possa considerare effettivamente sue, determinate dalla propria volontà, e che in qualche grado lo siano (si divaricano da qui le soluzioni di Kant e di Herder).

La terza “libertà” invece abbraccia la “sfera dell’oggettività” (Hegel), ovvero le istituzioni e la realtà sociale, e, come dice Honneth, “deve poter essere rappresentata in modo tale da essere libera da qualsiasi eteronomia e da qualunque coazione”, solo in questo modo la libertà è completa. Questa idea di “libertà sociale” è dunque una estensione della “libertà riflessiva” alla sfera della realtà esterna. Dunque, nel riconoscere reciprocamente che i piani d’azione e le prassi operative di ego e di alter sono complementari e si possono reciprocamente e integrare senza coazione, si va oltre l’ancora limitato concetto di “libertà riflessiva”, per accedere ad una libertà fondata su pratiche relazionali regolate da norme fondate in modo intersoggettivo. Questa possibilità è resa disponibile solo se sono disponibili effettive “istituzioni del riconoscimento” (Hegel) che consentono, nella loro articolazione di pratiche relazionali regolate da norme (sociali, giuridiche e politiche), agli scopi individuali di essere compatibili gli uni con gli altri in modo “oggettivo”. Ovvero in qualche modo permettono di riconoscere che il desiderio dell’altro è condizione dell’adempimento del proprio.

Ma la “libertà sociale” ci riporta quindi all’azione politica organizzata, dunque nello spazio dell’altra sinistra, quella “politica”.

 

Ma cominciamo a dialogare:

 

L’Unione Europea

SS. Condivido, del testo che è stato sottoposto l’idea di una deriva inarrestabile dell’ultima Unione Monetaria che pure era stata governata per lunghi tratti della fase costituente da governi di centrosinistra.

SP. Vorrei argomentare che è più vicino al vero considerare non sia tanto una deriva dell’ultima Unione Monetaria, sia pure ormai inarrestabile, ma proprio il carattere di fondo dell’idea.

Nel testo che abbiamo preso a base della nostra conversazione si affermava infatti che l’europeismo “reale” è un ordine istituzionale ed economico-sociale di aggravamento del segno della globalizzazione. Non lavora affatto, come il mito fondativo vorrebbe, per aumentare la solidarietà ed evitare la guerra (quella funzione la svolge, casomai, la Nato), ma per far cadere gli argini alla competizione intereuropea. È, come si dice, “un impianto di segno liberista, orientato al mercantilismo ed alimentato alla svalutazione del lavoro”, lo è sin dal Trattato di Roma del 1957 (qui un’analisi del dibattito dell’epoca). Solo che allora erano pochi i contraenti, limitate le materie cedute e troppo forti le organizzazioni dei lavoratori (che si opposero, a partire dal PCI). Inoltre, e questo è decisivo, i mercati dei capitali erano chiusi, vigevano gli accordi di Bretton Woods sotto egemonia americana, e le banche centrali erano dipendenti dalla politica. Inoltre, a veder le cose dal nostro punto, eravamo noi tra i paesi firmatari quelli dal costo del lavoro più basso. Ma la UE aggraverà tutto questo, dopo la difficile esperienza dello SME (cui il PCI continuò ad opporsi), estendendo un mercato comune interno nel quale all’estensione della competizione non fa da contraltare l’estensione dei diritti dei lavoratori e gli standard sociali. Non sono dimenticanze, sono dati strutturali.

Il punto più rilevante è che di fatto la competizione che domina l’ambiente istituzionale europeo, e basta prestare attenzione a qualsiasi passaggio chiave, non è tanto tra imprese quanto tra ordinamenti costituzionali e quindi in particolare tra livelli e prestazioni dei diritti sociali riconosciuti dai rispettivi meccanismi di welfare. Del resto a ben ascoltare, la competizione tra sistemi, che ci farebbero vivere “al di sopra dei nostri mezzi”, è parte integrante della retorica europea.

 

L’immigrazione

SS. Sul difficile problema della immigrazione invece direi che le posizioni, come le vostre, che cercano un terreno di mezzo tra la sollecitazione della paura e l’etica della responsabilità siano concettualmente da rigettare, tra l’altro perché ispirate ad un approccio quasi funzionale al tema.

