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nuovadirezione

L’ora del gattopardo (e quella del gatto selvaggio…)

di Mimmo Porcaro

unnamed9754Poco dopo il terribile terremoto che nel dicembre del 1908 devastò Messina, il generale Franz Conrad von Hötzendorf, capo di stato maggiore dell’esercito asburgico, ispirò articoli di giornale che invitavano a cogliere quella insperata occasione per attaccare finalmente l’Italia. Sottile stratega, non c’è che dire. Il consiglio non fu seguito allora, ma è stato seguito pochi giorni fa nell’ultima riunione del Consiglio europeo, ad opera di Angela Merkel. Il paragone non sembri forzato: è vero, il terremoto (l’epidemia) colpisce oggi anche la Germania, ma vuoi perché colà i numeri del contagio sembrano inferiori, vuoi perché il loro sistema sanitario è meglio attrezzato del nostro, vuoi (soprattutto) perché i loro mezzi finanziari sono incomparabilmente più ingenti di quelli italiani, i tedeschi possono galleggiare, noi no. E se vogliamo salire sulla zattera dobbiamo pagare caro, con aumenti vertiginosi del debito “nostrano”, intromissioni, condizionalità, svendita delle imprese strategiche. Cosicché la corda che ci viene oggi lanciata per uscir dai flutti (“Indebitatevi pure, cari amici italiani…” ) ci servirà domani per impiccarci. Pare che, nella videoconferenza che precauzionalmente ha sostituito il tradizionale incontro, “mutti” Angela (ossia “mammina”, come affettuosamente la chiamano i suoi connazionali) sia apparsa soltanto in foto, e abbia parlato attraverso un interprete: si può ben dire che non si è mai vista una fotografia menare tali e tanti fendenti.

A questo punto l’Unione europea (e in particolare l’eurozona) non è che un immenso cadavere che continuerà ad ammorbare l’aria e ad intralciare i movimenti ancora per altro tempo, ma che ha perduto ogni vera capacità di imposizione politica.

Può risorgere (mai dire mai…), ma tutti saprebbero che si tratta di un vampiro. A questo punto anche una faticosa e sempre possibile mediazione dimostrerebbe più che altro che non c’è un progetto comune, ma solo aggiustamenti momentanei fra strategie opposte: a che pro, quindi, tenere in piedi i vincoli dell’eurozona? Se anche Conte deve dir di no, se Mattarella deve addirittura alzare il sopracciglio, e se molti europeisti di ieri cominciano a ritrattare e a fingere sdegno e stupore per un’arroganza che fino a poco fa hanno consapevolmente accettato, vuol dire che la partita è chiusa, o sta per chiudersi. Una classe politica come la nostra, mediamente incolta e vile, che ha scelto e riscelto negli anni d’esser volontariamente serva del vincolo esterno per soffocare le esigenze sociali che non riusciva più a contenere dall’interno, può certamente accettare che il proprio paese vada lentamente incontro alla rovina economica e politica. Ma non può accettare, pena durissime reazioni popolari, la subitanea morte fisica di centinaia di cittadini e la fame dei milioni che saranno disoccupati. “Mutti” Angela non lo ha capito? Forse lo ha capito, ma gli interessi che esprime le impongono di sacrificare l’Italia, e con essa l’Unione, all’idea che il debito sia sempre e comunque una colpa. Altra sottile stratega.

Chi invece prova ad essere davvero uno stratega, e dimostra di esserlo, è ancora una volta Mario Draghi. Un politico puro, e non un tecnico, che in forza di questa sua caratteristica è stato il capo ideale per una Bce che, proprio grazie alla sua presunta neutralità tecnica, è il vero organo politico comunitario. Un politico puro che in questo momento cruciale, in un luminoso articolo apparso il 25 marzo sul Financial Times, può presentarsi a buon diritto come il grande gattopardo del capitalismo occidentale e dell’Unione europea: ed esortare a cambiare tutto perché nulla cambi.

