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Contro il politically correct

di Giovanna Cracco

La morale, il linguaggio, il pensiero associativo e la pratica denotativa; fintamente emancipativo e mai antisistemico, perché il politicamente corretto ci immobilizza socialmente divenendo regressivo

michael dziedzic B1RsVgAoODU unsplashPolitical correctness. Tanto se n’è scritto negli ultimi anni, in termini positivi e negativi. Nato nell’ambiente liberal statunitense dei cultural studies alla fine degli anni ‘80, si è poi diffuso in tutto il mondo occidentale. Tuttora mantiene nella sfera culturale e politica di sinistra una posizione di sostegno – anche se voci critiche iniziano a emergere – mentre a destra è spesso contestato. Per quanto le dinamiche della sua evoluzione già si trovassero nell’iniziale impostazione del pensiero, è difficile immaginare che alla nascita fosse possibile prevedere le caratteristiche conformistiche e repressive che ha raggiunto oggi. Jonathan Friedman inizia a scriverne, in termini di appunti per un ipotetico libro, nel 1997; continua a ragionarci nei primi anni Duemila, e lascia gli scritti nel cassetto; riprende più volte il manoscritto, aggiornandolo, e infine lo pubblica nel 2017. In Italia esce nel 2018, per i tipi di Meltemi, con il titolo “Politicamente corretto. Il conformismo morale come regime”. Il testo è interessante perché Friedman è un antropologo, e la sua riflessione si interroga sulla natura strutturale del politicamente corretto come forma di comunicazione e sul contesto che ne consente l’emersione fino a farlo divenire una pratica dominante. “Criticato e discusso in una serie di pubblicazioni, [il politicamente corretto] ancora non è stato analizzato dal punto di vista antropologico” scrive Friedman nell’introduzione; per concludere:

“Questo non è un libro sui pro e i contro di una forma specifica di politicamente corretto […] è piuttosto una critica generale di tutte le forme di politicamente corretto come mezzo di soppressione del dibattito”.

Il libro si focalizza sulla realtà svedese, Paese nel quale l’autore vive, principalmente sul tema del multiculturalismo, e partendo da un’esperienza personale si apre a un’analisi complessiva: qui interessa prendere a spunto giusto alcuni elementi, per ragionare.

 

La morale

Difficile negare che il politically correct sia figlio del postmoderno; nel bene e nel male, lo sono anche i cultural studies. Un punto di partenza che diviene rilevante solo se la riflessione approfondisce cosa questo significhi. Marc Augé, non per caso anch’esso antropologo (ed etnologo), è andato oltre parlando di “surmodernità”, una condizione caratterizzata dall’eccesso, di tempo, di spazio e di ego: ci interessa quest’ultima. La fine delle grandi narrazioni dell’epoca moderna, così come le aveva individuate Lyotard, ovvero la fine della credenza nelle grandi narrazioni, ha distrutto il senso collettivo e creato un individuo che si considera un mondo a sé, costretto a interpretare da sé e per sé le informazioni, sempre più globali e invasive (h24) che lo raggiungono, nella ricerca di una produzione individuale di senso. Un Uomo disorientato, perché privo di una Verità universale emancipatrice. Le grandi narrazioni infatti – illuminismo, idealismo, marxismo – si auto-legittimavano come sapere, e dunque come Verità, proprio in quanto universalistiche ed emancipative.

È qui che il testo di Friedman può aggiungere un tassello alla riflessione. Le grandi narrazioni non avevano bisogno di usare argomenti morali per imporsi, perché potevano pretendere di asserire Verità evidenti e assolute. Diversamente il politically correct, che al pari di una grande narrazione ambisce all’egemonia e all’universalismo – anche se sarebbe più corretto parlare di ‘globalismo’, che è altra cosa, perché ha radici economiche, nel sistema capitalistico, sulle quali si sta cercando di costruire e imporre una cultura cosmopolita – ritrovandosi privo della potenza intellettuale dell’epoca moderna ha fatto della morale l’elemento prioritario, costruendo un’ideologia politica che si basa sulla presunta esistenza di alcune auto-evidenti verità morali sul mondo. Le ripercussioni culturali e politiche di una simile posizione sono importanti.