SP. Vorrei rispondere a partire dalla tua scelta delle parole, perché mi pare interessante. Metti a confronto un sentimento (la paura), implicitamente credo accusandolo di irrazionalità, e un’etica (della responsabilità). Chiaramente se le cose sono qualificabili in questo modo non c’è alcun “terreno di mezzo”, non si può rilevare perché si confrontano piani diversi. Inoltre, aggiungi, che sarebbe “un approccio funzionale al tema”. Nel testo che abbiamo posto a base della conversazione si scrive:

l’immigrazione è l’altro tema, peraltro associato con quello della sicurezza, che dobbiamo affrontare in modo adeguato a ricostruire una relazione, innanzitutto sentimentale, con le fasce popolari attratte da offerte politiche regressive. Il punto centrale consiste nell’iniziare a discuterne, senza nascondere il problema sotto il tappeto di un solidarismo di circostanza. Bernie Sanders, durante la sua compagna elettorale per le primarie per la presidenza degli Usa, sottolineo che una politica di frontiere aperte è una politica liberista (“Open borders is a right wing policy”). Da sinistra, dobbiamo proporre un modello di integrazione rispettoso anche dei timori e delle ansie diffuse. Un modello di integrazione che non destrutturi ulteriormente il mercato del lavoro.”

Non so cosa trovi di sbagliato in questa prima parte. Che la politica delle frontiere aperte sia storicamente una politica di destra liberale è pacifico. Lo riconosceva anche Karl Marx nella famosa conferenza del 1846 al congresso degli industriali inglesi.

Ma continua:

“Fra un multiculturalismo indifferenziato e incapace di selettività e la ghettizzazione discriminatoria proposta dalla Lega, dobbiamo saper integrare oltre a accogliere, unificare le lotte sociali e assicurare un flusso migratorio in entrata il più possibile programmato, nel rispetto delle regole e delle tradizioni del nostro Paese”.

Se questo è un “approccio funzionale”, mi pare, quello alternativo sarebbe un “approccio etico”. Trovo francamente singolare che ad una posizione materialista, che si fa carico dei problemi oggettivamente creati dalla competizione sul lavoro e cerca di recuperare una relazione sentimentale con la parte debole del lavoro stesso, si opponga solo una posizione etica, qualificata come “della responsabilità”. Naturalmente bisogna avere responsabilità, ma occorre anche individuare i soggetti verso i quali essere responsabili. In una logica inclusiva e non escludente (mi sento responsabile solo per gli ultimissimi anche se danneggiano oggettivamente, facendosi usare e sfruttare, i penultimi). Riconosco più facilmente una ispirazione cristiana che una marxista in questo snodo.

SS. D’altra parte è vero che il tema è molto complesso, per venirti incontro, anche io credo che a sinistra non possiamo permetterci più il lusso di evitare un ragionamento progettuale sugli strumenti da utilizzare per la costruzione dell’integrazione. Ius Soli, Scuola, partecipazione: personalmente, non voglio regolare i flussi ma sono stanco di costruire ghetti, chiudendo di fatto gli occhi sulle condizioni in cui costringiamo i migranti a sopravvivere dentro spazi (in senso lato) inabitabili. E’ una questione che, tra l’altro, attraversa anche le nostre responsabilità storiche e questo non dobbiamo mai dimenticarlo.

SP. Vorrei rispondere che su questo sono d’accordo, bisogna progettare una risposta e il nostro punto di riferimento deve essere un’ordinata ed efficace integrazione, che non vada a danno del lavoro e non sia un fattore di riduzione dei salari (ho provato a parlarne e motivarla in “Il cespuglio inestricabile”). Ma capisci che ciò significa precisamente che la dinamica non si può lasciare nelle mani del capitale, il quale per sua natura tende ad aumentare l’offerta di lavoro debole non appena si verifichi una scarsità che potrebbe aumentare il prezzo a suo danno. Come era stato scritto, quindi:

“Da sinistra, dobbiamo proporre un modello di integrazione rispettoso anche dei timori e delle ansie diffuse. Un modello di integrazione che non destrutturi ulteriormente il mercato del lavoro. Fra un multiculturalismo indifferenziato e incapace di selettività e la ghettizzazione discriminatoria proposta dalla Lega, dobbiamo saper integrare oltre a accogliere, unificare le lotte sociali e assicurare un flusso migratorio in entrata il più possibile programmato, nel rispetto delle regole e delle tradizioni del nostro Paese. In tale contesto, è decisiva la revisione degli accordi di Dublino, prevedendo sanzioni sulle erogazioni di fondi europei per i Paesi che non collaborano e, dall’altro, risorse aggiuntive ai Paesi della sponda Sud del Mediterraneo. I Paesi di partenza dei flussi devono essere messi in sicurezza sotto il profilo della stabilità politica e sotto il profilo economico, legando l’assistenza economica (che deve provenire da tutta l’Europa, i muri o le polizie ai confini alpini prima o poi saranno travolti) anche a forme di controllo dei flussi “in situ”. I gruppi criminali che fanno tratta di esseri umani vanno perseguiti anche dai Governi dei Paesi di partenza. I luoghi in cui i migranti vengono trattenuti nei Paesi di partenza devono essere gestiti nel pieno rispetto dei diritti umani e devono essere aperti ai controlli delle istituzioni internazionali”.