Cambiare tutto. Di fronte all’attuale recessione, e per evitare la più che probabile depressione, i debiti privati dovranno essere assorbiti dallo stato. Il debito pubblico, quindi, non dovrà più essere visto come un vizio, ma come una virtù: livelli molto più alti di debito pubblico diverranno “a permanent feature of our economies”, una caratteristica stabile del capitalismo occidentale. Come procedere? Le banche dovranno creare denaro concedendo crediti a tasso zero a tutte le imprese che manterranno e creeranno occupazione. Per evitare la “prudenza” che ha caratterizzato in passato l’attività degli istituti di credito europeo, che non hanno prestato a dovere gli ingenti capitali liberati dal quantitative easing, questa volta non solo il capitale prestato sarà sostenuto direttamente dallo stato sotto forma di garanzie, ma i prestiti eventualmente non restituibili saranno ripagati alle banche direttamente dagli stati stessi. E tutto ciò dovrà essere fatto con la massima celerità, in barba a tutte le regolamentazioni che possano rallentare l’azione. La logica è quella della guerra e dell’immediato dopoguerra, periodo nel quale, ricorda Draghi, solo una minima percentuale delle spese fu coperta dall’imposizione fiscale, e tutto il resto andò a debito. Insomma: una mezza rivoluzione rispetto alla costituzione materiale e formale dell’Unione europea, un qualcosa che può far sopravvivere l’economia del vecchio continente solo rischiando consapevolmente di far saltare le alleanze e gli indirizzi che l’hanno finora guidata, e quindi solo grazie all’eutanasia dell’Unione germanocentrica e dell’Unione in quanto tale. E qui emerge il lato americano del nostro: indebolire quel mercantilismo tedesco che è ormai l’unica eccezione che rallenta la corsa dell’occidente verso la nuova religione del debito.

Cambiare tutto, ma per non cambiare nulla. Infatti i soggetti che, è il caso di dirlo, “tengono il banco” sono sempre gli stessi: è quel sistema bancario che, come matrice e cassa dei fondi d’investimento, è stato protagonista della crisi del 2007-8, ne ha prolungato gli effetti ed ha impedito ogni seria riforma dei meccanismi che hanno condotto alla crisi stessa. Lo stato è il garante e il pagatore in ultima istanza. Ma il mediatore sociale per eccellenza, il decisore nell’allocazione delle risorse e il destinatario della restituzione dei prestiti è pur sempre la banca. Non si parla, quindi del ruolo dello stato come creatore diretto di occupazione, come intermediario diretto del credito, come pianificatore strategico. Senza lo stato il sistema non reggerebbe, ma la gestione politica del credito, e quindi la politica industriale e salariale, spetta quasi tutta ai privati. Qui non c’è solo, a mio avviso, la necessità di rendere in qualche modo digeribile alla Germania una politica espansiva, affidandone la gestione alle banche private e non alla Bce. C’è dell’altro. Draghi fa di tutto pur di non ribaltare le fondamentali gerarchie sociali che si sono instaurate negli ultimi decenni. Confessa che lo stato è la chiave di volta, ma non gli da il ruolo direttivo che quindi gli spetta: con quale scusa?