La categoria della morale pretende di stabilire universalmente e insindacabilmente ciò che è ‘buono’ e ciò che è ‘cattivo’, ciò che è ‘giusto’ e ciò che è ‘sbagliato’. Non a caso è una categoria da sempre appannaggio dello spazio religioso, e privato, mentre a quello politico, e pubblico, è sempre appartenuto il concetto di ‘etica’ e soprattutto la sfera razionale, che significa argomentazione, riflessività critica, confutazione. La morale non si discute, non contempla un dibattito perché non implica un ragionamento, così come non si discutono i dogmi e la fede. Il politically correct poggia su questi meccanismi: pretende di essere portatore dell’unica ‘giusta’ visione e da questa posizione reprime il dibattito, squalificando sul piano personale l’interlocutore contrario ed evitando di aprire un confronto razionale nel merito di ciò che l’interlocutore afferma. È l’utilizzo del “pensiero associativo”.

 

Il linguaggio

Il politicamente corretto opera per mezzo di classificazioni e catene associative di classificazioni, afferma Friedman. Classifichiamo sempre in categorie, fa parte del nostro modo di interagire con gli altri e di leggere il mondo, avere una ‘griglia’ ci è necessario per comprendere e muoverci. Questo naturale processo diventa un problema quando lo leghiamo alla pratica associativa, perché quest’ultima è incompatibile con l’argomentazione razionale. Critichi il multiculturalismo e le politiche di immigrazione, dunque (associazione) sei un razzista e di destra; critichi il Ddl Zan, dunque (associazione) sei un omofobo e un transfobico e di destra. Ne consegue che, invocando la morale della ‘giusta’ posizione che il politically correct rivendica per sé, non viene aperto un dibattito bensì eliminato l’interlocutore, e con esso il pensiero critico che porta. È la dinamica della cancel culture (1) e, anche quando non si arriva a tanto, il confronto tra posizioni diverse è viziato e manca di onestà intellettuale.

Il politicamente corretto pone inoltre al centro il linguaggio come meccanismo politico, nella convinzione che possa modificare la realtà. Il discorso è ampio e indubbiamente le parole creano categorie di pensiero e la influenzano – il linguaggio nato con il Covid-19 ne è un esempio e tutti ne stiamo facendo esperienza (2) – ma il politically correct compie un passaggio ulteriore: l’atto del denotare è visto come qualcosa che crea la realtà, invece di riferirsi a essa. Istituendo un controllo sul linguaggio stabilisce cosa può essere detto e cosa taciuto, quali parole si possono pronunciare e quali non devono essere utilizzate, così imponendo una nuova realtà totalizzante attraverso la censura di chi vi si oppone, grazie all’uso del meccanismo associativo.

 

La società

Due sono le questioni che solleva.

La prima, dall’alto. Nel momento in cui il politicamente corretto è invocato e portato avanti dalle élite culturali di un Paese, con la visibilità mediatica che ne consegue – ed è ciò che oggi avviene in Italia e nel mondo occidentale in generale – significa che la sfera intellettuale si è indebolita: può prendere piede infatti solo dove l’argomentazione razionale non è più una pratica agita, dove la razionalità intesa come capacità di ragionamento e confutazione è in declino e dunque la mediocrità regna, perché dove c’è acritica accettazione intellettuale c’è conformismo, e dove c’è conformismo c’è mediocrità.

La seconda, dal basso. L’Uomo surmoderno non ha punti di appoggio: individualizzato, privo di grandi narrazioni e di Verità, il pensiero dominante lo spinge ad abbracciare una cultura cosmopolita che tuttavia ancora non gli appartiene, in una contraddizione continua con le sue radici inevitabilmente locali – nazionali o regionali, e sempre storiche. Incapace di definire la propria identità personale, ne scaturisce un’insicurezza che lo porta a una eccessiva dipendenza dal riconoscimento altrui, che vuol dire finire per essere controllati dagli altri. Il politically correct consegna una definizione morale: farla propria significa sentirsi dalla parte ‘giusta’ e socialmente accettati nel porto tranquillo del conformismo, senza nemmeno dover argomentare la propria posizione; rifiutarla vuol dire avere la forza di ritrovarsi socialmente dalla parte ‘sbagliata’ e la capacità argomentativa per difendersi da accuse di razzismo, omofobia, ecc. E così il politicamente corretto si impone, in una classica dinamica top-down – o pensiero dominante-dominati, si sarebbe detto nel Novecento – impedendo lo sviluppo di una capacità critica e fagocitando, depotenziandole, le battaglie politiche nate dal basso: il politically correct non è mai antisistemico.