Penso che con poco lavoro nel merito su questa linea ci potremmo trovare in accordo.

 

L’organizzazione

SS. Ma la principale differenza tra le nostre posizioni è sull’organizzazione. Bisogna partire da un semplice dato di realtà: il soggetto politico unitario (ovvero “il partito”) si è dimostrato drammaticamente inadeguato ad affrontare le sfide imposte dalla complessità sociale. Larghi tratti dell’agire politico tradizionale sembrano oggi inagibili, se manteniamo la barra sui vecchi strumenti di aggregazione e organizzazione della rappresentanza politica.

Mi pare impercorribile, insomma, l’idea di costruire il consueto contenitore dall’alto, utilizzando i soliti canali – documento sottoscritto da personalità/gente comune, assemblea costituente e così via - precostituendo un intreccio di linee ideologiche su cui costruire percorsi di adesione.

SP. Quindi siamo nell’opposizione tra “sinistra politica” e “sinistra sociale” di cui parla Sennett. E quasi con le sue stesse parole. Per rispondere parto dal tuo incipit che mi pare iscritto in un orizzonte di senso pragmatico: il partito si è dimostrato inadeguato, precisamente “ad affrontare la complessità sociale”. Immagino che con questa locuzione tu faccia quindi riferimento a quella vasta trasformazione del sentire sociale ed insieme della “piattaforma tecnologica del capitalismo” che ha preso l’avvio dagli anni sessanta del secolo scorso, manifestandosi in tutta la sua forza negli anni ottanta. E’ certo un grosso tema e molto frequentato, qui c’è davvero una vasta letteratura, molto differenziata. Per come la metti, tuttavia, mi pare che implicitamente tu lo legga come una sorta di irreversibile avanzamento quello che per me è essenzialmente un movimento storico di crisi della democrazia insieme ai partiti. Permettimi allora di dissentire: solo chi è forte può permettersi di non organizzarsi. Ovvero chi è difeso direttamente dall’affermazione, apparentemente neutra, dei diritti liberali e dispone delle risorse (economiche, sociali, culturali) per renderli effettivi.

Qui c’è una questione di una certa profondità: la frammentazione e distruzione dei corpi sociali intermedi ha un inconfondibile segno di classe, basta chiedersi “cui prodest”. Tuttavia è anche una trasformazione che deriva dall’orientamento che prende, a partire dalla crisi di sovrapproduzione mondiale degli anni settanta (nella competizione sempre più violenta tra la vecchia fabbrica del mondo, gli USA, e i centri industriali emergenti in Europa e Asia), la strategia del capitale. Questo si orienta a disgregare le organizzazioni del lavoro attraverso una crescente disoccupazione, apertura delle frontiere (con messa in competizione dei lavoratori in diverse arene connesse solo dal capitale), innovazione monetaria e ridefinizione della sua governance. Usando il termine “capitale” al senso di Marx, ovvero come etichetta di una logica impersonale, fuori di qualunque antropomorfizzazione, tutto questo a me pare abbia diversi segni, ma prevalga quello dell’attacco alla democrazia (anche se viene venduto come l’esatto opposto) attraverso la sistematica messa sotto attacco dei suoi strumenti di autodifesa e in primis della società politica. Partecipa in modo diagonale a questo attacco anche l’antiutoritarismo che abbiamo vissuto a partire dal ’68 e poi grazie ai nostri amati (ho quasi tutti i libri di Foucault e Derrida) autori francesi. Partecipa nel senso che mette sotto accusa, insieme agli elementi autoritari, di fatto anche ogni possibilità di organizzare contro-poteri nel timore che scivolino in “poteri”. Questi sono, per la verità, sbandierati in ogni pagina, ma sono piegati ad un discorso individuale e culturalista. Il vasto movimento che si apre negli anni in cui Reagan in America e prima la Thatcher in Inghilterra predicano una nuova ed energica forma di individualismo, contemporaneamente, seguendo lo spirito del tempo, la nuova sinistra lascia le vecchie organizzazioni centriptete (che ‘non funzionano più’) rivolte a trovare ciò che unisce e gli obiettivi in comune, per una politica dei movimenti, identitarie, concentrate ognuna su una tematica in particolare nell’ambiente e nei diritti umani (un movimento la cui conseguenza è a volte una retorica del “politicamente corretto”, che nasconde una precisa base di classe ed obiettivi).

Il movimento si muove, io credo, entro il campo egemonico della rivoluzione reaganiana. Ricordiamo quindi i quattro capisaldi di quel pensiero: la vita buona è quella degli individui che contano sulle proprie forze, anche in piccole comunità, ma non come cittadini con fini comuni; la priorità va data alla costruzione della ricchezza e non alla sua più equa distribuzione, in modo che famiglie, comunità ed individui possa essere indipendenti e prosperare; più il mercato è decentrato e libero, più crescerà ed arricchirà tutti; lo Stato è il problema.