È presto detto: per Draghi, che in questo segue la più limpida e opportunistica tradizione liberista, lo stato ha semplicemente il dovere di sostenere appieno il settore privato di fronte alle catastrofi di cui quest’ultimo non ha colpa. Ma noi neghiamo decisamente che questa colpa non vi sia. Non perché il capitale abbia creato apposta il virus, come qualcuno pur deve, per amor di fantascienza, continuare a credere. Ma perché le mutazioni e la diffusione dei virus sono facilitate dalle produzioni agroindustriali intensive e dalla loro stretta connessione con la miseria delle baraccopoli; perché le gravi difficoltà dei sistemi sanitari sono effetto delle politiche privatistiche degli ultimi anni; e infine perché se a fronteggiare le conseguenze del coronavirus è oggi un sistema economico già profondamente tarato, ciò si deve sempre e soltanto alle gravi responsabilità del settore privato, che ha già assorbito immani risorse dagli stati facendone pessimo uso. La rimozione di questi piccoli particolari consente a Draghi di attribuire allo stato il ruolo del servo sciocco del capitale. Ma il gioco non può durare. Alcuni commentatori a ragione sostengono che anche se Draghi non lo dice la sua ricetta implica che, alla fine, siano le banche centrali ad accollarsi il debito pubblico. E ciò, aggiungiamo noi, riaprirebbe la strada alla monetizzazione del debito e alla creazione di una moneta fiat anche da parte dello stato e non soltanto delle banche. Riaprirebbe la strada ad una possibile politica popolare. Il gattopardismo non è privo di rischi: per tentare una operazione egemonica, deve in qualche modo introiettare il punto di vista dell’avversario e in questo modo gli apre alcuni varchi. Ciò non significa affatto che ci si debba iscrivere al “partito di Draghi” o appoggiare acriticamente ogni governo che vada in quella direzione. Si tratta piuttosto di dire: data la gravissima situazione, meglio il debito che la lesina; ma se si sceglie finalmente la via dell’espansione deve essere chiaro : a) che alle spese si fa fronte con la creazione di moneta da parte dello stato e non subordinandosi ai mercati finanziari; b) che se lo stato paga, lo stato deve avere forte voce in capitolo nella gestione degli investimenti; c) che se (come oggi si riscopre) il lavoro conta molto, allora deve essere molto remunerato e molto tutelato; d) che tutto ciò implica immediatamente un duro scontro con l’Unione europea, e in prospettiva tutt’altro che remota l’uscita dall’eurozona.

Insomma, l’opzione Draghi, o tutto ciò che le somigli, “risolve” la crisi solo acuendo le contraddizioni europee. Ma finché tutto resta com’è si tratta solo di un litigio tra lorsignori. Finché non compare un terzo incomodo, tutto si riduce alla lotta fra due grandi gruppi di capitalisti, il gruppo di chi, come la Merkel, pensa che solo i meritevoli possano far debito incondizionato e quello di chi, come Draghi, pensa che far debito sia un dovere di tutti. Il terzo incomodo dovrà certamente essere un soggetto politico: tutte le forze sovraniste-costituzionali e realmente socialiste, nessuna esclusa, devono essere all’altezza della possibile metamorfosi della strategia avversaria e mostrarsi capaci di analoghe trasformazioni. Devono cioè superare in fretta personalismi e gelosie di organizzazione non tanto per aprirsi le une alle altre e così costruire improbabili unificazioni, quanto per aprirsi tutte insieme alle numerose e nuove forze sociali, politiche e culturali che la crisi di oggi e di domani non potrà non generare.

Ma il terzo incomodo dovrà essere soprattutto un grande movimento di rivendicazione sociale, frutto dell’intreccio tra paure e possibilità. Le paure, acuite dalla generale minaccia fisica portata dal coronavirus, sono quelle della disoccupazione, del fallimento e comunque della perdita significativa di reddito. Le possibilità sono proprio quelle aperte dall’azione trasformista del capitale: se si passa dal “non c’è una lira” a qualcosa che suona come “ci sono soldi senza limiti”, è naturale e giusto che i diseredati chiedano che ci siano soldi anche per loro. E tanti. La massa di frustrazioni ed angosce covate da decenni di precarietà, di umiliazioni, di signorsì dettati dai ricatti potrebbe esplodere proprio quando il capitale diviene meno micragnoso. Non sarebbe la prima volta. Sia che il denaro affluisca in maniere palesemente ingiuste, dando luogo a immediate ribellioni, sia che esso produca occupazione e quindi rafforzi le condizioni strutturali di un conflitto, le migliaia e migliaia di lavoratori pubblici e privati di cui oggi si tessono ipocritamente le lodi, molto probabilmente si presenteranno a riscuotere, dopo tanti salamelecchi morali, anche un qualche riconoscimento materiale. Insomma: l’unghiata del gattopardo potrebbe produrre la rinascita, pur se in forme mutate, di quel gatto selvaggio che fu simbolo di molte delle lotte operaie degli anni d’oro, spesso spontanee, inattese e sgradite sia ai padroni che a gran parte delle istituzioni tradizionali del movimento operaio. È l’ora del gatto selvaggio quella che dobbiamo attendere e affrettare: se questa non scocca, tutto, dal punto di vista del potere di classe, sarà soltanto ripetizione.

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