L’egemonia che è riuscito a conquistarsi non è infatti esente da logiche di dominio, economiche e politiche. Se alla nascita l’idea ispiratrice del politically correct era quella di una trasformazione culturale nel segno del rispetto di differenti sensibilità e punti di vista, oggi è, paradossalmente, divenuto lo strumento per silenziare un pensiero ‘diverso’, antagonista.

Il multiculturalismo non mette in discussione le catene del valore internazionali utili al capitalismo, le delocalizzazioni della produzione nei Paesi del Terzo mondo a salari da fame, l’imperialismo diretto o delle guerre per procura per il controllo di risorse o spazi geopolitici strategici da cui migliaia di persone scappano per non morire, arrivando nel ‘Primo mondo’; l’identità di genere declinata individualmente, e ancor più quella “percepita” contenuta nel Ddl Zan, archivia in cantina le battaglie femministe che lottavano contro il concetto di genere socialmente agito, in un’ottica di rivendicazione ed emancipazione collettiva e non certo individuale (3). Fintamente emancipativo, il politicamente corretto ci immobilizza socialmente, divenendo quindi regressivo. La destra lo rifiuta in nome di un tradizionalismo valoriale che ci incatena a una visione culturalmente eurocentrica, spesso maschilista e sempre patriarcale; la sinistra lo promuove sposando l’individualismo contro il concetto di classe sociale. Entrambe le posizioni reggono il gioco al capitalismo, non toccando infatti, nel proprio approccio, il piano sistemico dell’economia. “I valori progressisti sono diventati un potente strumento di branding” utile ai profitti delle imprese, mentre il politically correct promuove un “radicalismo sociale” che non mette in discussione disuguaglianze e sfruttamento causati dal capitalismo, contro un “radicalismo economico” potenzialmente antisistemico (4): Marx direbbe che il politicamente corretto si muove nella “vita celeste” senza intaccare la “vita terrena”.

“Mai convinto che distruggendo il capitalismo si sarebbe automaticamente distrutto il razzismo, ero tuttavia consapevole che non era possibile distruggere il razzismo senza spazzare via le sue radici economiche”: parole di Huey Newton, fondatore, insieme a Bobby Seale, delle Black Panthers (5). “Il tuo nemico è altrove non sono gli immigrati” recitava uno striscione a maggio, a Milano: nell’indeterminatezza di quel “altrove” sta tutta la drammatica incapacità di una analisi sistemica da parte delle nuove generazioni di sinistra. Incapacità figlia della rimozione del sapere storico anticapitalista – che cos’è il capitalismo, quale realtà sociale crea, con quali meccanismi agisce, come si è sviluppato nel tempo fino a oggi – operata delle generazioni precedenti a quella attuale, dunque non è a queste ultime e nemmeno al politically correct che si deve imputare tale responsabilità; e c’è chi afferma che radicalismo sociale e radicalismo economico potrebbero essere due battaglie che si tengono l’una con l’altra, e in teoria può essere, ma non oggi. Perché la cultura del radicalismo economico si è perduta ed è quindi interamente da ricostruire, mentre il politically correct è divenuto l’unico strumento del radicalismo sociale: e rifiutando l’argomentazione razionale e creando conformismo, rende ancora più difficoltosa la rinascita di un pensiero antisistemico realmente e collettivamente emancipativo.


Note
1 Cfr. Giovanna Baer, Dividi et impera. La cancel culture e il woke capitalism, pag. 10
Cfr. Elisabetta Groppo, Virus volant, verba manent? Il lessico al tempo del Covid-19, Paginauno n. 72/2021
Cfr. Daniela Danna, Se il genere cancella il sesso, Paginauno n. 66/2020
4 Giovanna Baer, art. cit.
5 Cfr. Iacopo Adami, La colonia interna, pag. 60

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