Certo, ci sono dei fatti duri da aggirare: si è aperto davvero un “vuoto” tra il politico e le frammentate moltitudini, in particolare nel nuovo assetto neoimperiale che si determina nei primi anni duemila (avviandosi nei novanta) quando la finanziarizzazione travolge ogni argine. E sicuramente in questo vuoto proliferano le forme reattive, l’assedio alle istituzioni e la loro delegittimazione, e le strutture discorsive della “sorveglianza”, “interdizione”, “giudizio” di cui parla in modo così mirabile Rosanvallon nella sua trilogia, ma che vediamo in pratica ovunque.

Nel contesto di un generale “si salvi chi può”, sembra quindi a molti, ed è comprensibile, che resti solo una forma “di sinistra” della stessa ‘interdizione’, ‘sorveglianza’ e ‘giudizio esterno’ neoliberale. Ovvero una forma reattiva che prende l’abito di una contro-politica militante. La lunga ritirata degli anni novanta, nel deserto neoliberale, alla fine ha portato a trovarsi degli eremi protetti nei quali ricostruire delle chiese protette.

Ma io sarei, volendo stringere, dell’opinione di Colin Crouch: alla fine, proprio alla fine, anche questi sono segni dei tempi che abbiamo vissuto. Si tratta del prodotto di tensioni individualiste che, nel ‘si salvi chi può, perdono la possibilità stessa di mettere in campo una visione ed un progetto. Il rischio, almeno tanto grande quanto quello del dirigismo che temi, è che le comunità di “self-help”, coordinate faccia-a-faccia, perdano la possibilità di impostare una critica trasformativa del mondo. Almeno nella sfera oggettiva nella quale si gioca la terza libertà di cui abbiamo parlato.

La democrazia efficace che abbiamo conosciuto, e che ha fatto tanta paura al capitale, era attivazione ed impegno di organizzazioni rivolte al progetto di una società più coesa. Progetto capace di azione intenzionale e coordinata e per questo capace di spostare i rapporti di forza ed opporre strategia a strategia. La volontà e i corsi di azione si devono formare in comune, nella dialettica tra spinte dal basso e formazione della decisione sulla base di input politici, cioè di visione generale, progetto, cultura, altrimenti non differirebbe dalle forme di organizzazione sociale di prossimità tra consanguinei e paesani, tipiche di società meno strutturate e tradizionali.

Come sostiene Crouch nel suo fortunato libro la relazione del proliferare di movimenti di cooperazione e mutualismo, o dell’associazionismo più o meno disconnesso e plurale, che si vede negli anni novanta e duemila (non a caso) coincide strutturalmente con il ritiro del welfare state. Ovvero con l’aprirsi di un vuoto al centro del rapporto tra pubblico e privato. Ma questi movimenti che comportano un allontanamento dalla politica, scrive, “non possono essere citati come indicatori dello stato di salute della democrazia, un concetto politico per definizione” (C. p.22). Democrazia e società liberale non sono infatti concetti coincidenti, la prima presuppone una certa eguaglianza, e la reale capacità di influire sui risultati. Mentre il liberalismo richiede la massima libertà di azione per gli agenti, indipendentemente dalla loro forza e dal grado di ineguaglianza che vige nella società. La democrazia, con il suo ideale di attivazione del meno avvantaggiato, può tendere a limitare la libertà del più forte, implica necessariamente un certo grado di protezione, ovvero di “norme e limitazioni”.

Certo il fatto è che i partiti tradizionali hanno perso la loro base sociale e, come dice Ignazi, si sono rifugiati nello stato, arrivando ad avere “Forza senza legittimità” e quindi a confinarsi nella “democrazia del leader”; hanno reagito cercando di diventare “per tutti”. Un partito fatto così, senza base, è nel “vuoto”. Ma il vuoto viene sempre riempito e questo è stato fatto dalle lobbyes. Questo partito, “post-democratico” non ha allora più la classica forma organizzativa a cerchi concentrici, dalla direzione politica nazionale, alle rappresentanze parlamentari, quelle regionali e locali, la base dei militanti; tende ormai ad avere un cerchio di dirigenti, circondato da una cerchia di consulenti e lobby, una sorta di ellisse. Staccati troviamo, quindi, i militanti di base che servivano per le raccolte fondi e dei voti. In entrambe le funzioni essi sono sostituiti dall’ellisse dei lobbisti e delle aziende di riferimento (ormai la raccolta voti si fa più tramite i media ed in televisione e per quello servono molti più soldi). In conseguenza di queste trasformazioni Crouch vede “una elitè interna che si autoriproduce, lontana dalla sua base del movimento di massa, ma ben inserita in mezzo ad un certo numero di grandi aziende che in cambio finanzieranno l’appalto di sondaggi di opinione, consulenze esterne e raccolte voti, a patto di essere ben viste dal partito quando questo sarà al governo” (C, .p 84). L’esempio portato è Forza Italia, ma poi abbiamo avuto il PD che è andato ancora oltre.

Il rischio è che nel rigetto ben comprensibile di questo modello, di fatto, si ricada semplicemente in forme (il riferimento migliore qui è nel testo di Rosanvallon “La politica nell’età della sfiducia”) che si pensano solo come vocate a sorvegliare ed interdire, ed esprime in fondo verso il potere istituzionale una forma di pressione che non vuole affatto operare, non intende sostituire un progetto ad un altro. Ad una “controrappresentanza” che si pensa essenzialmente come pungolo. Una forma di “controdemocrazia”, di sorveglianza, interdizione e giudizio come espressione dell’interazione tra una società che si sente esterna ed il politico.

Ci troveremmo, insomma, davanti una ‘democrazia della sorveglianza’, in cui le figure essenziali diventano “vegliare”, “denunciare”, “verificare”; gli attori centrali diventano le “organizzazioni reattive”, le “autorità” e le “istanze di valutazione e loro tecnostrutture”; le legittimità sono quella “sociale procedurale”, “sostanziale”, e la “imparzialità”.

Continuando a leggere Rosanvallon si vede che la forma democratica contemporanea è dunque attiva, espressiva, coinvolgente. Ma rischia di essere anche reattiva, rivolta solo al controllo, all’umiliazione. Una ‘contropolitica’ disinteressata all’azione trasformativa che non cerca di comprendere, leggere le cose e le relazioni, di fare progetti.

Non si tratta, però, di una passività; è più che altro una ‘democrazia diretta regressiva’, una sorta di “consenso per difetto”, un “doloroso e impotente restringimento” (R. p. 174). Sicuramente anche una teatralizzazione, una centralità del momento dell’accusa, dell’invettiva, dell’imputazione.

Cambia anche l’atteggiamento individuale, “è la percezione stessa della radicalità ad avere cambiato natura. Essa ormai ha abbandonato la prospettiva di un grande avvenire, immaginandosi invece con le modalità di una voce morale inflessibilmente preposta a stigmatizzare i potenti o a risvegliare i dormienti” (R., p. 239). Non si può dire ci manchino gli esempi di questo abbandono di obiettivi politici in favore di scopi morali o pratici.

Tutto ciò provoca però indirettamente una certa atrofia, paralisi del campo politico, un sentimento di impotenza e di paura; che non è naturalmente l’ambiente ottimale per agire e decidere in modo rapido ed efficiente. Del resto l’obiettivo di questi ‘contro movimenti’ non è conquistare il potere, ma precisamente “contenerlo ed inibirlo”; in qualche modo paralizzarlo.

SS. Ma, capisco quanto dici, tuttavia io resto affascinato e convinto delle pratiche organizzative di un certo socialismo di matrice luxemborghiana di inizio Novecento, poi sconfitto da approcci assai più strutturati che si sono dimostrati – a quel tempo sì – più attrezzati ad affrontare le sfide dell’inizio del secolo scorso. Credo che quei modelli vadano recuperati. Lo credo non soltanto perché condivido le riflessioni di Sennett o di altri, ma perché sperimento l’efficacia di questa impostazione nella pratica politica quotidiana. Laddove siamo riusciti (intendo come Rifondazione Comunista) ad aprirci alle variegate e indistinte costellazioni associative, che partono dal basso operando con tenacia e con grande efficacia in microcosmi spesso invisibili, relegati ai margini più estremi della società, siamo riusciti a mantenere un presidio politico importante, capace di misurarsi con successo finanche sul piano della rappresentanza istituzionale. L’abbiamo fatto fregandocene del prezzo da pagare sul piano dell’identitarismo puro. L’abbiamo fatto in condizioni di minoranza nel dibattito e nelle gerarchie prevalenti all’interno del nostro partito che pure ha dovuto tollerare il nostro approccio, comune a tante realtà locali, in nome dell’oggettiva riuscita delle sperimentazioni locali volte alla massima apertura verso soggettività non necessariamente “comuniste”, portate avanti accantonando nome e simbolo in nome di percorsi unitari tutti costruiti dal basso, attraverso il lavoro collettivo. Che è quello che genera realmente identità condivise e unità: ecco, se insisto sulla questione della forma è perché dentro il nostro partito ne discutiamo da anni e sappiamo bene che dove sono prevalse logiche tradizionali RC ha perso completamente la capacità di incidere, sia pure in minima parte, sulle realtà percorse e agite. E ha perso pure i circoli fisici, aggiungo con amarezza. I partiti non funzionano, lo sai meglio di me. E non funzionano solo perché lo ipotizzano o lo dimostrano le analisi sociologiche dei nostri pensatori preferiti, ma perché lo abbiamo toccato con mano. Abbiamo dovuto prenderne atto, farci i conti, sperimentare altre strade.

SP. Come può apparire anche da quanto ho scritto sopra non stento affatto a credere che questa strategia funzioni meglio, e per certo i partiti contemporanei non funzionano più, operando nel “vuoto” che si è aperto.

Però noi stiamo entrando in una nuova fase, nella quale il “partito del leader” o “piattaforma”, almeno nelle versioni di centro, ha perso. È vero che la Lega ha un leader molto visibile ed efficace, ma non si riduce ad esso, è un vasto movimento con fortissimo radicamento sociale e territoriale. E il M5* in pratica non ha leader, li mangia continuamente. Siamo davanti ad un reale cambiamento, forse alla fine della lunga ritirata.

Qui ed ora si tratta di capire, di chiedersi, quale sia lo scopo dell’azione.

E se è produrre un progetto complessivo che trasformi il mondo, e che stia in campo per farlo, nella lotta contro altre forze ben munite ed organizzate, bisogna chiedersi, io credo, come si evita il rischio del “partito piattaforma” che vive nel vuoto occupato dalle lobbyes, ma anche come si evita il rischio di tradurre senza volere una forma politica neoliberale, intrinsecamente individualista e strutturalmente incapace di portare trasformazioni strutturali. Una forma dedita solo all’assedio. Una forma anche strutturalmente minoritaria, che si rivolge solo alla sorveglianza.

L’idea che ti trasmetto è di prendere in considerazione l’idea che forse è il momento di riformare i ranghi e farsi di nuovo sotto.

SS. Sono molto perplesso di quel che dici, mi pare siamo abbastanza lontani, per capirci meglio, in un testo presentato al Forum di PaP per l’organizzazione ho scritto, citando Pino Ferraris e Richard Sennett, che la configurazione delle “forme della politica diffusa e parziale”, che rivendica “la differenza come valore”, e “tensioni tra globale e locale”, debba essere intesa secondo il principio delle “autonomie confederate”. Una sorta di “confederazione politica dell’iniziativa sociale”.

SP. Tu vedi da quanto sopra che il rischio che intravedo è nel modo di intendere il termine “politica”. Se questa è in continuità con il vecchio slogan “il privato è politico”, alla fine mi appare più parte di un problema che ci portiamo dentro, nella lunga ritirata che ci è alle spalle, che della soluzione. Il “patto tra diversi, retto da reciprocità ed equivalenza” che non a caso è, nel testo che citi, “realizzato [solo] attraverso il diritto” mi sembra la classica mossa liberale, direi costitutiva, anche se qui viene evocato un principio libertario, quello delle “associazioni che si danno i propri statuti”. Ma, come si sa, questa è la mossa liberale per eccellenza: autonomia come norma a sé. Siamo qui su un piano difficile e non bastano queste poche parole per discriminare (che si potrebbe andare in tante direzioni diverse), ma rimanderei al minimo alla riflessione prima accennata di Axel Honneth in “Il diritto della libertà”, per una rilettura hegeliana e più complessa del tema dei diritti (civili e sociali).

Naturalmente si tratta di contesto, ed il mutualismo nel contesto del forte movimento dei lavoratori e sindacale è un’indispensabile levatrice. Nella seconda parte del convegno “Che cosa ci insegna la storia della mutualità?”, citato in questa scheda, opportunamente ci si chiedeva se il civismo non sia una surroga della crisi del welfare o se abbia effettivamente una valenza politica. Marco Revelli, in quella occasione, pur criticando la torsione amministrativista e burocratica, auspicava un welfare locale attivo e forme di sussidiarietà circolare promossa da una domanda associata che, però, tende a scivolare sempre in una nuova aziendalizzazione e professionalizzazione. Insomma, anche qui non è così semplice, e all’angolo ci sono i corposi rischi che abbiamo visto prima.

SS. Certo su una cosa hai ragione, in effetti il problema dell’organizzazione e della direzione politica finisce sempre per rientrare dalla finestra, come scrivevo in quella occasione: Di fronte a ciò, la sfida, quella vera, sta nella definizione della catena di partecipazione e di decisione che deve necessariamente armonizzare, attraverso un “patto” politico strategicamente definito, i percorsi sopra ipotizzati. Il principio “una testa, un voto” è evidentemente indispensabile ma non è sufficiente. Vanno costruiti i meccanismi di delega e di rappresentanza unitaria e intermedia, i criteri di scelta, le rotazioni degli incarichi, la natura e il ruolo dei portavoce, le questioni politiche da rappresentare nella costruzione delle regole (la questione di genere, ad esempio, ma non solo). Va definita, senza irrigidimenti, la ‘questione istituzionale’, che non può che essere contestualizzata e che mai più deve rappresentare lo scopo ultimo della nostra azione.

SP Vorrei chiudere per ora questa nostra conversazione riconoscendo che figure come il Pino Ferraris che hai ricordato ci sono care, le due tradizioni che abbiamo tratteggiato sono fratelli di cammino. Bisogna certamente anche lavorare perché in quello che chiama società civile non sia necessariamente contrapposto alla società politica, dobbiamo riprendere ad avanzare, serrare i ranghi.

Al convegno “mutuo soccorso e welfare”, ottobre 2010, leggo che Ferraris scrisse al termine del suo bellissimo intervento:

“L’orizzonte si amplia.

Creare esperienze di cittadinanza attiva nelle molte pieghe della società attraverso il far da sé solidaristico della mutualità significa oggi andare con fatica contro-corrente rispetto ad un sistema e ad una cultura politiche che producono passività e deleghe plebiscitarie.

Oggi è possibile creare un nesso tra la filosofia economica contemporanea della capacitazione di Amartya Sen con quello che Osvaldo Gnocchi Viani, padre della Camere del Lavoro, scriveva nello statuto della Società umanitaria di Milano: “Lo scopo dell’istituto è quello di mettere i diseredati in condizione di rilevarsi da se medesimi”.

Creare la condizioni perché le persone siano capaci di sollevarsi e di camminare sulle proprie gambe: questa antica missione del mutuo soccorso resta, ancora oggi, il cuore della azione per la libertà e per la giustizia sociale”.

E’ giusto, è bello, è necessario. Ma quella che Trentin chiamava la “seconda sinistra”, espressa nella parte migliore del sindacalismo dei consigli, in tante lotte per il lavoro, contro la distruzione della sua creatività, la parcellizzazione di conoscenze e funzioni, la negazione del carattere unitario della persona umana, occorre che unisca le sue forze e sensibilità per cambiare realmente questo mondo.

E' ora di tornare all'offensiva.

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alessandro visalli
Sunday, 10 June 2018 17:53
Si può fare.
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Eros Barone
Sunday, 10 June 2018 17:18
@ alessandro visalli

Antonio Gramsci, in un passo celebre (ma che forse a te è sfuggito) dei "Quaderni del carcere" (edizione del 1975 curata da V. Gerratana, Q 4, 14, p. 435), delinea limpidamente, riferendosi al magistero labrioliano, l'intreccio tra autonomia di pensiero ed autonomia politica: "Una teoria è rivoluzionaria in quanto è appunto elemento di separazione completa in due campi, in quanto è un vertice inaccessibile agli avversari. Ritenere che il materialismo storico non sia una struttura di pensiero completamente autonoma significa in realtà non avere completamente tagliato i legami col vecchio mondo". E siccome mi par di capire che sei napoletano, questo mi ti rende simpatico e accetto volentieri l'invito a prendere il caffè, ponendo un'unica condizione: che sia nostro compagno di degustazione Roberto Buffagni, reazionario di tre cotte e tuo amico, il quale, benché ultimamente adempia l'ufficio di 'spin doctor' per il governo Di Maio-Salvini, essendo anche un uomo di teatro e un biografo di Ugo Tognazzi mi risulta particolarmente simpatico. A presto!
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alessandro visalli
Sunday, 10 June 2018 16:41
E mica me la prendo personalmente, anzi, non me la prendo affatto. Se abitassimo nella stessa città ti inviterei tranquillamente a prendere un caffé (come si dice dalle mie parti). Vedo che la cosa ti impegna, e sei naturalmente libero di impegnarti come vuoi. Chiami eclettico tutto ciò che non è coltivazione ortodossa di una sola tradizione, presunta omogenea. Dunque più o meno sarebbero tutti eclettici, prima di diventare classici. Ma, via, lasciamo andare. Ti faccio i migliori auguri per il tuo lavoro.
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Eros Barone
Sunday, 10 June 2018 14:18
@ alessandro visalli

Lenin scrive in un passo di "Stato e rivoluzione" quanto segue: "«L'eclettismo è sostituito alla dialettica; nei confronti del marxismo questa è la cosa più consueta, più frequente nella letteratura socialdemocratica ufficiale dei nostri giorni. Questa sostituzione non è certo una novità; si poté osservarla persino nella storia della filosofia greca classica. Nella falsificazione opportunistica del marxismo, la falsificazione eclettica della dialettica inganna con più facilità le masse, dà loro una apparente soddisfazione, finge di tener conto di tutti gli aspetti del processo, di tutte le tendenze dello sviluppo e di tutte le influenze contraddittorie ecc., ma in realtà non dà alcuna nozione completa e rivoluzionaria del processo di sviluppo della società» (Lenin, Stato e rivoluzione). Del resto, la lotta contro l'eclettismo, variante postmoderna del revisionismo, ha una portata generale nell'attuale congiuntura politico-ideologica e va ben oltre la persona e gli articoli di Visalli. Infine, colgo l'occasione per invitare te ed altri (ricordo un vivace scambio con Domenico Moro) a distinguere tra l'argomento 'ad personam' e l'argomento 'ad hominem'. La mia polemica appartiene con tutta evidenza alla seconda categoria.
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alessandro visalli
Sunday, 10 June 2018 09:05
Che fatica che fai...
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Eros Barone
Saturday, 09 June 2018 22:30
Marx, Owen, Proudhon, e poi Sennet, Honneth, Crouch, Revelli, Ferraris (anche se un novello don Abbondio non mancherebbe di ruminare tra sé: "Ferraris. Chi era costui?"). Sennonché i due dialoganti delle "due sinistre" ci somministrano la solita zozza dell'eclettismo come terapia omeopatica per una sinistra pro-imperialista e social-liberista. Orbene, qualsiasi dizionario ci informa che l'eclettismo è un atteggiamento che consiste nello scegliere da differenti teorie le tesi che più si apprezzano, senza considerare la coerenza di queste tesi fra di loro e la connessione di esse con le teorie da cui sono state desunte. La definizione testé riportata mette in rilievo la duplice natura - teorica e pratica - di tale atteggiamento, che «si fonda» sulla congiunzione di un elemento soggettivo - arbitrario - con un elemento logico, contraddittorio. Si tratta, in effetti, della struttura che caratterizza l'ideologia come falsa coscienza all'interno di una società divisa in classi e le assegna un ruolo specifico nella riproduzione delle condizioni spirituali di questa società. Parafrasando l'asserzione con cui Lenin apre lo scritto su "Marxismo e revisionismo" (1908) - asserzione la quale ricorda che «un noto adagio dice che se gli assiomi della geometria urtassero gli interessi degli uomini, si sarebbe probabilmente cercato di confutarli» - si riesce più facilmente a comprendere come l'eclettismo si sforzi di conseguire il medesimo risultato, cioè l'inconfutabilità, con la giustapposizione, opportunamente dosata, di ingredienti eterogenei, ricavati da differenti teorie e resi compatibili non attraverso qualche forma, ancorché problematica, di riduzione concettuale, ma attraverso la loro finalizzazione pratica al progetto «sistemico» di cui l'eclettismo è lo strumento principe: la riproduzione dell'egemonia ideologica del blocco borghese-revisionista entro le «forme belle» della democrazia rappresentativa e dello Stato di diritto e l'occultamento della dittatura esercitata sulle masse lavoratrici dal capitale finanziario.
Cionondimeno, il risultato cui approda l'eclettismo non è, sul piano strettamente logico, l'inconfutabilità, ma l'insensatezza, cui corrisponde, sul piano socio-politico, la «neutralizzazione» degli interessi di classe contrapposti. L'eclettismo è il figlio del medesimo processo in virtù del quale - come ha spiegato Marx nel I libro del "Capitale" - «la forma del salario oblitera (... ) ogni traccia della divisione della giornata lavorativa in lavoro necessario e pluslavoro, in lavoro retribuito e lavoro non retribuito» e «tutto il lavoro appare come lavoro retribuito»; processo operante in modo tale che «su questa forma fenomenica [cioè sul salario], che rende invisibile il rapporto reale e mostra precisamente il suo opposto, si fondano tutte le idee giuridiche dell'operaio e del capitalista, tutte le mistificazioni del modo di produzione capitalistico, tutte le sue illusioni sulla libertà, tutte le chiacchiere apologetiche dell'economia volgare». D'altronde, se è vero che l'eclettismo affonda le sue radici, esattamente come la «forma del salario», nella sfera della circolazione delle merci, è altrettanto vero che esso, in quanto schema fondamentale dell'ideologia dominante, si costituisce all'intemo di una tradizione epistemologica che, per il suo duplice contrassegno strumentalistico e convenzionalistico, può essere ricondotta alla matrice del «compromesso bellarminiano». Sulla genesi di questa tradizione mi permetto di rinviare, qui accanto, alla presentazione concernente il conflitto tra Galileo e Bellarmino. In effetti, la verità è proprio la prima vittima di quella 'filosofia della post-verità' che è rappresentata dall'eclettismo e dalle applicazioni di esso alle diverse pratiche umane (politiche, filosofiche, scientifiche, letterarie ecc.): quella verità che, come Gramsci non si è mai stancato di ripetere, è sempre rivoluzionaria.
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